L’economia sovietica: parabola di un capitalismo atipico
di Edoardo De Marchi
Presentazione
Come abbiamo scritto nel nostro primo editoriale, questo blog ospiterà e produrrà sia interventi sulla congiuntura politica, sia più ampie riflessioni sulla fase storica attuale, sia testi teorici di diversa lunghezza ma di apprezzabile densità. A quest’ultima categoria appartiene lo scritto che, estrapolandolo da un suo lavoro in progress, Edoardo De Marchi ha voluto predisporre proprio per Socialismo 2017. Si tratta di una interessante sintesi dell’intera esperienza economica sovietica, ispirata alle letture di Charles Bettelheim e Gianfranco la Grassa ma avente una propria autonoma direzione. Al di là degli accordi e dei dissensi, Socialismo 2017 sceglie o chiede testi che rimettano all’ordine del giorno la discussione sul socialismo e lo facciano con serietà teorica e culturale: si vedrà facilmente che il bel contributo di De Marchi corrisponde in pieno a questi requisiti.
EDOARDO DE MARCHI – Ha insegnato Storia nella secondaria superiore e discipline economiche presso l’Università di Venezia. Si è dedicato a studi relativi all’intreccio fra evoluzione dei paradigmi economici e trasformazioni del capitalismo, pubblicando vari testi su questi temi. Tra gli ultimi ricordiamo Verso un nuovo capitalismo , Unicopli 2007 (con G. La Grassa) e L’economia politica del capitalismo industriale, Unicopli 2011.
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Pur costituendo un testo autonomo, lo scritto è stato estrapolato da un più ampio lavoro in corso di elaborazione relativo all’inquadramento storico e teorico dei principali modelli di capitalismo del Novecento. Le pagine qui presentate sintetizzano la parabola dell’economia sovietica a partire da un preciso punto di vista, che considera il sistema economico sovietico come una forma atipica di capitalismo di stato.
L’autore concorda con Charles Bettelheim nel ritenere che l’economia sovietica sia riconducibile a una forma di capitalismo di stato, ma si distacca in parte dal marxista francese, ritenendo che esso rappresenti un capitalismo di stato atipico, nel quale è stato inibito l’impulso della “distruzione creativa” che gioca un ruolo di primo piano nell’analisi della dinamica capitalistica in Marx e Schumpeter. La mancanza di tale spinta si è sommata agli altri caratteri antagonistici della formazione di classe sovietica, rendendola incapace di sostenere un processo continuo di innovazione in grado di sostenere la competizione col capitalismo.
I primi tre paragrafi del lavoro si soffermano sulla nascita del sistema economico sovietico, evidenziandone le fasi interne e il tormentato percorso che l’ha condotto a cristallizzarsi nella sua configurazione classica durante il periodo staliniano. Dopo aver discusso le caratteristiche salienti di questo modello socioeconomico richiamate più sopra, gli ultimi tre paragrafi ripercorrono le contraddizioni del capitalismo di stato sovietico nel dopoguerra.
L’impossibilità di restaurare il modello staliniano, evidente fin dall’inizio degli anni Cinquanta, portò a due successivi tentativi di riforma, che tuttavia non intaccarono mai il sistema di potere che stava alla base della pianificazione. In età cruščeviana si puntò soprattutto su un decentramento regionale della gestione economica, risoltosi tuttavia in una grave accentuazione delle pressioni localistiche, mentre in quella brežneviana si cercò di rendere più autonome le decisioni d’impresa senza però modificare la cornice burocratica della pianificazione. Le deficienze della direzione industriale, unite a quelle croniche dell’agricoltura, determinarono conseguentemente, fin dalla metà degli anni Settanta, una stagnazione destinata a sboccare nella crisi definitiva del sistema.
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1 – Lo scontro fra stato sovietico e mercato
Mentre il capitalismo si dibatteva tra i problemi del dopoguerra e della crisi mondiale, la rivoluzione sovietica creò un sistema economico nuovo, caratterizzato, nella sua forma matura, da due elementi di fondo particolarmente appariscenti: la proprietà statale dei mezzi di produzione e di scambio e la direzione pianificata dell’economia. Tale assetto, mantenutosi praticamente fino alla fine dell’esperienza sovietica, non fu tuttavia il frutto di una predeterminata chiarezza di intenti. Certamente nelle intenzioni del gruppo dirigente bolscevico vi fu fin dall’inizio l’idea di mantenere le leve fondamentali dell’economia sotto il controllo dello stato sovietico, ma tale progetto era compatibile con diverse configurazioni organizzative concrete e raggiunse la forma classica cui si accennava più sopra attraverso un processo lungo e spesso – se non tortuoso – certamente lontano da quella linearità che un approccio superficiale alla realtà storica potrebbe ipotizzare.
Volendo ricostruire gli sviluppi storici del periodo posteriore alla rivoluzione è opportuno distinguere tre fasi di fondo: 1) quella iniziale, in cui il potere sovietico dovette fronteggiare compiti gravosissimi cercando di far funzionare sotto il controllo statale un’industria ai limiti del collasso e un’agricoltura il cui assetto economico era assai diverso da quello che l’ortodossia marxista era abituata a postulare per una società socialista; 2) alcuni anni (’21-’29) durante i quali il partito comunista accettò una larga presenza della piccola impresa privata e ricercò con essa un compromesso resosi via via più difficile; 3) la rottura definitiva di tale progetto e il lancio del grande programma di industrializzazione e collettivizzazione che negli anni Trenta, con costi sociali pesantissimi, creò un sistema destinato a condizionare molti aspetti della vita economica e politica sovietica fino all’ultimo periodo di esistenza dell’URSS.
Negli anni immediatamente a ridosso della rivoluzione la società sovietica fu sconvolta da un susseguirsi convulso di eventi, nel quale la guerra civile e l’inflazione dominarono la scena. Dalla seconda metà del ’18 alla fine del ’20 il territorio sovietico fu teatro di scontri accaniti che amputarono temporaneamente ampi spazi economici e contribuirono a disarticolare l’economia già provata dalla disorganizzazione seguita al rivolgimento politico. All’economia sovietica mancavano combustibili, minerali e materie prime, rifornimenti alimentari per le città (1). Mentre la produzione ristagnava, il rublo – il cui valore nel 1921 era meno del 2% di quello del ’17 – veniva travolto dal flusso delle emissioni, che costituiva ormai la fonte principale di entrata dello stato e che diede all’inflazione sovietica un’imponenza seconda soltanto a quella tedesca. Queste tendenze di fondo contribuirono ad amplificare i risvolti imprevisti dei provvedimenti presi nel corso della rivoluzione riguardo ai trasferimenti di proprietà della terra e dell’apparato industriale, nonché ai problemi controllo che ne derivavano.
La prima e forse più grave difficoltà che si trovò nella costruzione di un nuovo sistema economico fu certamente il problema della terra e della condizione contadina. L’assetto delle campagne russe era apparso instabile fin da primi mesi del ’17. Di fronte alla crisi incipiente, ancora in aprile i bolscevichi si mantenevano contrari alla spartizione della terra fra i contadini e favorevoli alla usuale prospettiva marxista di un’agricoltura condotta su larga scala. Già nel corso dell’estate, tuttavia, mentre i socialisti rivoluzionari, che tradizionalmente rappresentavano i contadini, continuavano nel sostanziale immobilismo derivante dalla scelta di partecipazione al governo provvisorio (2), i bolscevichi si inserirono in questa contraddizione crescente. Lenin, in particolare, maturò una svolta di rilievo: egli riconobbe infatti che l’appoggio contadino ad una rivoluzione radicale contro il capitalismo avrebbe reso possibile l’accoglimento delle richieste contenute nell’ipotesi di decreto sulla spartizione delle terre avanzata dai socialisti rivoluzionari. Fu sulla base di questo mutato atteggiamento che il decreto approvato all’indomani della rivoluzione poté mettere la terra a disposizione dei soviet (3).
L’attuazione di questa politica si configurò come un insieme di iniziative attuate su scala locale, con metodi e criteri differenti. Nella maggior parte dei casi la terra dei latifondi e quella dei proprietari benestanti o precedentemente usciti dalle comunità a seguito dei provvedimenti di Stolypin fu divisa tra i contadini dei dintorni ed aggiunta a quella eventualmente già posseduta da essi. La spartizione, avvenuta tra l’altro fra una popolazione rurale artificialmente gonfiata dal ritorno alle campagne verificatosi durante il conflitto, portò conseguentemente ad una frammentazione delle terre divise e ad incrementi poco significativi della superficie coltivabile disponibile per le piccole aziende contadine. I correttivi teoricamente previsti per livellare le sperequazioni seguite alla divisione di fatto non furono applicati (4).
Sotto la spinta del divario fra aumento rapidissimo dei prezzi del mercato libero – sospinti dalla svalutazione monetaria – e i prezzi pagati dallo stato per gli ammassi obbligatori, le consegne mensili di grano diminuirono vertiginosamente, fino al pratico annullamento verso la metà del ’18. In quella fase il governo sovietico non fu sfiorato dall’idea di riattivare in qualche modo i meccanismi di mercato (5). La distruzione di questi ultimi, anzi, fu portata avanti con determinazione e affiancata da una deliberata pressione sui contadini agiati attuata mediante l’istituzione di comitati di contadini poveri e raggruppamenti armati al fine di estorcere le consegne (6). Inevitabilmente tale politica, aggravata da un afflusso del tutto insufficiente di manufatti alle campagne (7) si tradusse in una contrazione delle semine, destinata a provocare o aggravare i fenomeni di carestia, come avvenne nel ’21. Il tentativo di sopprimere il mercato era giunto dunque ad esiti catastrofici.
Un’ oscillazione iniziale analoga a quella che si verificò per l’agricoltura contraddistinse l’azione dei bolscevichi per quanto riguarda l’industria. La linea da essi propugnata prima della rivoluzione, infatti, non prevedeva in alcun modo un immediato programma di nazionalizzazione e di istituzione di un’economia pianificata. La nazionalizzazione era prevista per le grandi banche e per i grandi trust già esistenti nei fatti, ma questi provvedimenti erano finalizzati soprattutto ad evitare che lo sfacelo crescente dell’economia venisse gestito dalle forze legate al grande capitale. Una gamma sempre più articolata di controlli era già stato attuata dai grandi paesi capitalistici durante la guerra e in Russia i bolscevichi intendevano ampliarla, rendendola esercitabile dal popolo attraverso l’abolizione del segreto commerciale ed una più generale trasparenza della contabilità delle grandi aziende e dei loro rapporti con lo stato.
Le nazionalizzazioni, non previste in modo massiccio in quella fase iniziale, si imposero nondimeno sotto la spinta delle circostanze. In molti casi esse derivarono da decisioni autonome dei collettivi operai, in altri furono causate dalla rovina e dalla disgregazione in cui versavano le aziende di fronte al disinteresse e all’abbandono da parte dei capitalisti e/o dalla reazione all’atteggiamento del padronato, che non accettava forme di controllo operaio. Inizialmente si trattava tuttavia di casi singoli, nei quali spesso l’autorità centrale veniva ad avallare decisioni di fatto già prese nelle situazioni locali. Il partito cercò di imporre l’idea che il controllo operaio, di per sé auspicabile, andasse tradotto in atto nel più ampio quadro dell’azione esercitata da tutti gli organismi sovietici, ma tale linea si impose solo lentamente (9) .
Nel frattempo tuttavia era stato creato il Consiglio Superiore dell’Economia Nazionale (Vesenkha), che assorbiva e soppiantava anche l’apparato del controllo operaio. Inizialmente, le attribuzioni di tale consiglio centrale erano piuttosto vaste e indeterminate; nelle intenzioni esso avrebbe dovuto infatti esercitare il controllo su ogni aspetto dell’economia nazionale. In realtà, le funzioni del nuovo organismo vennero restringendosi alla politica e all’organizzazione del settore industriale. Esso utilizzò in molti casi strutture già esistenti, create per la gestione dell’economia di guerra. Differenti in linea di principio, organizzazioni vecchie e nuove finirono per confluire, col procedere delle nazionalizzazioni, in una piramide di controllo burocratico che partiva dal centro e si irradiava verso il basso (10).
Naturalmente la scarsa conoscenza dei singoli settori da parte delle autorità centrali, la mancanza di dati su cui basarsi, gli scarsi collegamenti e lo stato caotico dei rifornimenti e dei mercati facevano sì che l’influenza della direzione centrale fosse molto scarsa. Questo si rifletté drammaticamente sul livello della produzione industriale, che precipitò, soprattutto nelle grandi unità maggiormente centralizzate (11). Nel settore industriale non meno che in quello agricolo, dunque, alla fine del periodo della guerra civile lo sforzo di sostituire la direzione centrale al mercato era approdato a un punto morto.
2 – Il difficile compromesso col mercato. Origine e crisi della NEP
La lenta ricomposizione delle tensioni che laceravano la società sovietica, come è noto, prese avvio nel ’21, col limitato ripristino di relazioni di mercato realizzato dalla NEP. La svolta, che non era stata posta in alcun modo all’ordine del giorno nel corso del ’20 e sulla quale non si era svolto di conseguenza un dibattito significativo, fu messa all’ordine del giorno dall’incalzare degli eventi e sottoposta da Lenin agli organismi centrali del partito proprio alla vigilia del drammatico episodio di Kronstadt (il successivo X Congresso del partito si svolse nel marzo del ’21 proprio mentre la repressione della rivolta era in corso).
Ferma restando la nazionalizzazione della parte essenziale della grande industria e delle banche, l’intento iniziale della NEP era di riscuotere dai contadini una imposta in natura di entità minore delle eccedenze che venivano anteriormente prelevate e di permettere lo scambio di quanto rimaneva disponibile sui mercati locali. In realtà, la necessità di far arrivare il grano in aree lontane impose ben presto anche l’ampliamento e la legalizzazione del commercio privato. Nello stesso tempo, inoltre, attività nazionalizzate inefficienti e piccole imprese passate in mano allo stato furono date in concessione ai privati; le piccole imprese sfuggite alla nazionalizzazione, infine, trovarono un quadro migliore entro cui continuare o riprendere l’attività. In sintesi, ci si andò incamminando verso «una forma di economia mista, con una grande prevalenza del settore agricolo privato, e con la legalizzazione del commercio e della piccola industria privata » (12) .
Naturalmente questo risveglio dei rapporti di mercato, pur verificandosi in una fase nella quale il rublo-carta rimaneva in circolazione fino ad annullare praticamente il suo valore (13), alla lunga non avrebbe potuto reggersi se non poggiando su una moneta stabile. Fu concepita dunque una riforma monetaria, elaborata in termini singolarmente legati a quella che era l’ortodossia finanziaria occidentale dell’epoca, che mise capo (luglio ’22) ad una moneta a base aurea, garantita per il 25% da riserve d’oro e di valute stabili e per il resto da titoli e altre attività a breve scadenza (14).
La progressiva ripresa della produzione e il parallelo assestamento della sfera monetaria furono tuttavia ben lungi dal rivelarsi lineari. Nell’industria, il passaggio dalla gestione centralizzata alla convivenza coi rapporti di mercato implicava infatti che le imprese, finora inserite nelle articolazioni di un apparato governato unitariamente dal centro, andassero a formare unità commercialmente autonome dette trust, la cui costituzione fu rapidamente attuata tra il ’21 e il ’22. Solo una parte ridotta di essi, riguardante settori considerati strategici, mantenne un legame privilegiato di rifornimento e di vendita con lo stato, mentre gli altri dovettero operare prontamente sul mercato libero in base al criterio del calcolo puramente economico della redditività.
Nell’affrontare la nuova situazione, i trust si trovarono privi dei rifornimenti statali centralizzati e con scarso capitale di esercizio. Conseguentemente la loro prima reazione fu uno sforzo convulso per collocare ad ogni costo i propri prodotti e vendere allo scopo di recuperare liquidità. Di fronte alla debolezza (relativa, perché la congiuntura nel suo complesso era inflazionistica) dei prezzi industriali, furono costituite progressivamente organizzazioni di acquisto e di vendita, veri e propri cartelli che consentirono ben presto di rallentare la tendenza.
Dalla seconda metà del ’22, la direzione dei prezzi industriali e agricoli iniziò ad invertirsi gradualmente: i prezzi relativi industriali cominciarono a crescere e quelli agricoli a ridursi, con un andamento caratteristico che ha reso famosa questa congiuntura economica come “crisi delle forbici” (15). La graduale chiusura delle “forbici” aprì una fase in cui l’economia sovietica prese la via della stabilizzazione monetaria e della ripresa produttiva, normalizzando i rapporti di mercato e la coesistenza fra il settore privato e lo stato. Se le grandi imprese industriali erano ormai controllate dallo stato, la piccola impresa privata non solo dominava l’agricoltura ma continuava ad avere un peso decisivo nella piccola produzione artigianale o semiartigianale, in gran parte gestita dal capitale privato; un ruolo rilevante – oltre il 40% verso la metà degli anni Venti – era inoltre giocato da quest’ultimo nel commercio, in particolare in quello al minuto (16).
Naturalmente, la funzione crescente affidata alle forze dell’economia privata e del mercato nella ripresa economica non poteva non riflettersi sulla situazione delle campagne, nelle quali riprendevano fiato le differenziazioni sociali tra i contadini. In esse, com’è ovvio, giocava una parte fondamentale l’ampiezza delle proprietà, ma anche altri fattori costituivano una presenza ugualmente di primo piano: l’impiego di lavoro salariato proveniente dai livelli più bassi della gerarchia sociale nelle campagne, l’affitto delle terre da parte di contadini poveri ad altri più benestanti o la cessione dietro corrispettivo da parte di questi ultimi di animali e/o attrezzi etc; di importanza rilevante, infine, era l’inserimento dei contadini più ricchi nel circuito commerciale o finanziario, l’esercizio dell’usura etc. Anche la recente riforma monetaria, in questo contesto, era tutt’altro che neutrale. Messa a punto col contributo determinante di tecnici che avevano lavorato nelle vecchie istituzioni finanziarie, essa prendeva molto sul serio il gold standard e richiedeva che si facesse appello a quelle classi che, potendo agevolare le esportazioni agricole, contribuivano a stabilizzare il rublo (17).
Fu in questo periodo che divenne centrale – o ridivenne, se si considera il periodo precedente alla guerra – la figura del kulak e con essa il dilemma del rapporto fra kulaki e il sistema sovietico. Attorno a questo problema, come è noto, infuriarono lunghe e violente dispute, nel corso delle quali la stessa identificazione delle caratteristiche essenziali del kulak, già non facile di per sé, fu piegata a fini polemici funzionali alla lotta politica. La storiografia attuale si dimostra pienamente consapevole di quanto sfuggenti fossero i caratteri definitori del kulak degli anni Venti (18), ma anche la parte più avvertita degli studiosi tradizionali – come ad esempio Carr, che pure accetta in linea generale di far coincidere il kulak col piccolo capitalista rurale – si è mostrata cosciente di muoversi su un terreno scivoloso (19).
In un primo tempo la politica sovietica – si era nella fase in cui il triumvirato Stalin–Kamenev–Zinov’ev era impegnato nella lotta contro Trockij – si dimostrò favorevole a lasciare margini di sviluppo alle aziende contadine e quindi allo strato superiore delle campagne che ne stava alla testa (20). Proprio nel momento di massimo successo, la politica di apertura nei riguardi delle forze dell’economia privata entro le campagne trovò i suoi primi ostacoli. Per comprendere le tendenze in atto, bisogna tener presente che nella società sovietica, più egualitaria di quella che l’aveva preceduta, la percentuale maggiore della produzione di grano non derivava tanto dai kulaki, quanto dai contadini medio-poveri che coltivavano in primo luogo per l’autoconsumo e che vendevano soprattutto per comprare prodotti industriali o per pagare le imposte (21). L’importanza fondamentale dei kulaki, in questa fase, non derivava tanto dal ruolo che essi esercitavano nella produzione di eccedenze per il mercato, ma dai condizionamenti che con la loro posizione economica preminente esercitavano sugli altri contadini e dalla collocazione strategica che occupavano nella commercializzazione dei prodotti agricoli (22) .
Fu in questo quadro che la NEP iniziò a muoversi fra contraddizioni crescenti di ordine politico ed economico. Sul primo versante, dal ’25 Zinov’ev e Kamenev ormai erano passati all’opposizione; essi per ora si muovevano separatamente dalla cosiddetta “opposizione industriale” alla quale era vicino anche Trockij, ma indubbiamente questo insieme di forze esercitava una pressione sulla maggioranza (guidata da Stalin e Bucharin), spingendola a limitare le attività private. Queste ultime, d’altra parte, davano luogo a fenomeni speculativi basati sul vantaggio di cui godevano i contadini più abbienti nel momento immediatamente successivo al raccolto, sicché furono necessari provvedimenti restrittivi. Questi ebbero un successo pressoché completo nel limitare la speculazione, ma la resistenza degli interessi colpiti venne a galla l’anno successivo, allorché gli ammassi subirono una preoccupante contrazione (23).
E’ ben noto, d’altra parte, che negli sviluppi che determinarono di fatto la fine della NEP giocò un ruolo di primaria importanza anche la crisi dei rifornimenti di manufatti alle campagne. Questo fenomeno è ben presente alla storiografia tradizionale, ma Charles Bettelheim ha dato ad esso una lettura di particolare interesse. Secondo l’economista francese, nel ’27 il commercio con le campagne era ormai in larga parte in mano, specialmente all’ingrosso, a organizzazioni statali e cooperative, ma lo stato tendeva a lasciare ad esse soprattutto un ruolo commerciale, trascurando di orientare la cooperazione verso un ruolo produttivo e di rifornire le aziende dei contadini piccoli e medi di manufatti tradizionali – elementari ma estremamente necessari alle aziende contadine – come aratri in ferro, strumenti per la semina e l’aratura, asce, seghe etc. La mancata fornitura di manufatti frenava la volontà di vendere da parte dei contadini e quindi limitava gli ammassi.
Impreparato a gestire la situazione, l’apparato reagì fra il ’27 e il ’28 accentuando le pressioni coercitive e ottenendo quindi un apparente successo, che in prospettiva era destinato però a provocare nuove resistenze; furono così poste le basi per un nuovo grave fallimento degli ammassi nel ’28-29 (24). Agli occhi del vertice del partito ogni margine di coesistenza con l’economia contadina stava rapidamente venendo meno e non rimaneva dunque altra strada che la collettivizzazione dell’agricoltura.
3 – La rivincita degli apparati di stato
In certa misura la fine della piccola azienda agricola in Unione Sovietica era prevedibile. Una volta terminata la ricostruzione e posto in essere un grande piano di investimenti industriali, infatti, era evidente che l’agricoltura fondata sulle piccole imprese private avrebbe dovuto prima o poi cedere il passo a forme socialmente e tecnicamente più evolute di coltivazione. Ciò che contraddistingue specificamente la realtà sovietica, tuttavia, fu la modalità particolarmente traumatica in cui il processo si verificò, indicativa del tipo di rapporti sociali che stava diventando dominante e che trovò puntuale riscontro nella sfera politica .
Il periodo che va dal ’26 all’inizio degli anni Trenta rappresenta una progressiva accelerazione delle trasformazioni economiche e insieme una brusca distruzione degli equilibri sui quali poggiava la società negli anni della NEP. Il mutamento è ben visibile anche dagli indici economici più esteriori. Sotto la spinta congiunta delle nuove iniziative statali e del correlativo venir meno delle attività private, la quota del prodotto attribuibile al settore privato passò infatti dal 51,1 % nel ’26-’27 al 39 % nel ’29, con un calo di circa 12 punti percentuali sul prodotto totale. Nei tre anni successivi, alla fine del ’32, il prodotto privato cadde al 9,3%, perdendo circa 30 punti percentuali, in larghissima parte a spese dell’agricoltura (25).
Prima della svolta legata alla collettivizzazione si era cercato di mantenere un compromesso tra due sollecitazioni opposte: da un lato, per togliere spazio all’opposizione di sinistra (ora unificata) di Trockij, Zinov’ev e Kamenev, che propugnava soluzioni industrialiste, si doveva ammettere l’opportunità di intraprendere un più deciso percorso di industrializzazione; dall’altro si cercava ancora di segnare dei limiti a quest’ultimo, insistendo affinché non violasse la compatibilità con il quadro economico-politico della NEP. Su questa linea rimasero la XV Conferenza (ottobre-novembre 1926) e il XV congresso (dicembre ’27) che ratificò la sconfitta politica dell’opposizione di sinistra. Di lì a poco tuttavia irruppe sulla scena la crisi agricola del ’27-’28 coi suoi successivi sviluppi e i giochi si riaprirono.
Dall’estate del ’28 le contraddizioni derivate dalle politiche finora perseguite verso i contadini erano entrate in una fase nuova. Stalin – eliminati gli altri oppositori – era ormai in grado di indebolire la “destra” di Bucharin mentre nello stesso tempo si esplicitava l’idea che il problema dell’agricoltura fosse risolvibile solo mediante un immediato rinnovo della sua base tecnica, grazie alle attrezzature moderne che lo sviluppo industriale avrebbe messo a disposizione.
Nel frattempo l’attivismo del settore statale aveva avuto già modo di farsi sentire. Tra il ’26 e il ’29, infatti, si assistette a una pressione costante del Vesenkha – quartier generale della direzione industriale – su altri importanti commissariati e sul Gosplan (l’organismo di elaborazione del piano) al fine di aumentare sensibilmente il volume degli investimenti industriali; questa tenace attività fu particolarmente sensibile in sede di elaborazione del piano quinquennale, quando si instaurò un confronto serrato tra Vesenkha e Gosplan, con il primo organismo ininterrottamente impegnato nella revisione verso l’alto degli obiettivi del piano. Incalzato da queste spinte, alla fine il Gosplan elaborò le due versioni del piano, quella di base e quella ottimale. Fu quest’ultima ad esser presa come variante di riferimento dei dibattiti di partito culminati nella XVI conferenza (aprile del ’29), avallati subito dopo dal congresso dei Soviet (26) In essa le posizioni della destra furono ulteriormente stigmatizzate, ma gli obiettivi di collettivizzazione rimasero ancora relativamente contenuti e soprattutto si evitò ancora una volta di mettere in questione in linea di principio il quadro di fondo della NEP.
A questo stadio una delle caratteristiche fondamentali della pianificazione industriale, ossia l’aumento prioritario della produzione di mezzi di produzione rispetto a quella dei beni di consumo, era già ben consolidata. Nelle previsioni del piano, tuttavia, il rinnovamento delle strutture agricole conservava ancora una componente di gradualità; si ipotizzava infatti che nel ’33 il settore socializzato dell’agricoltura (sovcos e colcos) si sarebbe limitato a fornire il 16% del raccolto complessivo di cereali; una completa collettivizzazione, nelle opinioni dei pianificatori, avrebbe dovuto attendere per oltre un decennio (27). Fu solo verso la fine del ’29, in una situazione nella quale la destinazione delle risorse ormai prioritariamente indirizzata all’industria rendeva di fatto impossibile ogni compromesso, che il ritmo di collettivizzazione fu giudicato insufficiente a sostenere la crescente domanda urbana e i rilevanti trasferimenti di popolazione creati prevedibilmente dall’industrializzazione accelerata (28).
L’intreccio tra collettivizzazione e sviluppo accelerato, di cui ricostruiamo brevemente le tappe essenziali soprattutto al fine di fissare le idee sul modello di capitalismo a cui misero capo le drastiche scelte della dirigenza staliniana, si svolse seguendo un percorso contraddittorio e conflittuale. Nel settore agricolo, i momenti più critici si registrarono soprattutto nel ’30 e nel ’32-’33. Dal momento in cui fu annunciata la “dekulakizzazione” (dicembre ’29) il ritmo di collettivizzazione fu drasticamente accresciuto e furono appesantite le pressioni coercitive sotto forma di confische, discriminazioni, deportazioni. Il carattere brutale e nello stesso tempo caotico di questo impulso portò a collettivizzare in pochissimi mesi fino al 55% la percentuale di proprietà famigliari contadine, ma determinò un sommarsi di resistenze, disordini e disorganizzazione che giunsero ben presto a livelli pericolosi. Non solo, infatti, si rischiava di compromettere le semine primaverili, ma anche, in alcune zone, di giungere a vere e proprie rivolte alimentate da potenze esterne (29). Fu paradossalmente lo stesso Stalin, che aveva sollecitato in tutti i modi i quadri locali a spingere in modo forsennato verso la collettivizzazione, a tirare improvvisamente il freno – con un noto intervento del marzo del ’30 – prima che si determinassero sviluppi incontrollabili (30).
La tensione, il cui allentamento aveva determinato un regresso di oltre la metà delle proprietà contadine collettivizzate, riprese tuttavia l’anno successivo. Le aziende collettive aumentarono rapidamente il proprio numero, ma in un contesto nel quale lo stato continuava ad effettuare esazioni pesantissime e in cui la difesa contadina passava attraverso la macellazione del bestiame per non farlo confluire nei colcos e/o la vendita e l’immagazzinamento clandestini del grano. Mentre il patrimonio zootecnico diminuiva rapidamente perfino quando era nelle mani dei colcos, non sempre attrezzati a gestirlo, nel ’32 le semine si contrassero pericolosamente, determinando una vera e propria carestia che si protrasse nel ’33; per alcuni anni i raccolti rimasero a livelli minimi e il reddito agricolo rimase praticamente stazionario fino alla fine degli anni Trenta (31) .
Pur pagando costi altissimi, che nocquero in vari modi all’efficienza economica e compromisero per molti anni i rapporti tra stato sovietico e contadini, già dalla metà degli anni Trenta la collettivizzazione era un fatto praticamente compiuto e irreversibile. Entro i colcos i produttori non controllavano più le proprie condizioni di lavoro e per certi aspetti la loro condizione era assimilabile a quella del salariato. L’attività lavorativa veniva infatti controllata dall’alto, da direzioni nominate con la costante interferenza dei comitati di partito che agivano attraverso un proprio apparato di sorveglianza. Le remunerazioni provenivano da un fondo residuale che rimaneva al colcos dopo aver soddisfatto tutti gli obblighi ed erano ripartite in riferimento a standard di giornata lavorativa stabiliti dalle autorità in relazione ai compiti, configurandosi di fatto secondo il principio del cottimo; unica forma di autonomia concessa al contadino erano il piccolo appezzamento e il bestiame accordati per uso personale. Si può aggiungere che nell’azienda collettiva prevalevano condizioni che ricordavano il capitalismo in una forma primitiva e semiservile: un sistema di sanzioni interne decise dalla direzione senza pratica possibilità di ricorrere a un controllo giudiziario esterno, l’esclusione dalle garanzie sindacali – per quanto divenute ormai puramente formali – e dalle forme di assistenza riservate ai salariati, l’impossibilità di lasciare l’azienda senza permesso.
Nell’industria, dove i residui passati da liquidare erano minori, lo sconvolgimento fu meno traumatico che nell’agricoltura, ma anche qui appare evidente come gli obiettivi fissati per i piani fossero stati concepiti e gestiti con l’intento di forzare ogni limite. Visto che gli obiettivi del primo anno del piano erano stati raggiunti, furono aumentati anche quelli per l’anno seguente; il risultato di questa scelta fu al di sotto delle previsioni fatte all’atto della decisione, ma al di sopra di quelle contenute nella stesura originaria del piano. Di qui l’ulteriore progetto di accelerare la produzione saltando l’ultimo trimestre del 1930 (sincronizzando cioè anno economico e anno solare) e di un aumento eccezionale per il ’31, in modo da realizzare il piano in quattro anni. Per quanto il risultato d’insieme fosse stato ragguardevole, il raggiungimento di questi ultimi obiettivi fu mancato in modo abbastanza vistoso. La grande espansione quantitativa ebbe inoltre vari risvolti negativi che si manifestarono ben presto già nel corso dell’esecuzione del piano: oltre a non aver realizzato gli obiettivi relativi ai beni di consumo, la produzione subì un forte scadimento qualitativo; i costi industriali non diminuirono nella misura velleitaria prevista dai pianificatori, mentre i finanziamenti statali richiesti per compensare queste deficienze nella dinamica produttiva determinarono tensioni inflazionistiche. Nel ’32, infine, l’apparato produttivo, scontò bruscamente le tensioni eccessive cui era stato sottoposto e la produzione industriale diminuì in modo inequivocabile (32).
Le grandi difficoltà emergenti in tutto il sistema economico fra il ’32 e il ’33 costrinsero il partito a prender atto della realtà. Gli obiettivi lanciati alla XVII Conferenza (gennaio-febbraio 1932), ancora impregnati dallo smodato entusiasmo produttivistico degli anni precedenti, furono rivisti al ribasso e ratificati in questa forma dal XVII Congresso del ’34. In esso, sotto la superficie degli elogi iperbolici tributati a Stalin, gran parte degli storici ravvisa il manifestarsi di un’opposizione latente nei riguardi di Stalin stesso e dei metodi usati nella fase iniziale dell’industrializzazione, sebbene resti in dubbio la connessione reale fra questo risveglio delle opposizioni e l’assassinio di Kirov (esponente a cui esse avevano probabilmente guardato), di poco posteriore, che diede avvio alle grandi purghe. Una parte considerevole degli stanziamenti andò a completare i progetti lasciati in sospeso nel quinquennio precedente, mentre il ribasso dei costi venne concepito in chiave meno ambiziosa. Anche se non tutti gli obiettivi del piano vennero conseguiti, la progressiva stabilizzazione economica consentì di abolire il razionamento, rimasto in vigore dal ’29 al ’35, sebbene le industrie dei beni di consumo rimanessero ancora una volta indietro rispetto agli obiettivi fissati.
Se nel complesso la struttura istituzionale consolidatasi nel corso dell’industrializzazione sembrava aver superato la prova della costruzione di un’industria di base nazionale, ciò era avvenuto tuttavia attraverso un pesante assoggettamento della classe operaia alle esigenze dell’accumulazione. Nell’industria, non meno che nell’agricoltura, il momento cruciale si situa dalla fine degli anni Venti in poi. Per tutto il decennio precedente i sindacati sovietici mantennero, per quanto non senza contraddizioni, il duplice ruolo di organismo di tutela degli interessi dei lavoratori e di partecipazione all’introduzione di misure finalizzate alla razionalizzazione e all’aumento della produttività. La rimozione di Tomskij dalla presidenza del Consiglio Centrale dei Sindacati, nel quadro della più generale offensiva contro l’opposizione di destra, può esser considerata il segnale della restrizione pressoché esclusiva dei sindacati alla collaborazione con le autorità di governo dell’apparato produttivo in funzione dell’accrescimento dell’efficienza industriale. Le funzioni del sindacato erano divenute pressoché indistinguibili da quelle del Commissariato del Popolo per il Lavoro, col quale il Consiglio dei Sindacati effettivamente si fuse (1933). La privazione di organismi operai rappresentativi si accompagnò negli anni Trenta a un generale indurimento della disciplina di fabbrica. Non solo l’abolizione della contrattazione collettiva portò alla determinazione dei salari dall’alto, ma i salari furono sempre più vincolati a una differenziazione progressiva e a forme di cottimo che tendevano a prendere come punto di riferimento prestazioni d’avanguardia (stachanovismo). L’inasprimento del dispotismo di fabbrica fu completato infine dalla restrizione della possibilità di lasciare l’impresa, da arbitri nell’assegnazione degli straordinari e dei riposi, a violazioni delle norme sulla sicurezza del lavoro e all’indurimento delle sanzioni sulle assenze (33). Delle conquiste dei lavoratori successive all’Ottobre rimaneva ormai ben poco.
Al crescente irrigidimento delle istituzioni economiche sovietiche faceva riscontro, in modo per molti versi ancor più evidente, una pesante involuzione del sistema politico. Se il regime sovietico, in particolare dall’epoca della guerra civile, aveva accentuato i suoi tratti autoritari, la lotta al vertice del partito che si era protratta durante il periodo della NEP si tradusse in una progressiva restrizione delle possibilità di dibattito e di dissenso. Le ultime fasi di tale confronto, svoltosi nelle chiuse stanze dell’oligarchia, portarono poi al trionfo di Stalin e i loro risultati furono semplicemente resi noti più tardi al partito e al paese. Il modo in cui i processi per sabotaggio, le violenze si massa e l’estensione dell’internamento nei campi di lavoro hanno accompagnato gli anni del grande balzo economico è troppo noto per necessitare di esser ricostruito in dettaglio, come lo è l’ondata di repressione del ’36-38, che una volta esaurita lasciò la vita politica del paese per un quindicennio nel clima cupo e paranoide della tarda età staliniana (34). E’ insomma evidente come nella seconda metà degli anni Trenta si fossero ormai delineati alcuni caratteri di fondo della società sovietica destinati a perpetuarsi, pur con ovvie trasformazioni, nei decenni successivi fino al crollo definitivo dell’URSS.
4 – Un capitalismo di stato atipico
Una volta esaminata la nascita del nuovo sistema economico rimane da risolvere l’interrogativo sulla struttura sociale che ad esso era sottesa. Il dibattito è durato alcuni decenni e altrove abbiamo cercato di ricostruirlo almeno in parte (35). In questa sede riprendiamo soltanto le conclusioni a cui siamo giunti esaminando quello che a nostro avviso rappresenta il contributo più valido all’analisi dell’economia sovietica in base ai rapporti di produzione, ossia quello di Bettelheim.
Ripercorrere l’itinerario seguito da Bettelheim nell’elaborazione delle proprie tesi travalica i compiti che qui ci siamo posti, i quali rimangono circoscritti alla valutazione del modello di sviluppo sovietico. Per tale ragione prenderemo in esame soprattutto l’ultimo volume delle Lotte di classe in URSS, non solo perché in esso si esamina il sistema sovietico nel suo insieme, ma anche perché vi si rettificano alcune delle premesse che stavano alla base della ricerca impostata inizialmente dallo stesso autore.
Mentre all’esordio della propria ricerca Bettelheim riteneva che a partire dall’ottobre del ’17 si fosse giunti all’involuzione graduale del potere sovietico verso una forma di capitalismo di stato tramite una serie di cedimenti e rotture dovuti a circostanze storiche particolari, al compimento di essa egli riconosce che la natura complessiva del processo aveva un senso profondamente diverso fin dall’inizio:
«[…] à travers un processus complexe et heurté, l’insurrection d’Octobre ouvre la voie à deux révolutions successives: celle qui s’oriente vers un capitalisme d’Etat composant avec la paysannerie – a partir de 1929 – celle qui jette les bases – au nom du socialisme et sous la direction du parti bolchevik – d’une forme extrême de capitalisme. Finalement, cette deuxième révolution, impulsée par la direction stalinienne, impose au peuple russe des rapports d’exploitation qui permettent pendant un certain temps de réaliser un taux d’accumulation exceptionnellement élevé, au prix d’une oppression sans précédent»(36).
Le caratteristiche generali del capitalismo sovietico sono sostanzialmente due. In primo luogo la borghesia sovietica si presenta formalmente come composta da salariati, ma solo la parte superiore di essa, quella borghesia che grazie alla sua appartenenza agli organismi decisionali del partito influenza le decisioni politiche, si configura come classe dominante (per questo Bettelheim ne parla come di una “borghesia di partito”) (37). Come ogni altro capitalismo, in secondo luogo, anche questa variante di capitalismo di stato si caratterizza per la tendenza all’accumulazione fine a se stessa, per la spinta immanente ad accumulare ricchezza, che nelle condizioni particolari della società sovietica prende la forma dello sviluppo prioritario della produzione di mezzi di produzione (38).
La forma particolare assunta dalle lotte di classe, che ha portato all’affermazione della proprietà statale, e lo sviluppo massiccio di una accumulazione primitiva fortemente centralizzata, favoriscono in URSS il predominio della rappresentazione ideologica del piano, secondo cui lo stato controlla in modo equilibrato la crescita dell’economia. Al di là di questa rappresentazione, tuttavia, il conflitto tra i vari frammenti del capitale sociale continua a farsi sentire. La concorrenza, intesa in questo senso, non risulta affatto abolita, ma assume semplicemente una conformazione diversa: essa opera entro la cornice esteriore del piano ed assume i contorni di una spinta, da parte di ogni frazione capitalistica o apparato, alla ricerca di quote maggiori di risorse, alla creazione di riserve occulte, all’aggiramento di normative che permetta di raggiungere più facilmente gli obiettivi imposti (39).
Riservandoci di tornare tra poco sui caratteri di questa permanenza occulta della concorrenza, ci preme di sottolineare ora come per Bettelheim, assieme alla concorrenza, persistano sotto altre forme anche le crisi, che la pianificazione in teoria dovrebbe aver abolito. In altre parole, i rallentamenti o i veri e propri arresti della crescita avvenuti negli anni Trenta (’33 e ’37) non sono da considerare casuali, ma rappresentano il risultato di una spinta alla sovraccumulazione. La crisi del ’33, in particolare, evidenzia bene come l’accumulazione accelerata abbia drenato in modo troppo brusco le riserve di forza lavoro disponibili, aumentando in modo eccessivo l’urbanesimo, squilibrando al contempo l’ammontare di investimenti a sfavore dell’agricoltura, già colpita dagli eccessivi prelievi per i consumi urbani e le esportazioni volte all’acquisto di attrezzature industriali all’estero; d’altra parte la crisi agricola retroagiva a sua volta sul settore industriale, perché la difficoltà di rifornire le città si traduceva in definitiva in un calo di produttività del lavoro (40).
Dal punto di vista della teoria marxista le crisi tipiche dell’economia sovietica hanno caratteristiche peculiari. Esse concretizzano come tipico quello che in Marx e nella realtà del capitalismo occidentale costituisce invece un caso limite, ossia quello della “sovraccumulazione assoluta”, cioè un aumento del capitale in rapporto alla popolazione operaia in proporzioni tali che esso non può esser compensato né da un aumento del plusvalore assoluto né di quello relativo. Rispetto alle crisi classiche del capitalismo, che sono crisi di sovrapproduzione di merci, qui la crisi si esprime attraverso una doppia penuria: di mezzi di produzione e di beni di consumo (41).
Concludendo, si tratta di un tipo di accumulazione prevalentemente estensiva e irregolare, che alla lunga non fa innalzare sufficientemente la produttività del lavoro.
Mascherata per un certo periodo dalle proporzioni grandiose assunte dal processo di industrializzazione, essa si traduce più tardi in una crisi strutturale:
«Pendant les années 1930 à 1950, la contradiction entre la capacité d’exploitation et d’accumulation du capitalisme de parti et sa capacité de faire croître la production a été partiellement masquée par les énormes transferts de population de l’agriculture vers l’industrie, ce qui a permis finalement de forts accroissements de la production globale. Cependant, déja à cette époque, la forme spécifique revêtue par les crises de suraccumulation du capital révélait que ce type de capitalisme n’est que faiblement apte à réaliser une accumulation intensive permettant d’accroître rapidement la productivité du travail, donc d’éviter des pénuries généralisées et d’augmenter substantiellement le niveau de vie des travailleurs. Ceci résulte des contraintes que ce capitalisme fait peser sur l’économie»(42).
Siamo ora in grado di riprendere la valutazione del discorso di Bettelheim – che in generale ci sembra largamente condivisibile – mettendo a fuoco la concezione della concorrenza tratteggiata più sopra. A questa posizione è stato opposto, da parte di Sweezy, che l’analogia fra i due tipi di concorrenza non è così profonda da argomentare una sostanziale identità tra capitalismo tradizionale e società di transizione al socialismo [Sts]: « Ciò che [Bettelheim] asserisce, e io nego, è che ci sia in corso un analogo processo nelle Sts che conduce a risultati sufficientemente simili tali da giustificare la classificazione dei due sistemi (capitalismo e Sts) quali varianti di una sola e medesima formazione sociale. Contrariamente a ciò che Bettelheim sembra credere, nella mia posizione non è inclusa anche la convinzione che nelle Sts esista un’autorità onnipotente (per non dire onnisciente) che tutto dispone, secondo un piano razionale. Ma esiste un’autorità centrale, estremamente potente, che cerca di organizzare molte delle cose più importanti e che è in grado di intervenire ovunque decida di farlo. Tali interventi possono riuscire a conseguire i risultati voluti oppure no: il fallimento può risultare frequente quanto il successo » (43).
È indubbio che, entro certi limiti, l’obiezione di Sweezy coglie nel segno, giacché Bettelheim, nello sforzo di mostrare la continuità fra il capitalismo di stato sovietico e il capitalismo occidentale, usa il concetto di concorrenza invalso nella tradizione marxista, ossia quello di una competizione tra frammenti del capitale che, in una situazione data, cerca di migliorare i profitti di ognuno di essi. Va rilevato tuttavia che tale forma di competizione non rappresenta le forme di conflittualità intercapitalistica nella loro interezza. È stato infatti notato – e proprio da parte di un marxista che in passato non ha mancato di tener largamente conto dell’opera di Bettelheim – che esiste un altro tipo di concorrenza, ancor più caratteristica del capitalismo, ossia la concorrenza che passa attraverso lo sconvolgimento della situazione data e che copre una vasta gamma di forme di competizione tra capitali, sia facendo leva sull’introduzione di prodotti nuovi che sulla continua apertura di territori economicamente profittevoli, richiedendo il ricorso ad alleanze e lotte per ottenere la supremazia oppure per escludere gli avversari dall’accesso a determinati settori. Essa «promuove l’apertura di interamente nuovi spazi economico-sociali, e culturali, in cui si precipitano colossali investimenti, con il periodico rinfocolarsi della competizione intercapitalistica (tra dominanti), che sgretola il monopolio pur nell’ambito di una crescita delle dimensioni imprenditoriali. Non sussiste una tendenza univoca al monopolio, come avverrebbe se la produzione crescesse lungo alcune direttrici fondamentali, sempre le stesse pur se caratterizzate dall’uso di macchinari via via più grandi, complessi e potenti » (44).
È evidente che quest’ultima e più radicale forma di lotta ha giocato un ruolo fondamentale nello sviluppo del capitalismo, permettendo la nascita di nuovi settori di produzione di beni di consumo, di mezzi di produzione, di sistemi di trasporto etc.; è la stessa forza potente che, in altro modo, opera attraverso l’apertura di nuovi mercati, di investimenti esteri, di forme di delocalizzazione. È precisamente questa modalità di progresso che è stata inibita dal capitalismo di stato sovietico. È ben noto, del resto, che se quest’ultimo, in una fase della propria storia, ha imitato efficacemente alcune tecniche esistenti in Occidente, ha poi sempre avuto difficoltà nello stimolare la ricerca di prodotti e tecnologie nuove e nel diffondere queste ultime entro il sistema economico. Mentre la forma di concorrenza che si è conservata è servita per difendere alcune sacche di inefficienza o al più per rendere più facile e flessibile la realizzazione degli obiettivi imposti dal piano, la mancanza dell’altra si è fatta alla lunga sentire e ha potentemente contribuito alla crisi storica del sistema.
Appare dunque fondatamente sostenibile che la mancata distinzione attribuibile a Bettelheim rende più difficile comprendere la trasformazione delle crisi cicliche in una permanente crisi strutturale. Nello stesso tempo, ad ogni modo, è difficile pensare con Sweezy che questa differenza tra capitalismo occidentale e società sovietica sia sufficiente per permettere di considerare quest’ultima come una formazione sociale sui generis. È vero, piuttosto, che essa ha dato origine a un capitalismo di stato atipico e inefficiente, il quale alla lunga ha sviluppato tratti parassitari che lo hanno visto soccombere nel confronto con quello occidentale (45). Le tappe attraverso le quali il capitalismo sovietico ha progressivamente palesato le proprie contraddizioni saranno ripercorse nel rimanente di questo scritto.
5 – Tramonto di un’era
Per l’Unione Sovietica l’immediato dopoguerra rappresentò un periodo decisamente più travagliato rispetto agli Stati Uniti. Il nuovo ruolo di superpotenza, infatti, le imponeva di tutelare la propria sfera d’influenza a livello mondiale rispetto agli Stati Uniti e quindi di impegnarsi, pur in condizioni di inferiorità economica, nel riarmo convenzionale e nella corsa per colmare il ritardo atomico. Nel contempo essa doveva contenere le contraddizioni interne alla propria sfera di influenza, inasprite non solo dalle tensioni Est-Ovest, ma anche dall’inaspettata resistenza della Jugoslavia di Tito e dal potenziale contagio che essa poteva costituire per gli altri paesi satelliti (47). A queste difficili condizioni esterne facevano riscontro all’interno le colossali perdite umane e le altrettanto gravi devastazioni economiche provocate dal conflitto mondiale, che davano luogo a miseria (aggravata dalla grande siccità del ’46) e degrado sociale. Anche la rigidità con cui vennero posti sotto controllo i territori che avevano subito l’occupazione tedesca e quelli di nuova acquisizione era fonte di conflitti; lo stesso rientro di reduci e prigionieri avveniva in un clima di sospetto e persecuzione (47).
Se la guerra aveva imposto una forzata coesione patriottica e l’allentamento delle forme più estreme di repressione, nelle nuove condizioni il regime staliniano reagì ricorrendo nuovamente – e spesso in forma più esasperata – a risposte ideologiche e repressive analoghe a quelle che avevano caratterizzato il periodo più buio degli anni Trenta. Il rinvigorirsi del nazionalismo russo si tradusse nella deportazione forzata di nazionalità minori e di ampi gruppi appartenenti a nazionalità più numerose, mentre prendeva quota – pur senza essere esplicitamente teorizzato a livello ideologico – l’antisemitismo. Nel campo della cultura la guerra fredda si tradusse immediatamente nello żdanovismo, che impose all’intellettualità sovietica – dagli artisti agli scienziati ai filosofi – una programmatica circospezione verso le idee occidentali e l’immediata sottomissione alle esigenze della propaganda.
Ancor più torbida di quanto fosse nel decennio precedente era l’atmosfera che circolava al vertice del potere politico. Non solo un congresso del partito non si riuniva dal ’39, ma gli stessi organismi collettivi che rimanevano in carica tra un congresso e l’altro non venivano quasi più convocati. Nemmeno il politburo funzionava in modo collegiale e regolare: esso era attraversato da rivalità reciproche tra i suoi membri e da una sempre più pesante diffidenza di Stalin verso i propri immediati collaboratori. Fu in questo contesto che, negli ultimi anni di vita del leader sovietico, vennero montati oscuri casi giudiziari (l’affare di Leningrado, quello mingreliano, il complotto dei medici) che indirettamente toccavano la posizione dei più influenti membri del vertice (48).
Queste tensioni interne, che paralizzavano l’attività dei massimi organismi sovietici, furono improvvisamente sciolte dalla morte di Stalin (5 marzo ’53), che riaprì i giochi politici e portò, nel giro di pochi anni, alla costruzione di una nuova leadership e a un mutamento nello stile di governo. All’indomani della morte di Stalin, i più quotati rappresentanti della nuova direzione collettiva erano Malenkov, Molotov e Berija. In quel momento sembrava assai più strategico controllare l’apparato dello stato che quello di partito e il vertice di questo, comunque molto importante, non poteva essere assegnato ai più prestigiosi componenti della gerarchia senza squilibrare vistosamente il loro reciproco rapporto di forze. Esso fu lasciato – con l’incarico di primo segretario – a Cruščev, considerato allora una figura relativamente minore la cui reputazione si basava soprattutto sulle sue competenze agricole.
Fu Cruščev che, in un modo apparentemente imprevisto, giunse poi a prevalere attraverso una lotta di successione articolata in tre tempi (49). Inizialmente, nel giro di pochi mesi, fu giustiziato Berija, il cui controllo sui servizi di sicurezza, nuovamente rafforzato dopo la morte di Stalin, rappresentava una minaccia collettiva per tutti i rappresentanti dell’oligarchia al potere. L’anno decisivo fu tuttavia il ’55, quando Cruščev riuscì a battere e ridimensionare separatamente Malenkov (inizio ’55) e Molotov (nella seconda metà dello stesso anno) (50). La preminenza cruščeviana, ormai sancita, si rafforzò nel ’56 col XX Congresso (51) e sopravvisse all’attacco portato dall’opposizione unita di Malenkov, Molotov, Kaganovič e altri (il c.d. “gruppo antipartito”) l’anno successivo.
Da fine guerra alla morte di Stalin la politica economica sovietica continuò a mantenersi all’interno delle linee tradizionali. La ricostruzione fu impostata in modo da dare la priorità all’industria pesante, e ai trasporti delle merci; la ricostruzione urbana veniva affrontata con un criterio molto selettivo dipendente dall’importanza delle città e dei singoli quartieri, mentre l’industria leggera e i beni di consumo furono sacrificati.
Nel complesso il lavoro di ricostruzione ebbe successo, ma a prezzo di una netta subordinazione dell’agricoltura. Il governo riaffermò nei colcos una rigida disciplina e forti carichi di lavoro, non modificò i prezzi di ammasso ed anzi impose alle aziende collettive molti ulteriori oneri, anche di tipo fiscale. Le imposte sugli appezzamenti privati dei contadini, inoltre, erano talmente elevate da costringere questi ultimi ad abbandonare coltivazioni e allevamento, accentuando la fuga dalle campagne.
Anche se le condizioni dei colcos erano differenziate a seconda delle colture prevalenti, della localizzazione e della superficie, molti di essi erano sull’orlo del collasso. L’iniziativa promossa da Cruščev e realizzata fra il ’50 e il ’52 di ridurre il numero delle aziende collettive attraverso la loro fusione obbligatoria, apparentemente avrebbe dovuto rendere più razionale l’avvicendamento delle colture e migliorare l’organizzazione, portò in realtà a benefici limitati. L’inefficienza delle aziende più malridotte, infatti, si tradusse in un aggravio per quelle più produttive con cui erano state accorpate e, in assenza di un sistema efficiente di trasporti, il movimento della manodopera all’interno di aziende di molte migliaia di ettari fu reso difficoltoso (52).
Nel settembre del ’53 si cominciò a porre in atto alcuni provvedimenti che sgravavano la condizione dei contadini. L’alleggerimento della fiscalità e l’incoraggiamento che in questa e in altre forme venne dato all’allevamento privato nel giro di pochi anni aumentò in modo sensibile i capi di bestiame (53). Nelle questioni economiche come in tutti gli altri campi della vita sovietica, la svolta sopravvenuta immediatamente dopo la morte di Stalin comportò dunque un certo alleggerimento della situazione. I problemi della società sovietica erano tuttavia molto più complessi da risolvere e rappresentarono una sfida per la nuova leadership.
6 – Occasioni perdute
Per quanto certamente brutali e ingiustificabili sotto molti punti di vista, i drastici sistemi dell’età staliniana potevano essere comprensibili in un contesto nel quale erano considerati necessari tassi d’investimento elevati e all’agricoltura veniva imposto di finanziarli. Nelle nuove condizioni, nelle quali si veniva delineando la volontà di competere con un capitalismo al quale era sempre più difficile contestare elementi di dinamicità, era evidentemente necessario pensare in termini nuovi. Nonostante negli anni Cinquanta l’economia sovietica crescesse ancora in modo significativo (54), si andava tuttavia evidenziando al suo interno una serie di disfunzioni in grado di ostacolare il conseguimento degli obiettivi più ambiziosi che venivano prospettati.
I progressi agricoli, ad esempio, non potevano prescindere da un’adeguata dotazione di macchine, da un’appropriata rete di trasporto e stoccaggio, nonché da un potenziamento dell’industria chimica che assicurasse la fornitura di fertilizzanti; analogamente, non si poteva non ripensare alla riformulazione di tutto il sistema delle forme di proprietà e degli incentivi. Forse meno evidente, ma altrettanto stridente appariva l’arretratezza dell’industria. Innanzitutto l’URSS non aveva sviluppato alcuni settori tecnologicamente avanzati. Nella misura questo era stato fatto, le risorse di finanziamento, ricerca, manodopera qualificata andavano prioritariamente al complesso militare-industriale (si pensi, per ricorrere ad un esempio dell’epoca, agli sforzi dedicati al nucleare e alla ricerca missilistica, ma anche a sistemi d’arma convenzionali da produrre su larga scala). Nei rimanenti ambiti, in misura differenziata a seconda delle singole branche, non si riusciva a superare alcuni ostacoli di fondo: gli investimenti nella produzione dei beni di consumo erano scarsi e gli apparati centrali di pianificazione e direzione ipertrofici; gli indici quantitativi di incentivazione con cui essi guidavano le imprese rimanevano grossolani e inefficienti, mentre vi erano evidenti difficoltà nel sostenere il progresso tecnico incorporandolo nei prodotti e nel motivare le diverse componenti sociali che operavano all’interno delle unità produttive (55).
Nella misura in cui la forma particolare assunta dal capitalismo di stato sovietico in età staliniana era giunta ai suoi limiti, il confronto economico con l’Occidente prospettato nel periodo immediatamente successivo (56) avrebbe richiesto una trasformazione radicale dei meccanismi economici e, in definitiva, dei rapporti di classe sottesi ad essi. Ipotizzare una tale capacità nell’élite sovietica cresciuta all’ombra dello stalinismo sarebbe stato allora – e sarebbe a maggior ragione oggi – completamente antistorico. Quello che ci si poteva aspettare, e che fu in effetti realizzato, è che la dirigenza sovietica cercasse di operare seguendo le linee di minor resistenza e più promettenti nell’immediato.
Questo aspetto balza agli occhi in modo particolare a proposito delle politiche agricole. Nell’urgenza di ottenere risultati concreti per l’agricoltura, Cruščev ricorse all’espediente temporaneo di coltivare le terre vergini situate nelle aree orientali dell’URSS, che le cui riserve nutritive accumulate avrebbero consentito di ottenere in breve tempo grandi raccolti. Supportata da trasferimenti di manodopera e mezzi frettolosamente approntati, la coltivazione delle terre vergini dette inizialmente – tranne che per il ’55 – buoni risultati. Negli anni successivi i rendimenti furono oscillanti; ma nel frattempo tuttavia si fecero sentire gli effetti dell’erosione, in astratto prevedibili ma a cui concretamente si era fatto ben poco caso, i quali condussero nel ’63 a risultati disastrosi (fu in quell’anno che si dovette ricorrere a massicce importazioni agricole che ridussero sensibilmente le riserve auree e valutarie). Decisamente controproducente fu inoltre la contemporanea estensione forzata della coltivazione del mais con la prospettiva di usarlo per potenziare l’allevamento a scapito dei foraggi. Anche in questo caso, la varietà delle situazioni ambientali, a torto trascurata nella fase di estensione delle coltivazioni, produsse in breve dei danni evidenti fin dai primissimi anni Sessanta. Nel frattempo la difficoltà per lo stato di fornire i foraggi ai piccoli allevatori privati portò a rovesciare la precedente propensione a incoraggiare l’allevamento da parte dei contadini, i quali vennero spinti invece a far confluire nuovamente il bestiame nelle aziende collettive, con conseguente perdita di patrimonio zootecnico.
Un’analoga tendenza a promuovere nuove iniziative in modo estemporaneo e affrettato allo scopo di ottenere in breve risultati tangibili fu rappresentata dalla liquidazione delle STM (stazioni di macchine e trattori), ossia le organizzazioni statali che svolgevano presso i colcos, dietro corrispettivo, i lavori per i quali erano necessarie attrezzature meccaniche moderne. Nell’ipotesi che la proprietà delle macchine avrebbe migliorato la loro utilizzazione da parte dei colcos, nel ’58 pressoché tutte le SMT vennero smantellate e le loro macchine vendute alle aziende nell’arco dell’anno. Tutto ciò ebbe una serie di gravi contraccolpi: i colcos dovettero affrontare gli oneri dell’acquisto e furono costretti a dotarsi di tutte le attrezzature necessarie al mantenimento in efficienza delle macchine, dirottando le proprie riserve o indebitandosi; la riduzione di ulteriori acquisti che ne derivò portò a una contrazione di sbocchi per l’industria produttrice di macchine agricole, mentre molti dipendenti qualificati delle SMT lasciavano le campagne e i nuovi centri di assistenza tecnica venivano messi in piedi con difficoltà. Appare evidente, in altre parole, che un provvedimento che avrebbe potuto avere ricadute positive se realizzato con gradualità, gestito con un eccesso di impazienza finì per portare, in un’agricoltura già di per sé problematica come quella sovietica, a una flessione nell’uso delle macchine (57).
Se la politica agricola risente in modo particolare dello stile improvvisato e impaziente di Cruščev, quella industriale testimonia invece maggiormente alcune delle contraddizioni oggettive a cui si andrò incontro nel tentativo di ovviare all’impianto centralistico della pianificazione sovietica (58). L’anno decisivo per la svolta impressa al sistema di direzione economica fu – non a caso – il ’57, ossia il momento in cui le opposizioni in precedenza ridimensionate tornarono a farsi sentire fino a determinare una vera e propria crisi politica nel giugno di quell’anno che portò – come accennato più sopra – alla sconfitta del “gruppo antipartito”. Il consolidarsi dell’opposizione fu evidente quando – tra il ’56 e il ’57 – il piano approvato l’anno prima al XX Congresso fu criticato in fase di realizzazione e Cruščev rispose varando una vasta riforma, nella quale lo scopo di migliorare l’efficienza economica era intrecciato al ridimensionamento del potere delle burocrazie ministeriali del centro (59).
Il sistema sovietico di direzione consolidatosi negli anni Trenta era basato sul ruolo dei ministeri. Questi ultimi – il cui numerò oscillò a seconda delle fasi e che al momento della riforma erano circa una trentina – traducevano le direttive centrali in relazione a specifici settori produttivi. A questa amministrazione settoriale, la riforma ne contrapponeva una di tipo settoriale, in base alla quale vennero disegnate 104 regioni territoriali, ciascuna dotata di un consiglio direttivo (sovnarchoz) che avrebbe dovuto disciplinare le aziende sul territorio. In questo modo, oltre a richiedere un notevole sforzo di realizzazione, non si otteneva tuttavia una reale autonomia delle imprese, le quali passavano semplicemente dal controllo della burocrazia ministeriale a quello della burocrazia regionale (60). L’avvicinamento dei centri direzionali alle imprese accentuò la pressione degli interessi locali e non contribuì a chiarire i rapporti con quei settori e/o competenze che rimanevano ancora sotto il controllo centrale, creando così una diffusa insoddisfazione Anche in questo campo, dunque, si dovette iniziare una ritirata e nel 1962 il numero delle regioni economiche venne praticamente dimezzato (61).
Gli anni ’62 e ’63 furono anche anni di insuccessi all’estero (crisi dei Caraibi e conflitto ideologico con la Cina), ma le difficoltà di Cruščev continuarono ad accrescersi soprattutto sul terreno economico. Della grave crisi agricola del ’63, cui si pretese di rispondere annunciando piani velleitari di produzione di fertilizzanti, si è già detto. Ciò che segnò in particolare il destino politico di Cruščev fu tuttavia il tentativo di risolvere i problemi economici modificando l’organizzazione di partito. Nel novembre ’62 fu annunciata la divisione degli organismi regionali del partito in una sezione agricola e in una industriale. Questo e altri aspetti della riforma provocarono scontento nella dirigenza periferica del partito e, pur originati dall’intento di dare a ogni settore un’attenzione adeguata, provocarono conflitti di competenze e/o disinteresse per tutte le attività intermedie tra le due fondamentali. Il persistere delle difficoltà spinse tuttavia Cruščev a compiere un altro passo, che toccava stavolta i livelli politici più alti. La nuova riforma immaginata avrebbe impegnato infatti i massimi livelli del partito in un articolato lavoro di direzione economica, con il probabile risultato di estraniarli dalle più alte decisioni politiche (62). Fu questo pericolo che spinse il vertice del partito a far decadere il segretario dal suo incarico, aprendo un’altra fase della storia sovietica.
7 – Verso la stagnazione
La nuova direzione politica, dopo una breve fase di incertezza per la quale si è parlato a ragione di un cruščevismo senza Cruščev (63), mostrò di lì a poco quella che doveva diventare la sua fisionomia definitiva. Se l’era cruščeviana si era aperta per alcuni anni all’insegna di grandi speranze di liberalizzazione politica, quella di Brežnev vide un partito chiaramente determinato ad arrestare la destalinizzazione e a porre precisi limiti al dissenso. Il gruppo dirigente manifestò certamente anche il proposito, in parte realizzato, di aumentare i consumi e modernizzare il paese, ma senza mettere in questione gli equilibri politico-ideologici caratteristici della società sovietica (64).
La politica economica adottata seguì fedelmente queste linee di fondo. Essa puntò infatti non tanto al rinnovo delle strutture macroeconomiche della pianificazione, che conobbero dei mutamenti nel complesso limitati, ma su una riordino dei meccanismi microeconomici, soprattutto a livello d’impresa. L’economia sovietica, infatti, mancava di meccanismi simili a quelli delle economie di mercato, in grado di penalizzare efficacemente le imprese inefficienti e di migliorare la qualità della produzione. Mancava inoltre – e questo aveva un’importanza determinante nella competizione con l’Occidente – uno stimolo a rinnovare la produzione servendosi dei nuovi ritrovati scientifici: la ricerca sovietica, infatti, si svolgeva in larga parte fuori delle imprese e queste ultime stentavano a incorporarne i risultati (65).
Dopo l’esito fallimentare dell’esperimento di organizzazione territoriale, le macrostrutture della pianificazione furono ripensate ritornando alla tradizionale impostazione settoriale, anche se meno centralizzata (i ministeri federali-repubblicani erano più numerosi di quelli federali) e con un potere meno incondizionato. I ministeri settoriali furono affiancati da importanti comitati con compiti funzionali (pianificazione, controllo investimenti, coordinamento intersettoriale etc.).
La vera novità della riforma economica adottata nel ’65 e gradualmente realizzata stava tuttavia nel recepire in qualche modo i risultati dei dibattiti avvenuti tra il ’62 e il ’64, che prevedevano una maggior autonomia per le imprese. Per queste ultime si pensò a una riduzione del numero di indici quantitativi da rispettare e soprattutto all’introduzione di un indice di redditività costituito dal rapporto fra profitto e fondi di produzione, che doveva spingere l’impresa ad aumentare il profitto e/o economizzare i fondi. Dal profitto netto dovevano essere creati tre accantonamenti a beneficio dell’impresa: uno per i premi individuali, uno per le attività culturali e i servizi sociali resi ai lavoratori e uno per finanziare piccoli miglioramenti produttivi.
L’esito della riforma, tuttavia, si rivelò nel complesso deludente per vari ordini di ragioni, in parte derivate dai rapporti fra le unità economiche di base e le autorità centrali, in parte riconducibili ai difetti intrinseci con cui era stata concepita l’incentivazione. I ministeri e gli altri organi dell’amministrazione continuarono infatti a interferire sulla vita delle imprese e a cercare di impedire i rapporti diretti fra un’impresa e l’altra, che pure erano permessi dalla legge. Le imprese, inoltre, mancavano di autonomia nella fissazione dei prezzi e, in mancanza di un adeguato sistema di sanzioni, le inadempienze delle imprese fornitrici potevano danneggiare le imprese clienti; anche l’utilizzo dell’indice di produzione venduta ebbe poco successo in un mercato squilibrato dal lato dell’offerta, nel quale gli acquirenti non avevano alternative. Gli stessi fondi accantonati che rimanevano disponibili presso le aziende, infine, erano difficilmente utilizzabili: in parte risultavano distribuiti in modo inadeguato e in parte, dato il contesto di distorsioni burocratiche e penuria, erano difficilmente spendibili (66).
In agricoltura, in cui alle deficienze organizzative si accoppiavano le indubbie difficoltà derivate dall’andamento climatico, si operò su vari versanti. Si assistette quindi a una crescita degli investimenti agricoli, mentre cambiava l’atteggiamento dell’amministrazione nei riguardi dei colcos, nei quali la condizione dei lavoratori fu migliorata, tramite un sistema di pensioni e una retribuzione salariale certa. Per le aziende collettive furono pensati obiettivi realistici basati sulle vendite e prezzi più vantaggiosi in caso di superamento del piano, alleggerimenti fiscali e finanziari (67).
L’aumento dei prezzi d’acquisto, non potendo esser compensato da un aggravio su quelli di vendita, si tradusse tuttavia nella crescita del deficit dello stato. D’altra parte le persistenti insufficienze della meccanizzazione e della condizione dei trasporti, la mancanza di attrezzature di conservazione e le carenze organizzative che impedivano di concentrare una quantità sufficiente di manodopera nei ristretti lassi temporali disponibili per i raccolti erano una fonte permanente di spreco e inefficienza. L’agricoltura sovietica, in passato finanziatrice dello sviluppo, stava ora diventando un fardello sempre più pesante (68).
Il quadro sin qui tracciato mostra come la crescita economica sovietica, pur mantenendo ritmi accettabili fino agli anni Settanta, continuasse a mantenere a tutti i livelli aree di inefficienza e penuria, che provocavano la graduale diffusione di iniziative miranti a compensare le lacune del sistema economico e/o a trarne profitto. Col procedere degli anni Settanta era ormai sempre più percettibile l’esistenza di un’economia parallela, che operava ai margini della legalità, la quale offriva beni di consumo e servizi formalmente non reperibili.
Essa coinvolgeva una larga gamma di attività; alcune di esse erano interamente clandestine, ma molte altre linee di produzione e/o servizi fiorivano dietro la facciata delle imprese di stato. Quest’ambito sommerso, per quanto illegale, suppliva nella sostanza alle larghe smagliature dell’economia di piano (69). Le autorità, che formalmente tuonavano contro il malcostume e ne combattevano alcune punte, nel complesso lo tolleravano, sia perché l’economia parallela tamponava nascostamente falle importanti di quella ufficiale, sia perché dava laute occasioni di introito ai funzionari che a vario titolo vi erano coinvolti.
La rilevanza dell’economia sommersa non significava solo la delegittimazione implicita di quella ufficiale, ma ne modificava in concreto il funzionamento. Per quanto la consistenza di tale settore parallelo fosse difficilmente quantificabile, lavoro e risorse materiali entravano infatti in quel circuito attraverso vari canali, alterando in tal modo le risposte degli agenti economici alle direttive ufficiali dell’amministrazione.
Questi fenomeni si sommavano ad altri che, per quanto striscianti, tendevano anch’essi ad ostacolare l’aumento della produttività: l’incremento della popolazione in età lavorativa era notevolmente rallentato, lo stock di capitale era invecchiato e richiedeva un pesante lavoro di manutenzione, le risorse energetiche erano sempre più spostate verso Oriente. Le cospicue importazioni di attrezzature industriali e prodotti agricoli erano un’evidente spia delle difficoltà.
Pur senza registrare episodi particolarmente acuti, dalla metà degli anni Settanta l’economia sovietica entrò in una fase nella quale, anziché una dinamica tendenzialmente ciclica come quella precedente, essa mostrò in misura sempre maggiore i segni di una stagnazione produttiva (70) sulla quale non avrebbero tardato ad innestarsi sintomi di degrado sociale e di senescenza dei vertici politici, destinati a raggiungere dimensioni preoccupanti fin dall’inizio del decennio successivo. Da questo punto si apre un capitolo nuovo nella storia dell’economia sovietica, il cui corso ulteriore non può più esser seguito all’interno del sistema, ma fa tutt’uno con la disgregazione di quest’ultimo a tutti i livelli, oltrepassando quindi i limiti che ci siamo posti in questa sede.
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