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moneta e credito

Crisi e centralizzazione del capitale finanziario

 Emiliano Brancaccio, Orsola Costantini e Stefano Lucarelli*

16104 a348061. La centralizzazione del capitale: un concetto marxiano

Tra le numerose questioni sollevate dalla “grande recessione” internazionale esplosa nel 2008 (Fondo Monetario Internazionale, 2012), sembra esser tornato in auge anche il tema della possibile esistenza di un nesso tra la crisi economica e quella che Marx e Hilferding definivano “centralizzazione del capitale”, con particolare riferimento al “capitale finanziario” (Marx, [1867] 1994; Hilferding, [1910] 2011).

Nella letteratura accademica, sia di stampo critico che mainstream,1 il termine “centralizzazione” viene spesso sostituito dall’espressione “concentrazione”. Gli stessi Marx e Hilferding in alcune circostanze adoperano questi termini alla stregua di sinonimi. A ben guardare, tuttavia, i due concetti hanno significati diversi. Nell’accezione originaria di Marx la “concentrazione” del capitale corrisponde alla creazione di nuovi mezzi di produzione e alla crescita conseguente della loro massa complessiva, sia in termini assoluti che in rapporto alla forza lavoro disponibile: la “concentrazione”, in altre parole, “è basata direttamente sull’accumulazione, anzi è identica ad essa” (Marx, [1867] 1994, p. 685).

Invece, la “centralizzazione” dei capitali consiste nel fatto che, sebbene la produzione capitalistica veda le imprese contrapposte l’una all’altra come produttrici di merci reciprocamente indipendenti e la competizione capitalistica si presenti di norma come “ripulsione reciproca di molti capitali individuali”, è possibile rilevare un’opposta tendenza alla “concentrazione di capitali già formati” e dunque al superamento della loro autonomia individuale, che si realizza mediante l’“espropriazione del capitalista ad opera del capitalista, della trasformazione di molti capitali minori in pochi capitali più grossi” (ivi, pp. 685-686). Il processo di centralizzazione può in tal senso concretizzarsi in vari modi: semplicemente attraverso l’uscita dal mercato dei capitali più deboli; oppure tramite liquidazione, acquisizione o fusione aziendale, che implicano cambiamenti nel diritto di proprietà; oppure anche in modo surrettizio, quando la proprietà formale del capitale resta frammentata ma il controllo si concentra in poche mani, come nei settori in cui le catene produttive sono basate sull’outsourcing oppure, più in generale, come accade con la massa dei capitali la cui proprietà è dispersa tra una miriade di azionisti e depositanti ma la cui gestione è demandata ai vertici di società per azioni e istituti bancari.

Per Marx, le leve più potenti della centralizzazione sono due. In primo luogo vi è la “lotta della concorrenza”, che vede prevalere i capitali più grossi, caratterizzati da una maggior scala di produzione e quindi da una più elevata produttività, e che “termina sempre con la rovina di molti capitalisti minori, i cui capitali in parte passano nelle mani del vincitore, in parte scompaiono” (ivi, pp. 686). Ma soprattutto vi è il “sistema del credito”, che attira mediante fili invisibili i mezzi pecuniari disseminati nelle mani di capitalisti individuali e infine si trasforma “in un immane meccanismo sociale per la centralizzazione dei capitali” (ibid.). Il processo di centralizzazione associato allo sviluppo del sistema creditizio e finanziario favorisce dunque l’immissione di enormi quantitativi parcellizzati di capitale nelle mani di una ristretta “aristocrazia finanziaria”, dedita all’organizzazione del capitale su base privata senza aver bisogno di assumerne la proprietà privata. La tendenza alimenta così una contraddizione fondamentale, che consiste nella “soppressione del capitale come proprietà privata nell’ambito del modo di produzione capitalistico stesso” e che incarna, almeno in potenza, una “forma di transizione verso un nuovo modo di produzione” (ivi, p. 523). Per questa via, aggiungerà Hilferding, “i settori del capitale industriale, commerciale e bancario, un tempo divisi, vengono posti sotto la direzione comune dell’alta finanza”, secondo un processo che “ha come base il superamento della libera concorrenza” (Hilferding, [1910] 2011, p. 393). La centralizzazione, in questo senso, è assunta come elemento costitutivo del capitalismo moderno: in ultima istanza, “capitale finanziario significa capitale unificato” (ibid.).

Dai brevi spunti appena riportati non pare difficile rilevare la fecondità del concetto di centralizzazione dei capitali. Dall’idea di una libera concorrenza che porterebbe con sé i germi della sua eutanasia, fino alla contraddizione di un controllo capitalistico sempre più sganciato dalla proprietà privata del capitale e tale persino da lasciar presagire un trapasso verso nuovi modi di produzione, la centralizzazione dei capitali appare indissolubilmente legata ad alcuni snodi centrali dell’analisi marxista. Ma, si può anche ritenere che la centralizzazione dei capitali rappresenti un concetto attuale? Ad esempio, può il concetto di centralizzazione contribuire allo studio delle crisi più recenti? In effetti, la grande recessione esplosa nel 2008 e il connesso dibattito sullo sviluppo delle istituzioni finanziarie “too big to fail” sembrano aver suscitato un rinnovato interesse sul possibile collegamento tra centralizzazione e crisi. Scopo del presente lavoro è di proporre una breve rassegna di studi, marxisti e non, in grado di fornire spunti sulle possibili connessioni logiche tra il fenomeno della crisi economica e il concetto di centralizzazione del capitale, con riguardo soprattutto al capitale finanziario. Il legame tra l’uno e l’altro sarà esaminato in base a una duplice direzione causale: vale a dire, sia riguardo alla possibilità che la centralizzazione dei capitali contribuisca ad alimentare le contraddizioni del sistema e le sue crisi ricorrenti, sia nel senso che le crisi possono a loro volta influenzare la tendenza alla centralizzazione.

Nel prossimo paragrafo passeremo in rassegna la letteratura economica che si riferisce esplicitamente a Marx. Dopo aver evidenziato alcune differenze cruciali tra l’analisi originaria di Marx sulla centralizzazione e quella di Hilferding, concentreremo l’attenzione sul lavoro condotto dal gruppo di studiosi che si raccolgono attorno alla Monthly Review, fondata nel 1949 da Paul Sweezy. Nel terzo paragrafo ci soffermeremo sulla letteratura mainstream, con particolare riguardo a un filone della ricerca empirica dedicato ai processi di concentrazione bancaria e alle loro implicazioni sulla fragilità del sistema. Da questi studi emergono risultati empirici che implicitamente richiamano le problematiche marxiste sui nessi tra concorrenza, centralizzazione dei capitali, instabilità e crisi sistemiche. Da esse sembrano evincersi elementi a sostegno delle posizioni originarie di Marx sulla centralizzazione, più che delle elaborazioni dei suoi continuatori. Nel quarto paragrafo focalizzeremo l’attenzione su alcuni studi recenti dedicati ai possibili effetti delle crisi sui processi di centralizzazione dei capitali. Alla luce di tali contributi, mostreremo che l’impatto delle prime sui secondi dipende dal modo in cui la politica economica riflette i rapporti di forza interni alla classe capitalista, e in particolare dalle modalità attraverso cui il banchiere centrale agisce come regolatore del conflitto tra capitali solvibili e capitali potenzialmente insolventi.

 

2. Centralizzazione e crisi nella letteratura marxista

A differenza di altre “leggi di tendenza”, la centralizzazione dei capitali non sembra avere ispirato moltissimi studi marxisti. La letteratura specificamente focalizzata sull’argomento appare relativamente limitata. Nelle principali riviste internazionali dedicate alla critica marxista dell’economia politica, il legame tra centralizzazione e instabilità finanziaria non rientra tra i temi più affrontati.2 Il tema comunque è vasto, e in questa sede non vi è la pretesa di proporre una rassegna esaustiva su di esso. Nel presente paragrafo proporremo una chiave di lettura peculiare, tesa soprattutto a discutere i nessi tra crisi economica e centralizzazione del capitale rintracciabili in alcune opere del marxismo che trattano precisamente il tema in oggetto, nonché nelle principali riviste marxiste.3

Nell’indagine sui legami tra centralizzazione e crisi rintracciabili nella letteratura marxista, il primo aspetto meritevole di attenzione riguarda le differenze tra la posizione di Marx e quella di Hilferding. Per Marx, lo sviluppo del credito accelera la tendenza alla centralizzazione, favorisce quindi lo sganciamento tra proprietà e controllo del capitale e per questa via accentua l’instabilità e la sovrapproduzione:

“[s]e il credito appare come la leva principale della sovrapproduzione e della sovraspeculazione nel commercio, ciò avviene soltanto perché il processo di produzione, che per sua natura è elastico, viene qui spinto al suo estremo limite, e vi viene spinto perché una gran parte del capitale sociale viene impiegato da quelli che non ne sono proprietari, i quali quindi agiscono in tutt’altra maniera dai proprietari, i quali, quando operano personalmente, hanno paura di superare i limiti del proprio capitale privato” (Marx, [1894] 1994, p. 523).

Questa sequenza viene declinata anche in una chiave che potremmo definire teleologica:

“[i]l sistema creditizio affretta quindi lo sviluppo delle forze produttive e la formazione del mercato mondiale, che il sistema capitalistico di produzione ha il compito storico di costituire, fino a un certo grado, come fondamento materiale della nuova forma di produzione. Il credito affretta al tempo stesso le eruzioni violente di questa contraddizione, ossia le crisi e quindi gli elementi di disfacimento del vecchio sistema di produzione” (ibid.).

Hilferding insiste ulteriormente sul legame tra credito e centralizzazione del capitale. Come spiega l’economista austriaco, la centralizzazione si manifesta nel controllo dei capitali individuali piuttosto che nella loro proprietà, la quale invece può essere frammentaria, così come accade nelle società per azioni. Inoltre, come nella trattazione di Marx, anche in Hilferding la centralizzazione dei capitali è logicamente distinta dall’accumulazione. Centralizzare infatti significa attuare uno spostamento, un’aggregazione di capitali pre-esistenti. In quest’ottica, la forza di attrazione reciproca dei capitali non genera solo coacervi produttivi, ma anche sempre più grandi gruppi finanziari, che esercitano di fatto un controllo sulle condizioni della produzione. La capacità di controllo dei nuovi agglomerati è dunque associata alla funzione creditizia, cioè alla capacità delle banche di creare nuova liquidità, che permette loro di governare sia l’accumulazione che la centralizzazione capitalistica.

In tema di stabilità, rispetto a Marx, l’analisi di Hilferding opera un sostanziale ribaltamento di alcuni dei nessi causali che legano il sistema creditizio alla centralizzazione dei capitali. Per Hilferding, infatti, lo sviluppo del credito e il relativo processo di centralizzazione riducono la tendenza alla speculazione e in tal modo favoriscono la stabilizzazione del sistema: “una volta che la potenza delle banche è aumentata, i movimenti della speculazione cadono sempre più sotto il loro controllo”, per cui “decresce il peso della speculazione sui titoli come fattore generatore della crisi” (Hilferding, [1910] 2011, p. 487). L’instabilità del sistema non viene per questo eliminata, ma risulta sempre più determinata da altre cause, come ad esempio le difficoltà di riproporzionamento tra i settori connaturate al modo di produzione capitalistico. In quest’ottica, anche le suggestioni profetiche appaiono in un certo senso divergere da Marx: la tendenza alla centralizzazione, secondo Hilferding, “se completamente soddisfatta”, porterebbe alla “concentrazione di tutto il capitale monetario in una sola banca o in un unico gruppo di banche, che potrebbero quindi disporne incondizionatamente. È chiaro che una simile centrale bancaria potrebbe esercitare un controllo assoluto sulla produzione dell’intera società” (ibid.). E “una volta che il capitale finanziario abbia assoggettato a sé i più importanti rami produttivi”, la società non avrebbe altro compito che “impadronirsi del capitale finanziario servendosi in ciò del proprio consapevole organo esecutivo”, vale a dire lo Stato.

La profezia di Hilferding circa un afflusso di tutto il capitale nelle mani di un’unica “centrale bancaria”, fino all’espropriazione della medesima da parte del potere statale, darà luogo a numerose controversie. Lenin attaccherà a fondo tale conclusione, considerandola ostile ai processi rivoluzionari e favorevole alle tendenze revisionistiche della socialdemocrazia tedesca (Lenin, [1917] 1966). D’altro canto Schumpeter la definirà “una franca abiura della teoria del crollo” (Schumpeter, [1954] 1990, p. 1085), sostituita dall’idea che “la società capitalistica, lasciata a sé stessa, avrebbe sempre più consolidato la sua posizione, “‘pietrificandosi’ in una sorta di organizzazione gerarchica o feudale” (ibidem).4

Nella sua analisi prospettica Hilferding non sembra tenere sufficientemente in conto le forze antagonistiche che possono a un certo punto interrompere la tendenza alla centralizzazione. Su questo aspetto si concentra la critica di Paul Sweezy ne La teoria dello sviluppo economico (Sweezy, [1942] 1962). Secondo Sweezy, raggiunta una certa intensità, il processo descritto da Hilferding esaurisce la sua forza propulsiva e sia il potere della finanza che la spinta all’accumulazione tendono a smorzarsi. L’economista austriaco non avrebbe considerato che i grandi gruppi industriali possono facilmente autofinanziarsi grazie alla loro capacità di accumulare risparmi interni. L’autofinanziamento permette l’emancipazione della funzione produttiva dal controllo della banca. A detta di Sweezy, insomma, Hilferding prende per tendenza generale una fase particolare della storia del capitalismo. L’economista americano riconosce che lo sviluppo del credito rappresenta un “formidabile strumento nella lotta concorrenziale” che progressivamente si trasforma in “un immenso dispositivo sociale per la centralizzazione dei capitali” (ibid., p. 256). Tuttavia, Sweezy aggiunge che

“[...] nel tempo, un potere economico che non sia legato ad alcuna funzione economica è condannato all’indebolimento e forse anche alla morte. Questo è esattamente quanto è accaduto al potere delle banche, nella misura in cui esso si basi sull’emissione di nuovi titoli. La funzione stessa si atrofizza e il potere cui aveva dato origine declina, lasciando le banche in secondo piano. Il capitale bancario, passati i giorni gloriosi, riaffonda in posizione sussidiaria al capitale industriale” (ibid., p. 268, nostra traduzione).5

Dunque, mentre per Hilferding la centralizzazione è un processo che riduce la concorrenza fino a creare le condizioni per un mutamento del modo di produzione, per Sweezy e gli altri studiosi della Monthly Review la centralizzazione indebolisce la concorrenza ma non la elimina del tutto. Piuttosto la trasforma, facendo sì che non si giochi più sul prezzo, bensì su altre pratiche di mercato quali la differenziazione del prodotto (Foster, 1981; Sherman, 1983). Ciò non impedisce anche a Sweezy di riconoscere che la centralizzazione induce il formarsi di una concrescenza di capitali cui concorrono industria, banche e finanza tutta. A suo avviso, tuttavia, la posizione dominante spetta ai manager, amministratori dei grandi gruppi industriali, ormai affrancati dalla lotta concorrenziale e liberati dal problema del reperimento di risorse finanziarie esterne. È questo ciò che Sweezy chiama “capitale monopolistico”.

Da questa lettura emergono pure riflessioni circa l’impatto della centralizzazione dei capitali sui processi di accumulazione.6 La centralizzazione, che consolida le strutture del capitale monopolistico, favorisce una maggiore efficienza tecnologica e amministrativa che intensifica la produttività e lo sfruttamento. Tuttavia, il conseguente aumento del surplus economico incontra sempre maggiori difficoltà di realizzazione e conduce al rallentamento della crescita del prodotto sociale e al limite alla sua riduzione (Baran e Sweezy, [1966] 1968). La centralizzazione, tuttavia, più che generare instabilità, in quest’ottica conduce al ristagno economico. Il credito e la finanza, quantomeno in questa prima fase della produzione del gruppo della Monthly Review, sono ritenuti meri epifenomeni (Sweezy, 1987): dei modi tra gli altri di assorbire surplus e stimolare l’economia, assieme al sales effort e alla spesa militare.

L’idea di Sweezy e dei suoi collaboratori, secondo cui la centralizzazione dei capitali sarebbe accompagnata da una progressiva marginalizzazione delle banche e della finanza, trova il suo riferimento teorico nel grande rilievo che essi attribuiscono alle possibilità di autofinanziamento delle imprese. Proprio su questo, come abbiamo accennato, Sweezy costruisce anche la sua critica a Hilferding. Si tratta di una critica che in passato ha avuto svariati estimatori, ma che ci pare viziata da un errore. Potremmo dire che essa confonde il ruolo della “finanza iniziale”, di origine bancaria, con quello della “finanza finale”, in cui rientra anche l’autofinanziamento dell’industria: sotto questo profilo, rispetto a Sweezy, Hilferding appare più consapevole dei meccanismi di funzionamento del circuito monetario capitalistico.7 La sua analisi del rapporto tra banca e industria risulta in tal senso maggiormente articolata e moderna: “il fatto che l’industria entri sempre più in rapporti di dipendenza con il capitale bancario non significa affatto – egli scrive – che anche i magnati dell’industria siano ridotti alle dipendenze dei magnati delle banche”; piuttosto, può accadere che i capitalisti industriali in attivo entrino negli assetti proprietari e di controllo degli istituti bancari, accrescendo in tal modo la complessità dell’intreccio tra industria e finanza (Hilferding, [1910] 2011, p. 296).

La posizione di Sweezy e del gruppo della Monthly Review sul ruolo della finanza nei processi di centralizzazione capitalistica cambia negli anni più recenti, in particolare a seguito della crisi finanziaria del 1987. L’esistenza di un legame tra la tendenza alla centralizzazione e la crescita del potere di banche e istituzioni finanziarie viene presa sempre più spesso in considerazione (Magdoff e Sweezy, 1983; 1987), sino a suggerire che sia avvenuto un ribaltamento nel rapporto di dipendenza tra industria e finanza. Nei suoi ultimi interventi, sul finire degli anni Novanta, Sweezy attribuisce nuova rilevanza alla vecchia espressione di Hilferding: “Il locus del potere economico si è spostato, a seguito dell’ascesa del capitale finanziario. Per lungo tempo si è dato per scontato, soprattutto fra militanti di sinistra, che il potere nella società capitalistica risiedesse nelle assemblee di gestione di poche centinaia di gigantesche società multinazionali”(Sweezy, 1994, p. 8). In realtà, ormai, “il vero potere non sta tanto in quelle quanto nei mercati finanziari”, intesi non in senso astratto e impersonale ma come luogo di espressione del potere del capitale finanziario (ibidem). Il nuovo ruolo attribuito alla finanza, tuttavia, non sembra modificare le tesi di fondo del gruppo della Monthly Review sulle prospettive generali del capitalismo:

“[l]a pluri-decennale ondata di finanziarizzazione sembra essersi ad oggi rallentata. Le società finanziarie, in particolare, hanno ridotto la loro leva debitoria e la loro esposizione creditizia come porzione del prodotto lordo. Perciò, mentre il sistema finanziario è sopravvissuto bene o male intatto, e l’accumulazione della ricchezza in quel settore continua, questo può essere visto come un arresto relativo del processo di finanziarizzazione, che riduce l’effetto di quello che è stato il principale stimolo alla crescita nelle ultime decadi” (Foster e Magdoff, 2014, p. 99, trad. nostra).

Insomma, il tentativo di realizzo del surplus attraverso l’espansione del credito e della finanza andrà comunque a esaurirsi, mettendo nuovamente a nudo il destino del capitalismo maturo: il ristagno produttivo.

L’elaborazione più aggiornata del gruppo della Monthly Review sembra potersi riassumere nei seguenti termini. In una prima fase di sviluppo del capitalismo, l’espansione del credito e della finanza contribuisce ad accelerare la concorrenza e i connessi processi di centralizzazione dei capitali. In altri termini si assiste ad un aumento della tendenza monopolistica. In una seconda fase, tuttavia, la centralizzazione dei capitali deprime le forze della concorrenza: il sistema si cristallizza in una configurazione che prende il nome di capitale monopolistico e che pone nuovi problemi in termini di mancata realizzazione di un surplus crescente. In una terza fase, credito e finanza assumono un nuovo ruolo, funzionale al tentativo di risolvere i problemi di realizzazione: i centri di potere si spostano dai consigli di amministrazione dei grandi gruppi industriali ai vertici delle banche e delle società finanziarie, e il capitale monopolistico riprende sempre più i tratti hilferdinghiani del capitale finanziario. Il problema della realizzazione tuttavia non si risolve, e sul sistema torna ad incombere la minaccia del ristagno.

Vi è comunque un ripensamento che porta non solo a riconoscere che la finanziarizzazione, come modo per reagire al ristagno, aggrava la crisi strutturale, ma pure che l’esplosione finanziaria rappresenta una trasformazione qualitativa del processo di accumulazione (Magdoff e Sweezy, 1987; Foster, 2014). Sweezy (1991) riconoscerà che nella tradizione della Monthly Review la concettualizzazione dell’accumulazione capitalistica è “incompleta” perché ridotta nel suo significato “all’atto di incrementare lo stock esistente di capitale” (Sweezy, 1991, p. 52, traduzione nostra), e che in realtà questo è solo un aspetto del problema perché “l’accumulazione è anche finanziaria” (ibidem). Ciò lo conduce a sostenere che “comprendere meglio la società del capitale monopolistico di oggi sarà possibile solo sulla base di una più adeguata teoria dell’accumulazione di quella che abbiamo ora, dando un’enfasi particolare all’interazione tra i suoi aspetti reali e finanziari” (ibid., p. 52, trad. nostra). Questa, almeno negli intenti, è d’altra parte la direzione di ricerca verso cui si indirizzano molti studi marxisti o comunque ispirati da Marx.8 Tra di essi, tuttavia, solo i contributi che ruotano attorno alla Monthly Review considerano la centralizzazione del capitale, più o meno esplicitamente, come una legge tendenziale. Anzi, l’uso dello stesso concetto di centralizzazione sembra a questo punto difficilmente dissociabile dalla tradizione che si rifà alla rivista fondata da Sweezy, in particolare a Il capitale monopolistico (Baran e Sweezy, [1966] 1968).

La pubblicazione dell’opera di Baran e Sweezy ha generato d’altro canto un acceso e tuttora irrisolto dibattito interno al marxismo. Una critica al concetto di capitale monopolistico deriva dal rifiuto della legge del surplus crescente di Sweezy e Baran, cui viene contrapposta la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto oppure l’idea del profit-squeeze (Mattick, 1969; Glyn e Sutcliffe, 1972; Jaffe, 1973; Boddy e Crotty, 1976; Fine e Harris, 1976; Shaikh, 1978; Weisskopf et al., 1985). Una critica ulteriore è rivolta alla ricostruzione, da parte di Baran e Sweezy, del modo di intendere la concorrenza in Marx rispetto alla definizione dei classici, nonché a quella della tradizione neoclassica (Weeks, 1981). A tale riguardo, alcuni critici marxisti hanno obiettato che Baran e Sweezy condividerebbero un’idea tipica della vecchia tradizione neoclassica, secondo cui la condizione necessaria perché le imprese competano tra loro sia che queste siano molte e piccole (Clifton, 1977; Eatwell, 1982, Williams, 1982). Questa visione può esser contestata alla luce della tesi secondo cui Marx non inquadra la concorrenza in base al numero e alla dimensione delle imprese, bensì alla piena informazione e all’omogeneità di prodotto all’interno di un dato settore, nonché all’uniformità dei saggi di profitto a livello sistemico.

La critica alla definizione di concorrenza solleva un problema definitorio più generale, che investe il concetto stesso di centralizzazione del capitale. Sweezy sembra far corrispondere il concetto alle misure di concentrazione monopolistica del mercato. Questa definizione ha una sua indubbia logica e gode pure del vantaggio di esser facilmente sottoponibile a verifica empirica. Il concetto di centralizzazione dei capitali appare tuttavia fin dalle sue origini complesso, proteiforme, difficilmente riducibile a una singola misura scalare. Già nell’analisi di Marx la centralizzazione assume una forma preliminare semplice, che rinvia alla crescita dimensionale della scala di produzione e ai relativi effetti in termini di rendimenti crescenti e aumento della produttività del lavoro; ma poi rivela anche una sua forma complessa, che racchiude i processi di separazione tra proprietà formale e controllo effettivo del capitale. La letteratura più recente sembra esaltare questa complessità. A partire dalla crisi di metà anni Settanta, le pratiche di fusione e acquisizione e gli investimenti diretti esteri emergono come strumenti di centralizzazione del capitale. Su questa linea di analisi troviamo i lavori di Wladimir Andreff (1984), Giovanni Arrighi e Mauro Di Meglio (1996), Keith Cowling et al. (1980). In questa letteratura si nota pure che l’innovazione finanziaria e digitale facilitano il consolidamento del controllo monopolistico-finanziario e il suo allargamento su scala sovranazionale. Le società finanziarie stesse sono soggette a questo processo di centralizzazione su scala mondiale (Foster et al., 2011). Dagli anni Novanta, si assiste poi a un’evoluzione ulteriore delle procedure attuate dai gruppi multinazionali per la centralizzazione del controllo. In questa seconda fase, le fusioni esplicite si riducono per fare spazio a pratiche più dinamiche e flessibili: gli accordi di subcontracting, partnerships, alleanze strategiche, outsourcing (Andreff, 2009). La centralizzazione si manifesta così come un complicato castello di legami, che riproducono su scala globale quel processo di separazione tra proprietà e controllo del capitale che Marx considerava determinante per la propagazione delle crisi.9 Lo studio di questi processi, tuttavia, appare negli ultimi anni sempre più appannaggio di filoni estranei al marxismo (Vitali et al., 2011) o che, pur facendo talvolta riferimento a Marx e ad alcuni suoi continuatori, non possono essere annoverati tra coloro i quali applicano i metodi di analisi tipici del marxismo.10

Al di fuori della letteratura marxista, non possiamo qui trattare i contributi di autori come Michal Kalecki, Alfred Eichner, Paolo Sylos Labini e altri, che sono stati influenzati dal concetto marxiano di centralizzazione ma che hanno poi sviluppato teorie e modelli che, in un modo o nell’altro, mirano a superarlo, e dunque non lo integrano nella loro analisi.11 In questa sede ci limitiamo a segnalare due contributi che acquisiscono il legame tra centralizzazione e crisi e propongono delle chiavi di lettura peculiari: uno studio di Julie Graham et al. (1988), che rientra nel filone dell’economia della complessità e della cosiddetta cluster analysis, pur nell’ambito disciplinare della geografia; e il lavoro di James Crotty, che legge l’alternarsi di concorrenza e collusione, in presenza di gruppi oligopolistici, come un’evoluzione dialettica che dipende dal livello dei saggi di profitto. Il modello che Crotty propone viene presentato come una sintesi dei concetti marxiani di concorrenza e centralizzazione con l’analisi dei mercati finanziari di John Maynard Keynes e Hyman Minsky (Crotty, 1993).

Filoni più recenti della ricerca marxista sembrano porsi in antitesi non solo all’idea di Sweezy di una centralizzazione che riduce la concorrenza, ma anche all’idea di Hilferding secondo cui centralizzare il capitale significa stabilizzare il sistema. Questi contributi rilevano che la formazione di oligopoli, soprattutto in campo bancario e finanziario, non implica di per sé una riduzione della concorrenza (Lapavitsas, 2013; Fine, 2013-2014; Weeks, 1999).12 Guardando al mercato come luogo della lotta concorrenziale tra grandi gruppi capitalistici, essi suggeriscono che proprio la ricerca di impieghi più redditizi del capitale favorisca l’investimento finanziario, la speculazione e l’instabilità che ne consegue. Perciò, secondo questi autori, sebbene la crisi capitalistica non sia riducibile a un problema di ordine puramente finanziario, la centralizzazione della finanza sicuramente intensifica l’instabilità del sistema.

 

3. L’analisi mainstream e la centralizzazione dei capitali

La possibilità di ridare lustro alle categorie scientifiche su cui la critica dell’economia politica si fonda, non sembra oggi realizzabile limitandosi ai contributi di studiosi che si ispirano esplicitamente a Marx. Gli scienziati sociali marxisti non mancano, come d’altronde esistono ancora sedi editoriali dedicate alla critica marxiana dell’economia politica che godono di un certo prestigio a livello internazionale. Ciò che tuttavia manca è l’esplicita legittimazione di queste linee di ricerca all’interno del dibattito che impegna soprattutto gli economisti quando analizzano la crisi odierna. Nulla di sorprendente, dal momento che, a differenza soprattutto degli anni Sessanta e Settanta, nell’attuale formazione universitaria degli economisti ogni riferimento approfondito a Marx è, nel migliore dei casi, raro. Eppure dall’interpretazione dello sviluppo capitalistico come processo ciclico, fino ai collegamenti tra concorrenza, centralizzazione dei capitali e crisi economica, sono molti i lasciti di Marx in grado di fornire elementi di approfondimento rilevanti per l’analisi del capitalismo contemporaneo (Sylos Labini, 2006). Non è un caso, del resto, che molte sue tesi implicitamente riemergano anche oggi, in studi recenti che non si rifanno in alcun modo alla tradizione marxista. È interessante notare, a tale riguardo, che dall’ambito della ricerca mainstream contemporanea scaturiscono analisi empiriche che potrebbero essere interpretate come possibili verifiche di alcune sequenze causali tipiche delle analisi marxiste esaminate nel paragrafo precedente.

Naturalmente, la possibilità che test empirici ispirati dalla teoria dominante possano costituire un banco di prova per le tesi marxiste solleva rilevanti problemi di ordine epistemologico. Tra questi, vi è l’impossibilità di trarre spunto da quelle analisi dei dati che siano ancorate all’approccio teorico mainstream e alla sua concezione di “equilibrio naturale”, e che non possano essere interpretate senza necessariamente rinviare ad esso. È interessante notare, tuttavia, che alcuni dei risultati empirici dell’analisi mainstream rivelano un nesso piuttosto labile con l’impalcatura generale della teoria dominante e con il concetto di equilibrio naturale. Sotto queste condizioni, la possibilità di raffrontare tali analisi empiriche ad almeno alcuni spezzoni delle linee di argomentazione tipiche degli studi marxisti non risulta del tutto preclusa. In quest’ottica, nel presente paragrafo proporremo una breve rassegna di studi di ispirazione mainstream dedicati alle possibili relazioni empiriche tra le concentrazioni bancarie e la connessa formazione di strutture too big too fail, da un lato, e la struttura, le forme di mercato e, in ultima istanza, la stabilità del sistema economico, dall’altro. Da questi studi sarà possibile trarre evidenze utili anche per un esame delle tesi marxiste sui legami tra centralizzazione del capitale finanziario, concorrenza, instabilità e crisi economica.13 Come si vedrà, in questa letteratura il termine marxiano centralizzazione non viene mai usato, e in sua vece si adotta la definizione molto più circoscritta di “concentrazione” del mercato, calcolata tramite opportuni indicatori.

In generale, l’evidenza empirica esistente mostra che, laddove la concentrazione del mercato del credito è maggiore, la nascita di nuove imprese procede più lentamente (Black e Strahan, 2002). Tuttavia non è possibile catturare attraverso un’unica variabile le caratteristiche complesse proprie dell’efficienza sistemica: non conta solo la velocità con cui nascono le nuove imprese, contano anche le caratteristiche delle nuove imprese, che possono essere colte in parte dalla creazione di posti di lavoro ad esse riferite, ma conta anche il volume complessivo dei prestiti concessi, il livello dei tassi di interesse sui prestiti, l’andamento dei crediti in sofferenza. Come fanno notare Alessandrini et al. (2003), mettendo a confronto le ricerche di Focarelli et al. (1999) e di Bonaccorsi e Gobbi (2001), i risultati delle stime dipendono anche dalla dimensione delle banche coinvolte nei processi di concentrazione: se si guarda al volume complessivo dei prestiti concessi ad esempio, questi tendono a crescere per le banche coinvolte in operazioni di fusione, mentre tendono a diminuire se il consolidamento avviene attraverso acquisizioni. Tuttavia, man mano che la dimensione delle banche coinvolte aumenta, questi risultati si capovolgono.

Sui legami tra concentrazione bancaria e concorrenza nel settore finanziario, Claessens e Laeven (2004) esaminano un campione riferito a 50 sistemi bancari, ciascuno composto da almeno 20 banche, nel periodo 1994-2001, e individuano una correlazione statisticamente significativa fra concorrenza e concentrazione dei sistemi bancari (Claessens e Laeven, 2004, p. 577).14 Gli autori sostengono una tesi che trova oggi diffuso consenso in letteratura: non è possibile considerare gli indici di concentrazione quali misure del livello di competitività di un sistema bancario. Alla luce di questo studio si può sostenere che il legame fra concorrenza e tendenza alla concentrazione nei sistemi bancari andrebbe indagato attraverso un’analisi dinamica, che tenga conto dei cambiamenti nella struttura produttiva e soprattutto negli assetti istituzionali. A tal proposito, Cerasi e Chizzolini (2004) mettono in relazione la concentrazione bancaria – che fanno dipendere dal livello di concorrenza nella fissazione dei tassi di interesse – con la concorrenza nel settore creditizio – che fanno invece dipendere dall’assetto legislativo e dalla regolazione. Studiano poi le conseguenze della deregolazione sul grado di concentrazione dei sistemi bancari europei nel periodo 1981-1999. Dall’analisi emerge che il processo di deregolazione iniziato nel 1980 conduce a un incremento della concentrazione dei sistemi bancari riscontrabile alla fine degli anni Novanta nei quindici paesi europei oggetto della stima: la loro conclusione è che più concorrenza oggi sembra implicare meno concorrenza domani. Più precisamente: il processo di deregolazione implica un aumento della concorrenza nei tassi di interesse, il che comporta nel lungo periodo un incremento della concentrazione bancaria, che trova ulteriore conferma nella tendenza alla riduzione della dimensione media della rete di sportelli delle banche. Sebbene queste conclusioni non possano di per sé apparire robuste alla luce della dimensione del campione, dal momento che l’analisi è condotta su dati aggregati per quattro anni distinti tra il 1981 e il 1999, sono coerenti con altre ricerche condotte su dati microeconomici: per esempio le stime condotte da Cerasi, Chizzolini e Ivaldi (2002), per spiegare l’impatto della deregolazione sui costi di entrata a livello di sportello bancario e sul grado di concorrenza nei tassi di interesse, dimostrano che una concorrenza più agguerrita sui tassi di interesse aumenta in modo significativo il grado di concentrazione nei mercati nazionali. Inoltre, all’interno della stessa ricerca, si riscontra una forte segmentazione all’interno dei mercati bancari europei, per quanto riguarda i costi di entrata che devono essere sopportati quando si aprono nuovi sportelli. Tuttavia questa segmentazione tende a diminuire nel tempo, proprio perché il grado di concentrazione tende ad aumentare anche in quei paesi in cui si attestava su livelli minori. La tendenza alla concentrazione bancaria e le sue implicazioni sul funzionamento del mercato sembrano dunque costituire delle risultanti di lungo periodo dei processi di deregolazione del settore.

Diventa quindi opportuno interrogarsi anche sui nessi che intercorrono fra i processi di deregulation e il potenziale rischio sistemico cui può essere soggetto il sistema bancario: assetti istituzionali favorevoli alla concorrenza fra banche rendono più o meno stabile tale sistema? Le evidenze disponibili appaiono in prima istanza controverse. Alcune sembrano indicare che una elevata concorrenza fra le banche può minacciare la solvibilità delle singole istituzioni sino a mettere in pericolo la stabilità dell’intero sistema, mentre altre suggeriscono conclusioni opposte. L’idea che una maggiore competitività spinga gli istituti bancari a mettere in campo strategie più rischiose caratterizza diverse analisi mainstream (Smith, 1984; Keeley, 1990; Repullo, 2004). Altri studi mostrano che le banche con un potere di mercato maggiore appaiono in grado di proteggere il proprio franchise value: accumulando maggiori riserve, le banche possono ridurre il rischio di credito (Boot e Greenbaum, 1993; Hellman et al., 2000; Matutes e Vives, 2000). Secondo questi studi, la tendenza alla concentrazione bancaria sarebbe spiegabile proprio in virtù della capacità di assicurare maggiore stabilità ai singoli istituti e al sistema bancario nel suo complesso. Questo punto di vista è stato messo in discussione da altri studi, dai quali si evince che le banche che operano in mercati non competitivi appaiono più inclini a concedere prestiti più rischiosi (Caminal e Matutes, 2002). Inoltre, come ha argomentato tra gli altri Mishkin (1999), sistemi bancari più concentrati risultano caratterizzati da una maggiore probabilità di essere oggetto di interventi straordinari di salvataggio secondo la logica del too big to fail: banche troppo grandi a rischio di fallimento vengono salvate dalle autorità di governo, come è accaduto negli Stati Uniti con il Troubled Asset Relief Program nell’ottobre del 2008.Tali politiche possono incoraggiare i dirigenti bancari a intraprendere strategie più rischiose.

Più di recente, De Nicolò et al. (2004) analizzano dati relativi alle attività finanziarie delle 500 imprese finanziarie più grandi su scala mondiale, in più di 100 paesi; l’indagine riguarda la relazione che intercorre fra conglomerati finanziari, da un lato, e rischio finanziario riferito alle imprese, oltre al rischio sistemico potenziale del settore bancario, dall’altro. I risultati ai quali la ricerca perviene sono i seguenti: nel 1995 le grandi imprese conglomerate non sembrano caratterizzate da rischi più bassi rispetto ai rischi che caratterizzano le imprese più piccole. Nel 2000 i valori cambiano e le grandi imprese conglomerate registrano un rischio più alto. Se si guarda al sistema bancario, nel periodo 1993-2000 i sistemi creditizi caratterizzati da una maggiore concentrazione presentano un livello maggiore di rischio sistemico potenziale. Questa relazione si rafforza ulteriormente nel periodo 1997-2000. Stando a questi risultati, dunque, pare che la dimensione delle imprese conglomerali possa aumentare, soprattutto in caso di crisi, l’ampiezza del rischio sistemico. Quest’ultimo è definito come uno “shock la cui larghezza e profondità sono abbastanza grandi da compromettere gravemente l’allocazione delle risorse e i meccanismi di condivisione del rischio esistenti attraverso un sistema finanziario” (De Nicolò et al., 2004, p. 205, trad. nostra). Non sembra possibile sostenere, allora, che la concentrazione bancaria incrementi la resistenza dei sistemi bancari. Piuttosto, i grandi conglomerati finanziari appaiono correlati a maggiori rischi sistemici.

Le conclusioni alle quali giungono Beck et al. (2006) risultano in parte diverse. Gli autori studiano la relazione tra variabili istituzionali e livelli di concentrazione da un lato, e probabilità che un paese incorra in una crisi bancaria sistemica dall’altro. Sono utilizzati dati relativi a 69 paesi nel periodo che va dal 1980 al 1997. Sul campione preso in considerazione sono individuabili 47 episodi di crisi bancaria. Risulta che le crisi sono meno probabili in paesi i cui sistemi bancari risultano più concentrati. I dati mostrano pure che le politiche di maggiore regolazione e le istituzioni che ostacolano la concorrenza appaiono correlate a una maggiore fragilità del sistema bancario. Gli autori segnalano che il loro studio lascia irrisolto il problema relativo alla specificazione dei canali attraverso cui la concentrazione e la concorrenza del sistema bancario inciderebbero sulla stabilità sistemica.

Il lavoro di Schaeck et al. (2009) sembra offrire un quadro più preciso e maggiormente esaustivo. Gli autori analizzano i dati riferiti a 45 paesi relativamente all’intervallo di tempo che intercorre tra il 1980 e il 2003, considerando 31 crisi dei sistemi bancari nazionali. Come misura del grado di concorrenza, l’analisi si avvale dell’indice H di Panzar e Rosse (1987), che – ricordiamo – non richiede di avere informazioni dirette sulla forma di mercato. Schaeck e colleghi sottolineano che la competitività e la concentrazione del sistema bancario rappresentano fenomeni profondamente diversi: un indice di concentrazione del sistema bancario non può essere considerato una proxy della competitività. Il nesso fra concorrenza e concentrazione è dunque complesso, e in generale non consente di affermare che una maggior concentrazione del mercato sia necessariamente associata a una minor concorrenza, e viceversa. Il lavoro di Schaeck et al. offre elementi di riflessione anche sulla relazione fra concentrazione bancaria e fragilità del sistema: in un contesto concorrenziale, i sistemi bancari appaiono meno soggetti alle crisi sistemiche e il tempo necessario al verificarsi di una crisi risulta più lungo rispetto ad un contesto caratterizzato da minor competizione. Distinguendola ancora una volta dalla concorrenza, gli autori rilevano pure che la maggior concentrazione dei sistemi bancari risulta associata a una maggiore tendenza verso le crisi sistemiche. Risultati, questi, che appaiono più vicini all’analisi originaria di Marx che a quella dei suoi continuatori.

 

4. Crisi, solvibilità e centralizzazione dei capitali

Le analisi riportate nei paragrafi precedenti esaminano le connessioni tra centralizzazione e crisi soffermandosi essenzialmente sulla possibilità che la prima induca le seconde. Nella visione marxiana, tuttavia, il legame tra l’uno e l’altro fenomeno può essere analizzato alla luce di una duplice direzione causale: vale a dire, sia riguardo alla possibilità che la centralizzazione dei capitali contribuisca ad alimentare le contraddizioni del sistema e le sue crisi ricorrenti, sia nel senso che le crisi possono a loro volta influenzare la tendenza alla centralizzazione. Questo secondo angolo visuale può essere analizzato alla luce di alcuni contributi recenti tesi a evidenziare che l’impatto della crisi economica sui processi di centralizzazione può avere segni diversi a seconda degli indirizzi di politica economica, con particolare riferimento alle decisioni del banchiere centrale.

Secondo la concezione mainstream della politica monetaria, il banchiere centrale tenderebbe a seguire una “regola ottima” che lo induce a calibrare i tassi di interesse in funzione dell’obiettivo di garantire la stabilità dell’inflazione e del reddito intorno al cosiddetto equilibrio “naturale” (Taylor, 1993). Sulla base di una impostazione alternativa è possibile invece mostrare che la banca centrale segue una regola che le attribuisce un compito diverso: intervenire sui tassi d’interesse in base alle condizioni di solvibilità dei molteplici attori del sistema economico. Più precisamente, il banchiere centrale può trovarsi ad assumere il ruolo di ‘regolatore’ di un conflitto tra quei capitali che sono in grado di accumulare attivi e sono quindi ampiamente solvibili, e quei capitali che invece tendono al passivo e quindi all’insolvenza. Specialmente in una fase di crisi economica, più alti saranno i tassi di interesse imposti dalla politica monetaria, maggiori saranno le difficoltà dei capitali a rischio di insolvenza, più probabile sarà la tendenza ai fallimenti dei capitali più deboli e alle acquisizioni ad opera dei capitali più forti: vale a dire, alla centralizzazione del capitale nel senso di Marx (Brancaccio e Fontana, 2013; 2014). Alla luce di questa diversa interpretazione della politica monetaria, possiamo affermare che le pressioni contrastanti cui è di volta in volta sottoposto il banchiere centrale determinano i livelli della circolazione monetaria e dei tassi d’interesse in base a una “regola di solvibilità” atta a favorire la centralizzazione capitalistica sotto il vincolo di un grado di solvibilità del sistema che possa ritenersi ‘sostenibile’ sul piano politico. Se il ritmo della centralizzazione oltrepassa il limite della sua sostenibilità politica, sussiste il rischio che la coalizione dei capitali in passivo prenda il sopravvento e imponga una modifica del quadro istituzionale, con cambiamenti nell’azione della banca centrale, nell’indirizzo generale di politica economica e persino nelle relazioni economiche internazionali, tali da imporre una frenata e al limite un arretramento dei processi di centralizzazione. È questa una possibilità concreta che trova riscontri anche recenti, come sembra indicare l’inviluppo dell’attuale crisi europea (Brancaccio et al., 2014).

I destini del processo di centralizzazione risultano dunque aperti: esso può avanzare ma può anche subire contraccolpi, battute d’arresto, persino inversioni di rotta. Rispetto a Hilferding, a Sweezy e agli altri interpreti del concetto di centralizzazione, sussistono evidenti differenze. Non si tratta tuttavia per questo di una fuga dalla logica marxiana della legge di tendenza: non siamo di fronte a un generico e indeterminato rinvio alla sfera del ‘politico’. Il fatto che la centralizzazione sia qui intesa come risultante della ‘politica economica del capitale finanziario’ rinvia, in ultima istanza, a un’indagine sulle determinanti di questa politica economica. Potremmo dire, in questo senso, che il processo di centralizzazione modifica i termini della lotta interna alla classe capitalista, i quali incidono sugli assetti di potere che determinano la linea del banchiere centrale e delle altre autorità di governo, la quale a sua volta influenza il ritmo stesso della centralizzazione. Anche in tal caso potremmo considerarlo un ritorno alla complessità delle tesi originarie di Marx. Un ritorno che tuttavia richiama alla luce un limite nelle modalità di sviluppo della gran parte delle analisi marxiste: che tuttora sembrano trascurare il problema della definizione di una teoria dello Stato e delle procedure di governo (Bobbio, 1976) e che appaiono ancora oggi viziate da una “concezione piuttosto semplicistica e schematica tra l’economia e lo Stato e tra l’economia e la politica” (Hilferding, [1940] 1982, citato in Brancaccio e Cavallaro, 2011, p. XXXIX). Si tratta però di uno schematismo che non pare risolvibile con l’ausilio dei rigidi strumenti dell’analisi mainstream. Piuttosto, ancora oggi esso potrebbe trovare una via di soluzione attraverso un lavoro di recupero del concetto marxiano di riproduzione e di estensione del medesimo alla sfera del politico (Althusser, 1971).

 

* Emiliano Brancaccio, Università degli Studi del Sannio, email: This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.; Orsola Costantini, Università degli Studi di Bergamo, email: This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.; Stefano Lucarelli, Università degli Studi di Bergamo, e Université Paris 1 (Panthéon-Sorbonne), email: This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.. Ringraziamo Giorgio Gattei e due anonimi referees per i commenti a una precedente versione del lavoro. Ogni responsabilità per eventuali errori o omissioni resta a carico degli autori.

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Note
1 Sulla classificazione dei filoni di ricerca economica, cfr. Roncaglia (2006). Sulla definizione di mainstream, cfr. anche Brancaccio (2011) e Lucarelli e Lunghini (2012).
2 Le riviste che abbiamo passato in rassegna sono: Scienze & Society che sin dal 1936 pubblica contributi che si rifanno ai più disparati campi disciplinari perseguendo l’obiettivo di mantenere vivo e produttivo il pensiero marxista, senza aderire a nessuna particolare ‘scuola’ marxista nel dibattito contemporaneo (http://www.scienceandsociety.com/); la Monthly Review,sorta dall’iniziativa di Paul Sweezy e di Leo Huberman nel 1949, che resta un punto di riferimento fondamentale per lo studio dei rapporti tra sviluppo capitalistico e imperialismo (http://monthlyreview.org/about); la Review of Radical Political Economics (primo numero del 1969, http://rrp.sagepub.com/); Capital and Class (primo numero del 1977, http://cnc.sagepub.com); la serie Research in Political Economy diretta da Paul Zarembka (che pubblica un solo volume tematico ogni anno dal 1977, http://www.emeraldgrouppublishing.com/products/books/series.htm?id=0161-7230); Rethinking Marxism (che comincia le sue pubblicazioni nel 1988, http://rethinkingmarxism.org/about-rm.html) e Historical Materialism (il primo numero esce nel 1995 all’interno di un progetto interno alla London School of Economics; http://www.brill.com/historical-materialism-1). Ad esse abbiamo aggiunto la rivista internazionale Actuel Marx che esiste dal 1969 e che rappresenta un animato ambito di confronto tra le diverse scuole marxiste, soprattutto fra lo strutturalismo e il freud-marxismo (http://actuelmarx.u-paris10.fr/).
3 I criteri di selezione adottati derivano dalla procedura seguente: in una prima fase del lavoro abbiamo intrapreso una ricerca a partire da EconLit combinando le parole chiave: “Marx” e “concentration” e/o “centralization” e “financial instability” e “crisis”. I risultati ottenuti sono stati tuttavia poco significativi (17), come può dimostrare una replica dell’esercizio svolto e un’attenta lettura degli abstracts che EconLit seleziona. D’altro canto EconLit non indicizza alcune importanti riviste marxiste. Pertanto, in un secondo momento, ci siamo riferiti alla lista delle riviste scientifiche eterodosse disponibile presso la Heterodox Economics Newsletter Directory ( http://www.heterodoxnews.com/directory/ journals.htm); tra queste abbiamo individuato quelle riviste che nella descrizione della linea editoriale facevano esplicito riferimento al marxismo. Nelle annate di queste riviste abbiamo quindi consultato tutti gli articoli che avessero come tema d’analisi il legame fra centralizzazione dei capitali e instabilità finanziaria. In alcuni casi abbiamo anche chiesto ai comitati editoriali di indicarci eventuali studi ospitati dalle riviste stesse sul tema in oggetto.
4 Per approfondire il tema cfr. Brancaccio e Cavallaro (2011).

5 È interessante notare che la seconda edizione italiana de La teoria dello sviluppo capitalistico, a cura di Claudio Napoleoni, (Sweezy, 1970) non riporta l’ultima parte dell’opera originale. In essa tuttavia sono presenti proprio le parti della riflessione di Sweezy che risultano più interessanti per riflettere sulla concentrazione e la centralizzazione dei capitali, da cui traiamo le citazioni riportate in questo scritto. Del testo integrale c’è stata comunque una traduzione italiana edita da Einaudi nel 1951.

6 È possibile ravvisare qui una convergenza con le ricerche della prima scuola francese della regolazione. Cfr. Aglietta ([1976] 1997, in particolare le pp. 243-296).

7 Per finanza iniziale si intende il finanziamento che serve alle imprese per avviare l’attività produttiva, la cui mancanza impedisce l’avvio del processo produttivo. La liquidità che le imprese raccolgono sui mercati vendendo i propri beni finali o collocando titoli viene invece definita finanza finale. La sua funzione è rendere possibile alle imprese il rimborso del credito bancario. Cfr. Graziani (1994, p. 82). Più in generale, sul rapporto fra industria e finanza nella teoria del circuito monetario, si vedano Graziani (2003) e Caiani, Godin e Lucarelli (2014).

8 Al riguardo, si vedano anche gli studi tesi a sostenere l’idea di una ‘centralizzazione senza concentrazione’, dove per centralizzazione si intende soprattutto l’incremento delle operazioni di M&A (mergers & acquisitions), mentre la concentrazione viene posta in relazione con la struttura verticalmente integrata dei processi produttivi (cfr. ad es. Bellofiore, 2011). Per ciò che concerne l’analisi dell’accumulazione finanziaria si vedano anche i contributi della scuola francese della regolazione (Boyer, 2007, pp. 111-125).

9 Nel terzo libro del Capitale, Marx individua nella società per azioni – analizzata come elemento del sistema creditizio – una forma nuova della contraddizione fondamentale del capitalismo: la separazione fra proprietà e funzione del capitale. Le potenzialità del sistema azionario, spinte all’estremo limite, prefigurano un capitale tutto monetario, gestito da amministratori che non sono proprietari del capitale. In questo contesto il sistema creditizio consente al sistema economico e sociale di andare oltre i propri limiti. L’accelerazione dello sviluppo materiale delle forze produttive da parte del sistema creditizio può dunque essere massima solo quando si ha separazione fa proprietà e controllo del capitale. Marx sottolinea anche che in questo processo, il credito e la diffusione della società per azioni, affrettano le crisi del vecchio sistema di produzione caratterizzato da capitalisti che sono al contempo controllori del proprio capitale. Cfr. Marx ([1894] 1994, pp. 473-523; si tratta dei capitoli XXV, XXVI e XXVII, in particolare le pp. 476-477 sono dedicate alla centralizzazione del capitale monetario, mentre le pp. 521-522 sono dedicate ai nessi fra centralizzazione dei capitali ed espropriazione con lo sviluppo della società per azioni). Si veda anche Galgano (1976-1977).

10 In tema di metodologia marxista, cfr. Sweezy (1981).

11 Nell’ambito della tradizione post-keynesiana non mancano i contributi che cercano di approfondire soprattutto i nessi che intercorrono fra oligopoli finanziari e instabilità sistemica (cfr. Wray e Forstater, 2006) come anche le proposte di nuove regole volte a limitare il rischio di nuove crisi finanziarie (cfr. ad esempio Kregel, 2010; Tonveronachi, 2010).

12 Questa sembra anche la chiave di lettura proposta da Sylos Labini (cfr. ad esempio Sylos Labini, 2006).

13 Alessandrini, Papi e Zazzaro (2003) suddividono la letteratura esistente in quattro linee di ricerca principali: la prima è volta a spiegare gli effetti dell’integrazione e del consolidamento del sistema bancario sia sulla competitività dello stesso sistema, sia sulle condizioni di erogazione del credito; la seconda è dedicata all’analisi degli effetti sul finanziamento alle piccole imprese causati dalle operazioni di mergers & acquisitions delle banche; la terza si concentra sul ruolo che hanno le banche locali per sostenere lo sviluppo locale; l’ultima riguarda più generalmente gli effetti che l’integrazione dei sistemi bancari genera sulla crescita economica. Nel nostro lavoro ci siamo limitati al primo gruppo di contributi, aggiornando la rassegna presentata da Alessandrini e colleghi e cercando di presentare al lettore innanzitutto quei contributi empirici in cui la concentrazione del sistema bancario – attraverso la quale si possono cogliere alcuni aspetti rilevanti di ciò che la letteratura marxista indica come centralizzazione dei capitali – viene messa in relazione con le crisi sistemiche.

14 Gli autori utilizzano come misura del grado di concorrenza l’indice H di Panzar e Rosse (1987). Si tratta di una metodologia incentrata sulla misurazione dell’elasticità dei profitti delle banche ai prezzi dei fattori di produzione, che non richiede dunque di avere informazioni dirette sulla forma di mercato: H < 0 indica una situazione di monopolio, H = 1 indica una situazione di concorrenza perfetta, mentre 0 < H < 1 indica una situazione di concorrenza monopolistica. La concentrazione del sistema bancario viene invece misurata ricorrendo agli indicatori messi a punto da Barth et al. (2001): il grado di concentrazione dei depositi nelle cinque maggiori banche su scala nazionale, il grado di concentrazione degli assets nelle cinque maggiori banche, la percentuale di assets del sistema bancario posseduta all’estero, la percentuale di assets del sistema bancario possedute dal Governo. Gli indici sono espressi come percentuali e sono calcolati a partire da una survey messa a punto con la collaborazione della Banca Mondiale volta a raccogliere informazioni sulla regolazione dei sistemi bancari in 107 Paesi.

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