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sinistra

Quando gli interessi finanziari si sposano con le istituzioni

Le crisi economiche, l’impoverimento culturale, le deformazioni del linguaggio

Sergio Bruno

schiele1261. Un tentativo di controinformazione colta

Quando interessi forti, quelli della gente molto ricca e potente, si sposano con le istituzioni per ottenere la possibilità di ottenere legalmente il loro tornaconto e per guidare le azioni pubbliche a proprio vantaggio, le nozze avvengono tramite il coinvolgimento di persone che occupano o occuperanno posizioni influenti nelle istituzioni e, da trent’anni in qua sempre più, nelle tecnocrazie, nazionali e internazionali. Per rendere fattibile questo deleterio matrimonio occorrono varie condizioni:

  • un impoverimento culturale e una mancanza di curiosità storica talmente diffusi da impedire di attingere saggezza e capacità diagnostica dagli eventi passati,

  • la creazione di un prestigio artificiale intorno alle tecnocrazie e ai think Tank da esse più o meno direttamente partoriti,

  • la frammentazione delle competenze dei funzionari di livello medio delle tecnocrazie, che rende loro difficile avere una visione di insieme, coniugata nel corso del tempo ad un fluido funzionamento di meccanismi di cooptazione legati a comprensibili motivazioni di carriera, indipendenti dai requisiti di onestà personale (che possono essere ottimi) e alla carenza di capacità critiche robuste, combinate con il coraggio, da parte dei cooptandi1,

  • l’uso di linguaggi capaci di nascondere alla maggioranza dei cittadini l’essenza della azioni pubbliche, le loro implicazioni, le loro motivazioni latenti (i cittadini possono capire che vi sono “cose che non tornano” ma non sono nelle condizioni di identificarle),

  • uno scontro tra ideologie stereotipato che mascheri gli interessi trasversali che sono in azione, insieme ad una “professionalizzazione” di politici di ignoranza crescente.

Tutto ciò non ha nulla a che fare con la corruzione venale, che può esserci o meno. Si tratta di una corruzione delle menti, molto più perniciosa.

Per riuscire a fare controinformazione su un tema che è, per definizione, “riservato” quando non nascosto, occorre parlare non di singoli eventi o piccoli insiemi di eventi, bensì di eventi e loro cambiamenti su piani apparentemente molto lontani tra loro, argomentandone la complementarietà reciproca, cercando di svelare come essi servano in modo diverso gli stessi interessi. Per lo più occorre muoversi senza prove dirette, ma facendo ricorso a ragionamenti, sia di buon senso che molto astratti e basati su conoscenze specializzate, e affidandosi ad una prospettiva storica intelligente. Occorre poi anche disvelare le molte distorsioni che riguardano l’associazione tra parole, concetti e fatti. Parole e concetti, quali ad esempio quelli che raccordano le conoscenze degli economisti a quelle degli uomini della strada. Fatti come quelli suggeriti dalla storia a proposito di come si esce (o come non si può uscire) da momenti di crisi finanziaria ed economica come quelli che si sono avuti negli anni 1930 e negli anni 2000.

Argomenterò a questo proposito che, sebbene l’attuale crisi abbia caratteristiche in parte diverse da quella degli anni 1930, per risolvere i maggiori nodi problematici di oggi sarebbe sufficiente trarre insegnamenti dalle azioni intraprese negli anni della leadership rooseveltiana. E non mi riferisco, e non mi riferirò mai in questo scritto, al deficit spending, tanto richiamato dalla pubblicistica di sinistra e non solo in questi ultimi anni. Quella che potremmo definire la “anti-austerità” è infatti solo un aspetto minore delle strategie risolutive, che negli anni rooseveltiani sono state invece dovute all’enorme mole di lavoro investigativo e di progettazione che miriadi di persone dotate di intelligenza, cultura, senso civico e coraggio hanno fatto. Essi si sono mossi, in contrasto con gli interessi costituiti, per comprendere a fondo gli elementi di distorsione che hanno condotto alla crisi di Wall Street e per elaborare quadri normativi, tuttora di grande attualità, per reagire ai danni prodotti dalla irresponsabilità di banche e finanzieri. Aggiungo che i perversi fenomeni finanziari emersi nel corso degli ultimi 30-40 anni sono emersi soprattutto perché sono stati abbandonati i regimi normativi –disegnati dall’amministrazione Roosevelt e poi in gran parte imitati da molti paesi europei- che davano trasparenza alla finanza e sicurezza ai rapporti tra risparmiatori e banche.

Bisogna essere indignati per cimentarsi in un tale tentativo di chiarimento. Le provocazioni non sono mancate. Ne sono emerse due a distanza di poco più di un mese. La prima è stata la 91-esima “Giornata Mondiale del Risparmio” (World Saving, o World Thrift Day) e gli agenti provocatori sono in questo caso i personaggi “istituzionali” che in un centinaio di paesi hanno partecipato attivamente al rito delle celebrazioni2; la seconda riguarda le recenti crisi bancarie italiane e le perdite delle famiglie che hanno sottoscritto le obbligazioni “subordinate” emesse in un passato recente dalle banche in crisi.

Nel celebrare (come al solito pomposamente) la giornata del risparmio si è sostenuto quest’anno che oggi “…il risparmio è ancora alla base di una finanza che voglia essere motore di sviluppo delle comunità locali. Una crescita complessiva: sul piano economico, sociale, civile. Nel raggiungimento di questo obiettivo la finanza ha un ruolo nevralgico”. Evidentemente nessuno dei celebranti pensava a banche quali quella dell’Etruria ed altre, così ben radicate nei territori. Ma la finanza, proprio alla luce di quanto accaduto con le obbligazioni subordinate, è davvero ancora la strada (ammesso che mai lo sia stata in tempi recenti) per un uso migliore individuale e sociale di quanto risparmiato? O invece, da vari decenni a questa parte, si tratta di un rilevante fattore di distorsione nel funzionamento delle economie capitalistiche?

Al di là di tali quesiti e concettualmente a monte di essi esistono ambiguità maggiori, che val la pena quanto meno di chiarire, e interrogativi altrettanto inquietanti, quali: l’importanza del risparmio implica che più risparmio sia sempre cosa buona? Non è possibile che esista invece un eccesso di risparmio, come indicato autorevolmente perfino da personaggi dell’establishment in tempi recenti? E perché le banche si danno tanto da fare per promuovere il risparmio? Si tratta di filantropia da parte loro o di un modo per assorbire l’eccesso di risparmio creando artificialmente bolle speculative e di conseguenza un mercato da tosare? L’importanza enfaticamente attribuita al risparmio non dipende forse, per chi risparmia, da un bisogno di sicurezza cui il sistema pensionistico solidaristico –in nuce inventato da quel gran conservatore di Bismark e oggi abbandonato- rispondeva con efficienza ed affidabilità? E non può darsi che la vistosa espansione del settore bancario, finanziario e assicurativo, sproporzionata rispetto allo sviluppo delle attività produttive, sia in buona parte connesso alle recenti riforme pensionistiche –a mio avviso poco lungimiranti e inconsapevoli degli effetti a breve e a lungo termine sull’intero sistema- e con le cresciute incertezze e difficoltà emerse, per effetto dalla condotta delle politiche economiche, macro e micro, a partire dagli anni 1970?

 

2. I grandi assenti: i capital gains

Chiariamo preliminarmente alcune importanti ambiguità concettuali e linguistiche in campo economico. Le loro radici hanno a che fare con la reticenza con la quale gli economisti trattano le relazioni tra flussi e stock e più in generale il tempo cronologico3 che indefettibilmente le caratterizza. Queste si riverberano sulle ambiguità connesse ai concetti di risparmio e di investimento4. La convinzione che gli investimenti siano eguali, in equilibrio, ai risparmi è coeva alla nascita dell’economia come disciplina avente una veste scientifica5. Essa fa leva sulla definizione –cambiata nel tempo e diversa dall’uso più comune- di ciò che costituisce “investimento”.

Gli economisti intendevano che i flussi annui di ciò che viene risparmiato deve essere eguale, in equilibrio, a quanto viene speso in flussi annui di investimenti in attività produttive, cioè in attività che creano, combinando capitali tecnici e lavoro, flussi di prodotti e servizi utili. Il valore dei flussi di prodotti, a sua volta, viene fatto corrispondere ai flussi di reddito delle famiglie, riguardati come costituiti di salari, di profitti e, laddove esiste una attività di intermediazione bancaria (riguardata per definizione come servizio utile) di interessi. Venivano considerate anche (più di recente occasionalmente e marginalmente) le rendite, cioè le entrate che derivano dallo sfruttamento non produttivo di patrimoni, costituite essenzialmente dalle rendite agrarie e dall’affitto di proprietà immobiliari costruite nel passato; per questo le rendite vengono riguardate come eventi redistributivi tra i soggetti produttori (lavoratori e capitalisti) e i detentori dei patrimoni (rentiers).

Dai redditi così definiti nascerebbero i flussi costituiti dalla spesa (dalla “domanda”) delle famiglie (per acquistare i flussi di prodotti di consumo) e i flussi di risparmio delle famiglie stesse. Eccezionalmente viene considerata la possibilità che a risparmiare siano le imprese6. Il flusso dei risparmi verrebbe poi sistematicamente trasferito ad imprese ed imprenditori per finanziare quanto speso in ciascun periodo per acquistare, ovvero costruire direttamente, macchinari ed impianti. Questi e solo questi sarebbero gli investimenti, la cui accumulazione nel tempo costituirebbe, al netto del valore degli impianti e macchinari che vengono abbandonati, il capitale produttivo (uno stock).

Tutti sono pronti a riconoscere che questo quadro semplifica troppo la realtà, ma le precisazioni non bastano a celare due grosse magagne. La prima è la scarsa o quasi nulla considerazione del fatto che le decisioni di risparmio insistono non sul reddito bensì sulle entrate dei soggetti, fatte anche di incrementi di valore patrimoniale (capital gains), e che le decisioni di spesa riguardano anche i patrimoni. La seconda è che i risparmi (sia flussi che stock, cioè risparmi accumulati) sono alla ricerca di “IMPIEGHI” che diano affidamento sul piano della conservazione e possibilmente dei rendimenti, indipendentemente dal fatto che tali impieghi consistano di investimenti produttivi. Il fatto che nel linguaggio di tutti i giorni si parli sempre di “investimenti” del risparmio non rileva se non perché aumenta la confusione. Ritornerò, fino a dare la nausea, su queste confusioni.

I capital gains –si noti- sono probabilmente sempre esistiti nelle civiltà in cui esisteva moneta e riconoscimento, legale o di fatto, di relazioni di debito e di pagamenti di interessi7, ma essi hanno acquistato un rilievo crescente dal 1600 in poi, a partire dalla costituzione delle prime società di capitali (le varie compagnie delle Indie, orientali e occidentali, inglesi, olandesi, danesi, francesi, svedesi) e con la loro evoluzione, un fenomeno che procede di pari passo con lo sviluppo del colonialismo prima e della rivoluzione industriale successivamente. I capital gains erano dovuti al fatto che la domanda delle quote commerciabili delle compagnie (forma embrionale delle moderne società per azioni, o corporations8) era superiore all’offerta per la speranza di lauti guadagni. Il fenomeno era facilitato dalla nascita e la crescita delle Borse valori (Stock Exchange) e complementare ad esse9. Si tratta del seme della moderna finanziarizzazione e dell’emergere di operazioni speculative, la più vistosa delle quali fu l’inflazione dei valori delle quote della South Sea Company tra il 1717 e il 1720 (la Company era stata fondata appena nel 1711 e al tempo della bolla era ancora incapace di essere efficacemente operativa). Lo shock dello sgonfiamento della bolla fu così intenso da portare ad una normativa (il Bubble Act) che bloccava la costituzione di nuove joint stock companies senza concessione del re (“royal charter”); una normativa soppressiva che venne abrogata solo un secolo più tardi, dando il via al proliferare delle società per azioni e alle borse.

Gli economisti quindi, omettendo di considerare in modo sistematico le transazioni sui patrimoni esistenti e i capital gains, hanno amputato un pezzo importante della storia del capitalismo, rilevante non solo per capire i meccanismi che generano le differenze tra poveri e ricchi, ma anche per capire i fenomeni aggregati che hanno a che fare con lo sviluppo, con i cicli e, soprattutto, con le crisi.

 

3. Il risparmio è divenuto sovrabbondante?

Se nel 1924, quando, su ispirazione di Maffeo Pantaleoni era stata istituita la giornata internazionale del risparmio, era comprensibile come il risparmio sembrasse strategico per lo sviluppo, oggi non dovrebbe essere disdicevole per nessuno –compresi i promotori della giornata internazionale del risparmio- discutere apertamente dell’ipotesi che il risparmio possa essere eccessivo. E’ interessante invece che così non sia e che vi sia invece una reticenza diffusa in proposito.

Ben Bernanke, nel marzo del 2005, parlava già di “sovrabbondanza globale di risparmio” (global saving glut), aprendo un dibattito su tale possibilità. Visto che nell’Ottobre di quello stesso anno Bernanke venne nominato Presidente della Federal Reserve Bank, restando in carica fino al 2014, la sua autorevolezza dovrebbe essere fuori discussione. Ma questo non sembra aver scoraggiato i celebratori del risparmio.

Secondo Paul Krugman (ad esempio http://www.libertaegiustizia.it/2015/08/26/quella-sovrabbondanza-infinita-che-destabilizza-leconomia-globale/ ) la sovrabbondanza avrebbe molte cause, tra le quali quella principale ha a che fare con il fatto che i risparmi che si formano in paesi sottosviluppati o emergenti ottengono remunerazioni maggiori nei paesi più capitalisticamente avanzati (Nord America ed Europa, principalmente). Purtroppo –osserva Krugman- le remunerazioni maggiori non sono legate ad usi produttivi migliori, bensì ad acquisti di stock immobiliari e finanziari, sicché il mondo sembra essersi trasformato in un gioco in cui –data la possibilità di far circolare internazionalmente stock monetari e finanziari- gli eccessi dei risparmi sugli investimenti strettamente produttivi sono in cerca di “bolle speculative” da gonfiare10.

Eppure, secondo Krugman, “politici e tecnocrati … vogliono essere considerati persone serie che prendono decisioni difficili e che scelgono, per esempio, come tagliare programmi popolari e aumentare i tassi di interesse. A loro non piace sentirsi dire che viviamo in un mondo nel quale politiche apparentemente severe non fanno che peggiorare le cose”. Questo indurrebbe una sorta di “pregiudizio irrazionale contro il concetto stesso di sovrabbondanza globale. Eppure gli stessi personaggi vogliono essere considerati persone serie e allora ricorrono ad un linguaggio con la semplice parvenza della serietà”.

 

4. Il risparmio e il credito quali combustibili della finanza

La tesi del global saving glut è a mio avviso corretta ma insufficiente. Come si fa, infatti, a sostenere che i risparmi eccedono gli investimenti produttivi a livello planetario e non mettere in discussione quanto asserito dalla teoria economica e ripetitivamente insegnato agli studenti di tutto il mondo, e cioè che risparmi ed investimenti produttivi non possano sistematicamente divergere al livello delle singole economie, in particolare perfino in quelle inesistenti “economie da laboratorio” che gli economisti assumono essere “chiuse a rapporti con l’estero”? Ma se si accetta il fatto che i risparmi possano essere maggiori degli investimenti produttivi in qualsiasi sistema, tutte le considerazioni che gli economisti teorici hanno sviluppato in merito alla loro sostanziale eguaglianza vanno considerate straordinariamente fragili e svianti, tanto da incrinare l’intero quadro fondante delle teorie macroeconomiche e macro-econometriche sul quale le tecnocrazie internazionali e nazionali asseriscono di basarsi. Al contempo, se il danaro risparmiato non si accumula sotto i materassi o nei depositi bancari, appare chiaro che essi non possano che essere impiegati nella compravendita di ricchezza.

E’ a questo proposito che si è creata, nel corso degli ultimi 30-40 anni, una confusione prima linguistica e poi concettuale, apparentemente e paradossalmente originata dal trasferimento dell’uso popolare delle parole -in questo caso l’uso comune della parola “investimento”- all’uso che oggi comunemente ne fanno economisti, banchieri, politici e, naturalmente, i media. Gli acquisti di assetti patrimoniali esistenti, case, terreni, titoli pubblici e privati, che tutti quei soggetti chiamano investimenti, non sono gli investimenti dei quali si narra nelle teorie economiche, che sono invece flussi di acquisti di beni di investimento o spese per la costruzione diretta di tali beni da parte di imprese produttive11. E’ quindi per superare questa confusione, che ha attivato una vera e propria commedia degli equivoci, che parlo di “impieghi”.

La natura di “non investimento” è chiara per gli acquisti di terre e immobili di produzione passata. Qualche dubbio potrebbe esservi sulla natura di acquisti di titoli finanziari o di quote di fondi di investimento, ma anche su questo si può fare chiarezza concettuale: sono investimenti solo gli acquisti di titoli al momento della loro emissione, a patto che la raccolta di fondi serva per finanziare l’espansione della capacità produttiva di imprese non finanziarie. Questi “investimenti” sono una quota esigua del totale delle transazioni di borsa.

Se e nella misura in cui la formazione di risparmio (il flusso) non va a finanziare investimenti reali, essa costituisce una sottrazione di potenziale potere d’acquisto altrimenti destinato all’acquisto di beni e servizi prodotti (flussi); cioè, per dirla nel linguaggio macroeconomico recepito, costituisce una sottrazione di domanda (di beni di consumo e di beni di investimento). Questa distorsione ha quindi conseguenze strategiche. Un flusso di domanda reso decrescente da una eccessiva formazione di risparmio (flusso) esercita effetti depressivi su produzione e reddito, a meno che non venga compensata da spesa pubblica o da esportazioni12.

Al contempo dovrebbe a questo punto essere chiara quale falla analitica sia stata il trascurare, da parte degli economisti, patrimoni esistenti e capital gains: i capital gains, insieme alle rendite, sono una remunerazione degli impieghi di risparmio che NON SONO investimenti. Entrambe queste entrate sono divenute una quota sempre più importante dei “non profitti”, agevolati in ciò dal fatto che si creano bolle, come osservato da Krugman: se infatti sempre più risparmi non trovano sbocco nelle attività produttive si determina un eccesso di domanda di assetti patrimoniali (o di qualsiasi cosa venga ritenuta tale) il cui prezzo, quindi, non può che inflazionarsi. Ma le bolle, prima o poi, hanno il destino di sgonfiarsi, determinando crisi.

E qui si può osservare come le deformazioni concettuali e linguistiche tocchino un vero e proprio culmine: tutti sono ormai pronti a credere che mentre l’inflazione dei flussi di beni prodotti sia, oltre certi limiti, un male dal quale difendersi, l’inflazione degli stock, quale testimoniata dai guadagni di borsa e dalla crescita dei relativi indici, sia una sorta di benedizione del cielo, tanto più grande quanto maggiore è l’inflazione degli indici, qualcosa quindi da perseguire, da guardare con ottimismo, anche perché tutti pensano che essa sia un termometro di quanto vanno bene le economie.

Va fatto un ultimo chiarimento. La finanza non è sostenuta solo dal risparmio, ma dal credito; in pratica da una creazione virtuale di moneta. Mentre le transazioni sui flussi di beni e servizi avvengono per lo più con pagamenti effettivi di quanto acquistato o con dilazioni brevi e quasi sempre accompagnate da solide garanzie, non è così nel caso degli acquisti di titoli in borsa; ciò in virtù della c.d. “leva finanziaria”.

Questa consiste nel fatto che nelle operazioni finanziarie esistono soggetti che possono acquistare titoli per un multiplo dei mezzi di loro proprietà. Così, ad esempio, se con mezzi propri per 10 si possono acquistare titoli per 100 (leva di 10:1), se i titoli acquistati per 100 ad una certa data hanno aumentato dopo qualche tempo il loro valore a 105, il guadagno sul capitale proprio, restituito il debito, è del 50% ; e se la leva finanziaria è maggiore, ad esempio 20:1, il guadagno è del 100% e può essere ottenuto in periodi anche brevissimi (per maggiori chiarimenti faccio rinvio alla spiegazione fornita dalla Consob: http://www.consob.it/web/investor-education/la-leva-finanziaria ). I soggetti che più tipicamente possono permettersi di operare con leve finanziarie alte (anche superiori a 20) sono le banche e gli speculatori professionali.

 

5. Le distorsioni culturali indotte dalla finanziarizzazione

Sui fenomeni finanziari si è determinata in ogni caso una distorsione culturale e sociale diffusa, solo in minima parte riconducibile agli economisti. Mi riferisco al fatto che i media sono divenuti i ripetitori martellanti di un messaggio che attribuisce una sorta di sacralità a ciò che succede in borsa. Alla conformazione del messaggio non sono stati estranee le istituzioni, che danno l’impressione di credere che le borse possano, come ho accennato, fare da bussola del buono o del cattivo governo delle economie.

Quando gli indici cadono di più di 2-3 punti i media danno un grande risalto alla cosa e dicono che “sono stati bruciati (qualche volta “volatilizzati”) X miliardi di capitalizzazione”, quando giorno dopo giorno gli indici crescono al fenomeno non viene di solito dato risalto. (Trovo tutto ciò molto irritante e mi irrito ancora più, da cultore masochista del linguaggio, chiedendomi quale sia il contrario di “bruciare” e “volatilizzare”). Non c’è giornale radio o TV che non dia ormai, più volte al giorno, notizie sugli andamenti di borsa, come se si trattasse di cosa di estrema importanza. Spesso vengono intervistati pretesi esperti che come oracoli discettano sulle cause di piccole , insignificanti oscillazioni degli indici. Un minimo di riflessione basterebbe invece a capire che le oscillazioni di borsa non sono che il riflesso della domanda e dell’offerta contingente, fatta in ciascun breve intervallo di tempo, di assetti patrimoniali; domanda e a volte offerta che sono spesso pilotate in funzione delle variazioni desiderate dai grandi speculatori. E’ solo in un numero limitato di casi e comunque lungo periodi relativamente lunghi che vale il principio che la valorizzazione dei titoli dipenda da serie aspettative sulla capacità di fare guadagni (profitti ma anche e in misura crescente capital gains) dell’azienda rappresentata da quei titoli.

 

6. Flussi di risparmio e sistemi pensionistici

E’ più che probabile, quanto meno in molti dei paesi più avanzati, che il risparmio sia troppo. Secondo Bernanke e i sostenitori del global saving glut ciò accadrebbe anche in molti paesi arretrati. Certamente ciò è stato vero nei paesi del Golfo Arabico che per primi lo hanno sperimentato al tempo dei primi shock petroliferi perché in quei paesi i maggiori incassi petroliferi non si sono tradotti in maggiori importazioni e consumi per tutti, ma sono rimasti nelle mani degli sceicchi e dei notabili, che li hanno usati anche nelle speculazioni finanziarie e nel campo del real estate.

Resta da chiedersi se il “troppo” dipenda dalla eccessiva tendenza a risparmiare di famiglie (e –aggiungerei- sulla scia delle indicazioni di Domar, di imprese), ovvero dalla scarsità degli investimenti nell’economia reale; e, come postilla di questo interrogativo, ci si dovrebbe interrogare se gli investimenti in campo reale sono insufficienti –o sono comunque diminuiti- perché sono diminuiti i costi per costruire il capitale necessario alla produzione, e/o perché è diminuita la quantità di prodotti realizzati con quel capitale che ci si attende di vendere, e/o infine perché le prospettive di profitto derivanti dagli investimenti in campo reale sono divenuti più bassi dei guadagni che è possibile ottenere dagli impieghi finanziari. Ovviamente l’implicazione di una risposta affermativa a quest’ultimo interrogativo sarebbe che lo sviluppo di molti paesi non è solo basso ma profondamente distorto da un eccessivo peso degli impieghi finanziari e delle entrate che ne conseguono, con possibili effetti negativi sullo sviluppo ed effetti divaricanti sulla distribuzione tra ricchi e poveri.

Un buon punto di partenza per affrontare questi interrogativi è l’elevata probabilità che la tendenza a risparmiare sia correlata positivamente all’incertezza mentre quella ad investire sia ad essa correlata negativamente.

Negli ultimi decenni, in particolare in Europa, le politiche di austerità non hanno certo incentivato le aspettative di chi investe in attività produttive. Sono state d’altra parte attuate riforme in campo pensionistico nei paesi più avanzati che, rimuovendo i vecchi sistemi a base retributivo-solidaristica per far posto a sistemi su base contributiva pura, hanno reso insicuro e per lo più “incognito” il futuro pensionistico dei cittadini. Questa fonte di ansia è stata aggravata da un’elevata disoccupazione e da un accorciamento medio dei probabili periodi contributivi. Tutto ciò non può non aver avuto effetti di segno positivo sulla tendenza a risparmiare. Il che non vuol dire necessariamente un aumento assoluto del risparmio, vista la diminuzione contestuale dei redditi per quote più o meno ampie delle popolazioni.

Le riforme pensionistiche sono state, almeno in apparenza, dettate dalla pretesa insostenibilità dei sistemi a base retributiva in presenza di un declino delle dinamiche demografiche. La mia impressione (e non vado oltre, ma chiederei articolati argomenti che falsifichino la mia impressione) è che le cause demografiche siano state esagerate. In particolare queste riforme non hanno forse tenuto pienamente conto dei fenomeni migratori e di possibili politiche alternative di integrazione dei migranti, ma certamente hanno sottovalutato -e tanto- i costi sociali ed economici futuri associati ad una copertura pensionistica insufficiente, ed hanno sottovalutato anche i danni immediati sull’economia reale generati dalla caduta della domanda, che è l’altra faccia dell’eccesso di risparmio. Probabilmente, invece, si è tenuto fin troppo conto –e subdolamente- della possibilità che gli impieghi connessi al sistema contributivo e al rafforzamento delle pensioni integrative rinvigorissero le dinamiche finanziarie, così come era accaduto in passato con gli impieghi effettuati dai fondi pensionistici statunitensi, che si affidavano in massima parte ai capital gains. (E’ degno di nota la notizia che l’indice Ftse Mib di fine 2015 sia aumentato del 12% rispetto a fine 2014, in presenza di un aumento del PIL inferiore all’1%).

Si sarebbe invece potuto, e forse dovuto, riflettere meglio sulla possibilità di conservare il sistema retributivo, integrandolo e certo eliminando le ingiustizie e i privilegi che si erano innestati, ma “innaturalmente”, nei sistemi a base retributiva (le baby pensioni, i vitalizi abnormi, ecc.).

Già oggi, a breve distanza dalle riforme pensionistiche, comincia a manifestarsi qualche piccolo segno di allarme (ma non ancora di pentimento) sulle pensioni future. L’allarme –va detto- si presenta per lo più in modo grottesco, dando la tragica “notizia”, con un quid di cretino stupore, che i giovani di oggi avranno pensioni dell’ordine della metà di quelle dei loro genitori”; una notizia non priva di fondamento che, quanto a insensibilità emotiva, fa coppia con il vaticinio misterico che “i giovani di oggi devono sapere che cambieranno tante volte lavoro”. Si tratta di una autentica leggenda metropolitana, sostenuta per mostrare l’inevitabilità del precariato. Il vaticinio non tiene infatti in alcun conto la storia della connessione tra performance delle imprese ed evoluzione delle relazioni industriali nel corso dei processi di sviluppo nel corso del Novecento. Questa storia evidenzia come le imprese abbiano strategie diverse, anche in relazione al tasso di crescita e al clima politico, ma che le strategie che danno luogo a migliori performance non sono certo quelle basate sul precariato, che comportano un impoverimento del capitale umano e degli incentivi che dipendono della lealtà aziendale da parte dei lavoratori.

Qui il linguaggio conta molto. Esprimere come inevitabile e profetico un futuro fatto di precariato e indigenza cui i giovani dovrebbero “adattarsi” sottovaluta le tensioni sociali cui, nel giro di pochi anni, si potrebbe pervenire in Europa. Si tratta di tensioni cui si dovrebbe cominciare a porre rimedio fin d’ora, senza aspettare che esplodano, senza aspettare il carico di sofferenze e di ansie che precedono e accompagnano la loro probabile esplosione. Questi fatti del resto ricordano molto da vicino le turbolenze che seguirono la grande crisi degli anni 1930 in Europa, che portarono al fascismo in Italia e Spagna e al nazismo in Germania, e a rischi e tensioni in Francia e nel Regno Unito. Questi atteggiamenti noncuranti e questi linguaggi leggeri sono ottusi, sono davvero un brutto segno, l’eclissi di una qualsivoglia forma di lungimiranza.

 

7. Gli investimenti produttivi sono un’altra cosa

Gli economisti che nel passato hanno teorizzato l’eguaglianza tra risparmi e investimenti non hanno solo trascurato gli impieghi del risparmio nella compravendita di stock e il ruolo dei capital gains. Essi hanno anche inquadrato le vicende degli investimenti destinati a costruire e mantenere nel tempo la capacità produttiva, con poche e preziose eccezioni, senza connetterle in profondità con i fenomeni della crescita e del progresso tecnico.

Gli investimenti considerati nelle economie sociali sono espresse in valore e questo corrisponde a quanto viene speso per pagare il tempo di lavoro e il tempo di occupazione di macchinari e impianti che sono utilizzati per costruire nuovi o diversi macchinari ed impianti13. La spesa per tali “tempi” è comprensiva dei profitti pagati ai proprietari dei macchinari ed impianti usati. Il progresso tecnico può agire sulla spesa per investimenti, facendola diminuire o aumentare. Nel primo caso a parità di capacità di produrre flussi di beni, se il risparmio dovesse restare stabile, potrebbe manifestarsi un eccesso di risparmio (che dovrebbe mettersi alla ricerca di impieghi diversi). Nel secondo caso è difficile fare previsioni; infatti la particolare forma di progresso tecnico che fa costare di più macchinari e impianti può essere adottata convenientemente se e solo se i costi di produzione dei flussi di beni realizzati con i nuovi macchinari ed impianti sono talmente più bassi da compensare lo svantaggio del maggior costo dell’investimento. Ciò potrebbe far diminuire il fabbisogno di risparmio connesso al capitale circolante nella fase in cui si producono beni con i nuovi impianti.

Altrettanto vago e complesso è cosa determini il valore o il volume degli investimenti a prescindere dal progresso tecnico. Contano certamente le aspettative sulle vendite, sui prezzi convenientemente praticabili tenuto conto della concorrenza, sui costi; contano probabilmente –e forse più di quanto si pensi- le aspettative sull’espansione delle vendite dovute alle aspettative di sviluppo prolungato del paese o dei paesi importatori. Contano infine i guadagni che possono ottenersi dagli investimenti in rapporto ai guadagni che possono aversi da impieghi alternativi, e questo è qualcosa di cui l’analisi economica non tiene solitamente conto nella misura in cui ha escluso dal proprio quadro analitico i capital gains.

Il clima internazionale e la condotta delle politiche economiche in larghe parti del mondo oggi sembrano congiurare per impedire una seria e crescente espansione degli investimenti. L’alternarsi di cicli frequenti, associati a crisi serie, non fa bene agli investimenti, così come non possono far bene ad essi gli annunci di politica economica (più esattamente gli annunci di politica monetaria, dagli anni 1980 in poi): quando c’era il pericolo di inflazione le imprese sapevano che se il tasso di sviluppo avesse superato certe soglie sarebbero state fatte politiche restrittive per paura di un aumento dell’inflazione; più tardi, specie in Europa, le politiche di austerità annunciate hanno ottenuto effetti simili. Perché infatti si dovrebbe investire troppo in capitali che durano a lungo se vi sono aspettative ben fondate –perché già annunciate dalle autorità- che la durata delle fasi espansive è destinata ad essere breve?

In ogni caso va detto che ormai ricerche recenti hanno mostrato che le imprese produttive destinano sempre più parte dei loro guadagni e della loro liquidità (compresa quella ottenuta con il credito) ad impieghi finanziari e speculativi che non hanno a che fare con il loro “core business”: in pratica gli impieghi speculativi sono rivali degli investimenti produttivi.

Occorre infine tenere presente che, quando alle imprese serve danaro, non interessa loro se tale danaro derivi dal risparmio ovvero dal credito, come messo in evidenza fin dai tempi di Keynes. Di conseguenza occorre andare a vedere anche come funzionino i canali di credito e a quali soggetti, per fare cosa, il credito affluisca di preferenza.

E qui si apre una riflessione importante. Le banche sembrano ormai preferire il finanziamento dei mutui immobiliari e quello degli impieghi finanziari a quello della attività reali, come si è ben visto nei casi di crisi bancaria degli ultimi quindici anni. Anzi più di recente le banche mostrano di fuggire dal finanziamento delle attività reali, come evidenziato dalle pressioni esercitate dalla BCE in relazione alle sue politiche di Quantitative Easing (QE). Un relativo successo del QE nell’indurre una crescita delle attività reali vi è stato solo negli USA, dove la politica monetaria ha allocato i fondi verso impieghi pubblici capaci di incentivare domanda. In Europa, invece, le banche finiscono per tenere i fondi relativamente inerti, perfino quando i depositi delle banche presso quella centrale danno un interesse negativo.

Occorre rendersi conto che le banche sono ben lungi dall’essere semplici “intermediarie” del risparmio da convogliare verso gli investimenti produttivi, come prevalentemente sostenuto, fin dalla fine dell’Ottocento, dalla teoria neoclassica oggi maggioritaria. Le banche invece creano moneta, nel senso che sono nelle condizioni di creare liquidità addizionale in misura non strettamente correlata agli stock di risparmi. Storicamente le banche, attraverso il credito, sono state sempre protagoniste, oltre che intermediarie, di operazioni meramente speculative, come i molti scandali bancari e affaristici nel corso dello sviluppo delle economie capitalistiche evidenziano14.

Oggi lo fanno più che nel passato, perché in periodi precedenti, soprattutto di prima industrializzazione, vi era una più esplicita domanda di finanziamento di attività industriali e commerciali e maggiori remunerazioni da tali impieghi sia per gli imprenditori che per le banche15. Inoltre in molti paesi nel corso del Novecento esistevano banche che non raccoglievano depositi ma che finanziavano direttamente gli investimenti industriali. Oggi la situazione è radicalmente diversa per l’assenza di una distinzione tra missioni bancarie diverse (raccolta, credito industriale, affari) e molto più complessa16, anche per le complicazioni introdotte nella sfera dei contratti finanziari, con controlli che sono per lo più insufficienti e che comunque appaiono sempre avere una elevata probabilità di arrivare in ritardo.

 

8. Le reti di interessi, le tecnocrazie ed i loro linguaggi ingannevoli

Sembrano davvero esservi poche vie di uscita alla attuale situazione, ma per evitare di essere frainteso è meglio che io metta in chiaro alcune premesse. Non credo a complotti espliciti globali, tipo Grande Fratello. Ritengo invece che vi siano convergenze di interesse diffuse che per lo più non hanno bisogno di intese esplicite. Ritengo che gli intrecci di interesse siano nascosti e favoriti dai membri delle tecnocrazie, perché i funzionari di tali tecnocrazie, del tutto giustamente, perseguono successo e promozioni; ma successo e promozioni richiedono, quale premessa necessaria ancorché insufficiente, che gli aspiranti adottino codici di comportamento che testimonino alla dirigenza atteggiamenti “corretti” e leali. All’interno delle tecnocrazie, le cui attività fondamentali sono sostanzialmente politiche e solo in parte o solo apparentemente “tecniche”, la selezione e la carriera sono infatti fondate su meccanismi di cooptazione che favoriscono nei potenziali candidati il conformismo, la tendenza a non “creare problemi” o a coltivare campi di competenza ben circoscritti, senza indulgere a connessioni più ampie ed ardite. Credo in una crescente miopia della maggior parte dei soggetti che giocano un ruolo in politica, nella loro crescente incultura, nella loro conseguente subordinazione alla pretesa autorevolezza delle tecnocrazie e dei vari think tanks partoriti dalle tecnocrazie stesse o costituite da loro ex dipendenti. Credo nelle intese tra tecnocrazie, non solo esplicite ma anche realizzate facendo circolare tra tecnocrazie diverse i loro funzionari. Credo nel ruolo mistificante delle agenzie di rating, ruolo di cui esistono evidenti testimonianze storiche restate, come al solito, senza conseguenze.

Ritengo per contro che la corruzione sia forte e forse crescente, con la piccola e diffusa corruzione che fa da ombrello a quella grande; ma ritengo soprattutto, paradossalmente, che la corruzione economica faccia meno danni della corruzione culturale, perché è da questa che derivano non solo gli sbagli nella gestione delle politiche, ma la capacità di quelli che palesemente sbagliano di resistere alla crescenti e autorevoli, addirittura prestigiose critiche che vengono loro rivolte. Tanto per essere chiari, oggi non vale neanche la pena di criticare l’austerity. Basta quello che è già stato scritto, anche da premi Nobel.

La deformazione culturale, i trucchi retorici, il potere delle reti di interesse, il pelo sullo stomaco si colgono meglio da fatti più specifici e da argomentazioni apparentemente più tecniche. Alberto Bagnai ha recentemente (Il fatto quotidiano del 18 Dicembre 2015) richiamato l’attenzione sul fatto che la European Banking Authority (EBA) in un documento di fine Luglio 2014 lanciava un allarme, rimasto inascoltato, sui pericoli della raccolta di fondi, da parte delle banche, attraverso la collocazione di titoli presso i propri clienti non professionisti. Vorrei usare il documento EBA come (piccolo) esempio del proliferare di linguaggi, soggetti e comportamenti la cui ambiguità sembra servire a non combinare nulla quando una migliore regolamentazione potrebbe ledere interessi forti.

La prima cosa che i non addetti ai lavori imparano dalla lettura del documento è che l’EBA è una autorità indipendente il cui compito è quello di assicurare una “regolazione prudente e una supervisione” del sistema bancario europeo, con l’obbiettivo, tra gli altri, di “salvaguardare l’integrità, l’efficienza e il funzionamento ordinato del settore bancario”. Subito dopo apprendiamo che questa promettente supervisione è condivisa da per lo meno altri cinque soggetti17. Ebbene, se ci sono almeno cinque cani da guardia, come è possibile che vi siano eventi come quelli hanno interessato Banca Etruria (e altre)? E se tutte queste autorità, comunque presiedute e costose, sbagliano, perché non basta una singola autorità? La spiegazione, una volta che si leggano i documenti, potrebbe sembrare semplice. L’EBA esprime, con molto tatto, pericoli ovvi, senza alcuna capacità di porre vincoli o dare direttive operative stringenti. In tal modo non si riesce mai a capire chi possa svolgere un ruolo di cui assumere la responsabilità; ciò che è esattamente quanto la rete di interessi che fa leva sulla finanza vuole.

Troviamo la prima ovvietà al punto 11, che ben descrive le ragioni per cui alle banche conviene raccogliere capitali dai propri clienti (ineffabile una delle ragioni: “alcuni istituti di credito potrebbero non avere accesso a fonti di finanziamento alternative”18. Meno ovvie sono le indicazioni relative ai rischi per i risparmiatori dell’emissione “di titoli di debito subordinato, in particolare titoli CoCo”. Qui –si noti- il linguaggio si fa opaco (“… i CoCo possono assorbire le perdite una volta esaurito il capitale …”), sicché occorre andare a cercare altrove, in un documento della Borsa, di che si tratta: i COnvertible COntingent bonds sono obbligazioni ibride convertibili che, “in determinate condizioni, si trasformano in azioni”; quindi in capitale della banca che li ha emessi, alleggerendone sostanzialmente l’esposizione debitoria. I Coco bond sono dunque dei debiti che diventano capitale all’occorrenza ..” (http://www.borsaitaliana.it/notizie/sotto-la-lente/coco-bond190.htm ). Lo stesso linguaggio è qui, a ben vedere, allarmante. Ma evidentemente i politici e quel che è peggio i loro consiglieri esperti non hanno il tempo di leggere..

Subito dopo l’EBA onestamente afferma che in ogni caso “questi prodotti generalmente non sono appropriati per investimenti diretti da parte degli investitori al dettaglio”. Finalmente una parola chiara! Ma allora perché non sono proibiti, semplicemente? Tanto più che il successivo punto 17 dice che i comportamenti in essere delle banche sono stati -dalle tre autorità di vigilanza europee- “VALUTATI”, con le seguenti (angoscianti) conclusioni:

(1) “gli investitori non hanno ricevuto alcuna informazione, o informazioni insufficienti o fuorvianti, sulle caratteristiche dei prodotti, i prezzi o i rischi ad essi connessi”;

(2) “gli investitori non hanno ricevuto alcuna informazione, o informazioni insufficienti o fuorvianti, circa la situazione finanziaria della banca emittente”;

(3) “gli investitori e i depositanti sono stati contattati attraverso tecniche di vendita aggressive”;

(4) “i depositanti sono stati contattati in modo proattivo dagli istituti di credito, dando l’impressione che il prodotto consigliato fosse sicuro come un deposito o fosse protetto da un sistema di garanzia dei depositi, mentre niente di questo era vero”;

(5) “gli investitori hanno ricevuto consigli inadatti”; e

(6) “agli investitori sono stati venduti prodotti inadeguati con metodi di vendita non informati”.

Ripeto. Ma allora perché non sono stati proibiti, semplicemente? Una falsa risposta sta nel davvero ineffabile punto 18: “Quando questo tipo di comportamento provoca un danno agli investitori [si noti: si dice proprio “investitori”], anche gli emittenti di tali strumenti ne soffrono, in particolare subiscono un danno di reputazione e di ridotta fiducia dei mercati e degli investitori, che possono, a loro volta, ridurre in futuro l’acquisto di titoli di questo tipo”. Ovvero: quando la fiducia nelle forze spontanee del mercato non teme di cadere nel ridicolo! Infatti è ovvio che quando il danno agli investitori c’è stato, per quella banca non c’è futuro.

A fronte di queste fonti, davvero autorevoli, in merito alla supervisione bancaria e alla protezione efficace dei risparmiatori non istituzionali vi è da chiedersi come e perché

(A) la Commissione Europea non sia intervenuta proibendo la collocazione dei CoCo presso risparmiatori non professionisti;

(B) lo stato italiano possa aver approvato, senza nemmeno porsi problemi in merito ad un processo di transizione graduale, le direttive vincolanti sul bail-in19 (l’idea che si potesse trattare in merito ad un processo di transizione graduale era il minimo che si potesse fare20);

(C) la Banca d’Italia, conoscendo le valutazioni delle autorità di sorveglianza europee e conoscendo precocemente i segni di dissesto delle banche in crisi, non sia intervenuta per “suggerire” al governo italiano, magari con molta più enfasi e drammatizzante insistenza, sia l’esigenza di proibire la collocazione dei CoCo presso risparmiatori non professionali sia una diversa strategia nelle trattative infra-europee in merito al bail-in.

Vi è comunque una osservazione molto più generale da fare. L’EBA (struttura che comunque costa una trentina di milioni di Euro l’anno) ha prodotto una valutazione fattuale importante ma in sé quasi ovvia dal punto di vista di qualsiasi analisi razionale dei problemi coinvolti, una valutazione che contiene solo una piccola parte delle conclusioni cui era pervenuta la Pecora Commission (della quale riferisco nel prossimo paragrafo), grazie al lavoro fatto personalmente dallo stesso Ferdinand Pecora con il solo aiuto di due persone.

La EBA e la Comissione Europea, inoltre, non sono riusciti a fare in un anno e mezzo ciò che l’amministrazione Roosevelt ha fatto in meno di tre mesi (vedi paragrafo successivo): una normativa stringente che recepiva i risultati delle indagini, realizzando una effettiva protezione dei risparmiatori e proibendo un insieme ampio di comportamenti in campo finanziario atti a tradire la buona fede di coloro che acquistano titoli e ad incubare crisi.

 

9. La cultura espressa nella costruzione del New Deal: un modello impossibile?

Trovo che vi sia, soprattutto in Europa, una sorprendente e diffusa mancanza di cultura dei soggetti di governo; e non parlo di conoscenze economiche, accademiche e non, ma “semplicemente” storiche. C’è da imparare dagli anni 1930 e c’è da imparare dalla cultura espressa all’epoca dagli Stati Uniti. Molto vi sarebbe da guadagnare perfino se, per esempio, i governi europei si contentassero di guardare senza pregiudizi a come gli Stati Uniti siano riusciti a recuperare precocemente le performance della loro economia e dei loro livelli di occupazione dopo la crisi del 2007, a fronte della permanente stagnazione europea21.

Il fuoco dell’attenzione, nel New Deal, non era quello del disavanzo pubblico, bensì quello delle “buone azioni” che il settore pubblico poteva utilmente fare per costruire cose, per la manutenzione del territorio, per migliorare la situazione dei poveri e dei disoccupati, per ristabilire la fiducia dei cittadini, per reprimere i comportamenti dannosi; “buone azioni” da disegnare e pianificare bene e da fare a tutti i costi perché importanti; quindi anche a costo della creazione di un deficit di bilancio. Contavano le cose da fare, quindi, e il disavanzo andava riguardato come un effetto collaterale, da sopportare perché i tempi richiedevano sforzi eccezionali. Questo appare chiaro dall’Economy Act del 14 Marzo 193322, che distingueva tra un bilancio normale, da tenere in pareggio, ed uno emergenziale reso necessario dal combattere la recessione. La stessa legge infatti faceva tagli consistenti su pensioni ai veterani non fisicamente menomati e stipendi agli impiegati pubblici.

Proprio per questo occorre andare a vedere il dettaglio dei singoli provvedimenti presi in quel periodo, ponendo attenzione soprattutto alla qualità culturale espressa dalle persone chiamate a collaborare con l’amministrazione Roosevelt e alla capacità di Roosevelt di recepire, criticamente ma positivamente e con grande capacità di decidere rapidamente23, le indicazioni di queste persone.

Non posso qui che muovermi per esempi importanti.

Il primo esempio, che ha la maggiore pertinenza con gli aspetti bancari e finanziari della crisi attuale, è costituito dalla quasi sconosciuta figura di Ferdinand Pecora, designato alla funzione di primo consigliere (chief counsel) della Commissione del Senato che aveva il compito di indagare sulle cause del crollo di Wall Street del 1929. Pecora aveva un passato recente di sostituto procuratore nel distretto di New York e di avvocato. La Commissione non aveva combinato molto fino alla nomina di Pecora, probabilmente a causa della reticenza a chiamare a testimoniare personaggi eminenti del mondo finanziario, ponendo loro domande imbarazzanti. Due chief counsels erano stati licenziati per la loro incapacità di concludere gran che, un terzo si era dimesso dopo che la Commissione si era rifiutata di attribuirgli ampi poteri in merito alle sanzioni ai testimoni falsi o reticenti (subpoena). Pecora, appena insediato, avendo trovato insufficiente il materiale accumulato, chiese una dilazione di un mese per la consegna delle conclusioni della Commissione associata alla possibilità di fare audizioni. Forte della sua capacità di porre i testimoni alle strette e dotato di una calma disarmante nell’interrogare, non solo disvelò evidenze di frodi e casi di evasione fiscale da parte di importanti personaggi del mondo bancario e finanziario, ma –ciò che è più importante- riuscì a identificare un’ampia gamma di comportamenti dannosi e ad organizzarli logicamente. La Commissione divenne presto nota come la “Pecora Commission” e veniva seguita attentamente dalla stampa a caccia di scandali. Molti dei potenti personaggi coinvolti furono costretti alle dimissioni. Le conclusioni della Commissione costituirono la base per il Glass-Steagall Act e del Securities Act del 1933 e del Securities Exchange Act del 1934.

La prima di queste leggi (poi perfezionata dal Banking Act del 1935), approvata come legge il 16 giugno 1933 a solo due mesi e mezzo dall’insediamento di Roosevelt, stabiliva una separazione netta tra le banche commerciali e quelle di investimento (una distinzione che fece da modello per molti altri paesi nella prima metà del secolo scorso). Più in particolare si proibiva alle banche commerciali facenti parte della Federal Reserve di trattare titoli finanziari per i clienti (ad eccezione dei titoli pubblici) e per se stesse, al contempo proibendo alle aziende finanziarie e alle banche di investimento di operare nel campo dei depositi.

La seconda legge, approvata ancora prima (27 Maggio 1933) è stata la prima legge che ha regolamentato a livello federale l’offerta e la vendita di titoli finanziari al momento della loro emissione, ispirandosi al principio di massima trasparenza rispetto alle informazioni rilevanti per rendere possibile ai potenziali clienti valutare le caratteristiche del titolo, soprattutto per quanto concerne la sua rischiosità. La terza legge, che tra l’altro istituiva la SEC (Securities and Exchange Commission), qualcosa di analogo alla nostra Consob, regolava invece la compravendita di titoli sul mercato secondario, quando cioè azioni e obbligazioni emesse in passato vengono compravendute, per lo più per il tramite di brokers e altre aziende specializzate. Il principio di trasparenza della legge del 1933 venne riproposto attraverso l’obbligo, per tutte le aziende che avessero emesso titoli al di sopra di un ammontare minimo, di rendere pubblica ogni variazione rilevante dell’assetto legale, di governance, finanziario ed economico dell’azienda stessa. Inoltre prevedeva minuziosamente –quali violazioni di legge- una serie di comportamenti atti a ingannare i detentori di titoli o ad influenzare il prezzo dei titoli o l’utilizzo di informazioni privilegiate, come l’insider trading.

Queste accuratissime riforme nascevano sulla base delle evidenze portate dal Pecora Report. Il testo del rapporto offre davvero una lettura esaltante. La sua lettura integrale, comprensiva delle minute degli hearings, dovrebbe essere raccomandata a funzionari e commissari di tutte le autorità di controllo, per non parlare dei parlamentari che fanno parte di commissioni di indagine e dei loro consulenti tecnici. A tempo di record, con l’aiuto di appena due persone, Pecora ha condotto gli interrogatori della Commissione senatoriale e redatto il rapporto, poi pubblicato per il più ampio pubblico nel 1934. Non è casuale che il nome di Pecora abbia ispirato molti articoli intorno al 2009 sui giornali statunitensi, più o meno tutti all’insegna dell’invocazione di un nuovo Pecora. Sull’attualità di quell’indagine non possono esservi dubbi24.

Nel Maggio 1933 venne varata la Federal Emercency Relief Administration (FERA) che, prima di essere sostituita da altri programmi nel 1935, riuscì a dare lavoro a circa 20 milioni di persone in settori che oggi chiameremmo dei lavori socialmente utili. La ragione per non limitarsi a (meno costosi) sussidi era indicata nell’esigenza di rimotivare le persone coinvolte, togliendole da una condizione di frustrazione e depressione associata allo stato di disoccupazione. Il programma induceva progetti in ambiti molto estesi, ponendo enfasi sulla acculturazione e sul disegno delle iniziative da parte di persone specializzate, non trascurando progetti artistici. Al contempo venne istituito il Civilian Conservation Corps (CCC), che funzionò fino al 1942 e che dava lavoro a disoccupati privi di capacità professionali, coinvolgendoli in lavori di conservazione del suolo, forestazione, manutenzione di infrastrutture. Oggi lo potremmo assimilare ad un “esercito del lavoro”, visto che il programma prendeva in carico (cibo, vestiario, ecc.) i lavoratori, prevalentemente giovani, coinvolti; ma veniva pagato anche un salario, basso ma non banale, con l’obbligo, tuttavia, di destinarne circa l’80% al sostegno delle famiglie dei lavoratori (nella consapevolezza che i lavoratori “poveracci” sono partoriti dalle famiglie più poveracce). Il programma, davvero emergenziale, dava lavoro a 300 mila persone per anno, per un totale di 3 milioni nei nove anni di durata del programma. E non parlo di altri programmi di durata più breve, quali quello del Civil Works Administration (CWA), che conservavano tutti il carattere di “costruttività” di cui parlavo più sopra.

Ma non furono solo queste le iniziative “rivoluzionarie” della Presidenza Rooosevelt (accanto a quella arcinota della Tennessee Valley Authority (TVA). Mi sembra opportuno ricordarne alcune in due campi ulteriori, quello delle relazioni industriali, insieme alle condizioni di lavoro e alle politiche sociali, e quello delle politiche industriali.

Nel primo campo sia sufficiente pensare al programma di Frances Perkins, la prima donna ministro (del lavoro) negli Stati Uniti e la più longeva collaboratrice di Roosevelt. Veniva previsto (e poi sostanzialmente realizzato) un programma che prevedeva “una settimana lavorativa di quaranta ore, un salario minimo, pagamenti assicurativi per incidenti, sussidi di disoccupazione, una legge federale che proibisse il lavoro minorile, sicurezza sociale [in pratica pensioni per i lavoratori e welfare per i più poveri], un servizio di pubblico impiego rivitalizzato e una assicurazione sanitaria”. Inoltre collaborò con altri ministri nel promuovere l’accettazione dei sindacati e nel valorizzare le procedure per la risoluzione tempestiva dei conflitti di lavoro.

Il punto di partenza di quest’ultimo processo fu costituito dal National Industrial Recovery Act (NIRA), passato dal Senato in un contesto più conflittuale di altri provvedimenti, a seguito del quale venne istituita l’agenzia National Recovery Administration (NRA), chiamata ad applicare la parte più strettamente industriale della legge. L’idea era quella di promuovere l’auto-organizzazione, da parte delle imprese ma sotto il controllo della NRA, di codici di comportamento quanto a prezzi, orari di lavoro, salari minimi, condizioni di lavoro, stili di concorrenza. Lo scopo era quello di interrompere la rincorsa al ribasso di prezzi, salari e condizioni di lavoro che si era scatenata, a seguito della crisi, nella maggior parte delle realtà industriali. In pratica la NRA ratificava gli accordi, anche quelli costituenti cartelli in violazione delle regole anti-trust dello Sherman Act, alla condizione che venissero stabilite relazioni industriali con i sindacati e superate determinate soglie salariali. L’efficacia, i pregi e i danni di questa legge, dichiarata incostituzionale in certi suoi aspetti dalla Corte Suprema nel 1935, sono stati oggetto di controversia e conflitti. L’indice di produzione industriale crebbe tuttavia di oltre i 40% tra il Marzo 1933 e il Marzo 1934; quindi probabilmente la legge, insieme al nuovo clima di fiducia dovuto all’ampia serie di provvedimenti di quei mesi, ottenne alcuni degli scopi prefissi, in particolare una ripresa di produzione e occupazione e l’interruzione dei processi deflattivi dei prezzi. Per contro è certo che la gestione del NRA produsse un eccesso di regolamentazione, che ostacolava la costituzione di nuove imprese.

 

10. La diffusione dell’ottusità

Val la pena, in contrapposizione a quanto appena detto, fare cenno alla disseminazione trionfale della stupidità nell’ultimo trentennio.

Gli USA sono in ottima posizione in questa nobile gara, dopo che verso la fine del secolo scorso molte delle leggi varate nel periodo rooseveltiano per la protezione dei risparmiatori e la trasparenza dei fenomeni finanziari erano state o abrogate, o modificate o comunque interpretate in modo riduttivo. La stupidità del mondo economico-finanziario americano degli ultimi tempi è così palese che, ben descritta nel 2010 da Michael Lewis nel suo libro "The Big Short: Inside The Doomsday Machine", è stata poi altrettanto bene divulgata, in modo tutto sommato comprensibile da un vasto pubblico, in un film molto popolare di Adam McKay (“La grande scommessa” è il titolo italiano).

La stupidità manifestata dalla fauna che anima la storia narrata da Lewis, generalizzata e collettiva, estesa non solo ai giovanotti d’assalto ma alle autorità di sorveglianza, insieme all’incompetenza e alla corruzione delle agenzie di rating, va contrapposta alla mia descrizione degli anni rooseveltiani (certo sommaria e insufficiente), non solo per i contenuti dei provvedimenti normativi, quanto per ciò che, rispetto ad essi, si pone a monte e a valle: le tracce –cioè- di uno sforzo di progettazione normativa, di costruzione organizzativa e di gestione ad ampio spettro che non sarebbe stato possibile senza la disponibilità e l’ingegno della maggior parte di coloro che sono stati coinvolti.

Gli USA hanno poi avuto la fortuna, nella recente crisi, di avere un Presidente come Obama e una FED accomodante, per cui vi è stata una efficace reazione, sul piano dell’economia reale, alla crisi stessa ( si veda Blinder & Zandi, The Financial Crisis: Lessons for the Next One, Center for Budget and Policy Priorities, Ottobre 2015, che evidenziano quanto la crisi americana avrebbe potuto essere peggiore senza l’uso che Obama ha fatto della politica fiscale); purtroppo ben poche reazioni, per l’intreccio tra la sfera politica e gli interessi di banchieri e finanzieri, vi sono state per quanto riguarda la punizione della stupidità e il mantenere in piedi i fattori e i personaggi che perpetuano le irresponsabilità delle banche e del settore finanziario.

L’Europa offre un quadro, se possibile, più desolante, in cui i soggetti di governo non solo sbagliano ma mettono comunque troppo tempo sia a fare scelte sbagliate sia ad accertare, quando suggerito dall’esperienza, la loro inconcludenza.

Anche qui bastino pochi esempi: il fatto che l’Unione Europea abbia fomentato i semi della crisi ucraina senza alcuna lungimiranza (come si poteva pensare che la Russia avrebbe lasciato pacificamente aree strategiche come quella di Crimea?); il fatto che l’UE non riesca ora a gestire la crisi migratoria, dopo che non aveva tentato nulla per prevenirla e, anzi, dopo che alcuni dei suoi membri avevano unilateralmente preso iniziative per peggiorare il quadro del Mediterraneo (Libia); il fatto che gli organi politici dell’Unione non riescano ad usare un briciolo di moral suasion su paesi come l’Ungheria e la Polonia, i cui governi, democraticamente eletti, tendono a comportarsi in modo simile a quello del Cancelliere Adolf Hitler, anche egli posto nel 1933 al vertice del governo attraverso procedure formalmente costituzionali; il fatto che, in assenza di risultati, l’Unione non sia in grado di agire per salvaguardare, in quei paesi, i più comuni principi democratici –penso alla libertà di stampa, penso a leggi retroattive in materia costituzionale- sanzionandoli o al limite sospendendo la loro appartenenza all’Unione. Questi fatti, nel loro insieme, rendono evidente una sorta di impotenza politica a tutto campo, tale da mettere in crisi la costruzione europea. Si tratta paradossalmente –a ben vedere- di fallimenti addirittura più importanti di quelli attinenti alle vicende economiche.

Ma lasciatemi soffermare un momento su queste ultime (mettendo da parte ancora una volta la questione dell’austerity). L’Unione monetaria era stata voluta, con insistenza e promesse di Bengodi, soprattutto dalle banche centrali europee e da leader politici, probabilmente in buona fede ma certo da esse autorevolmente influenzate. E’ noto che le condizioni per fare un’unione monetaria di successo mancavano. L’Europa non costituiva infatti una Area Monetaria Ottimale (cioè una OCA, Optimal Currency Area), a giudizio degli economisti appartenenti alla stessa area che ispirava le banche centrali. Scriveva infatti Milton Friedman sul Times del 19 Novembre 1997: “L’Europa esemplifica una situazione sfavorevole ad una moneta comune. E’ composta da nazioni separate, che parlano lingue diverse, con costumi diversi, con cittadini che sentono una lealtà più grande nei confronti del loro paese di quanta ne sentano per il mercato comune o per l’idea di Europa”.

Ed infatti mancavano (e mancano tutt’ora) le quattro caratteristiche che il premio Nobel Robert Mundell indicava nel 1961 per una OCA: (1) l’effettiva mobilità dei lavoratori nell’area; (2) la mobilità dei capitali associata ad una libera circolazione delle merci tipica di un mercato effettivamente concorrenziale e ad una conseguente flessibilità di prezzi e salari; (3) un sistema fiscale di condivisione dei rischi basato sulla possibilità di redistribuire risorse verso le aree più deboli o indebolite dalla realizzazione delle prime due condizioni (cioè una solidarietà fiscale comunque esclusa per un verso dalla manifesta paura politica degli stati più ricchi a pagare per “le colpe” di quelli più poveri, e, per altro verso e più formalmente, dal Patto per la Stabilità e la Crescita, del 1997 e dalle sue successive modifiche); (4) la tendenziale sincronia dei cicli espansivi e recessivi, in assenza della quale la politica monetaria condivisa ha una probabilità elevata di infliggere danni. Non ostante la netta mancanza delle condizioni, lo stesso Mundell aveva –diciamo “abbastanza incomprensibilmente”- adattato le sue posizioni alle spinte unificatrici volute dalle banche centrali europee, tanto da essere considerato una sorta di “padre” dell’Unione Monetaria Europea.

Mal posizionata in partenza, la storia della Banca Centrale Europea mostra poi una successione impressionante di contraddizioni, molte delle quali rese evidenti da quanto scritto candidamente nei suoi bollettini (ma anche a ben vedere con l’arroganza di chi sa che ben pochi, salvo alcuni amici, leggeranno). Per anni la BCE ha immesso più liquidità di quanto essa stessa indicava come corretta, giustificando di volta in volta, per lo più con argomenti contingenti molto fragili, gli sforamenti. Quella liquidità non dava luogo a fenomeni inflattivi eccessivi in campo reale, cioè nella produzione di beni e servizi e nei salari, ma si limitava a generare un’inflazione nel campo degli stock immobiliari e soprattutto finanziari. La BCE si era, ad un certo punto, perfino posto “il problema” della bolla speculativa e dell’opportunità o meno di indurne lo sgonfiamento. La conclusione era che era meglio “lasciarla andare col vento”, intervenendo poi con appositi efficaci rimedi dopo la sua esplosione. Abbiamo tutti sotto gli occhi l’efficacia dei rimedi promessi.

Non faccio altri commenti. Vale invece fare qualche cenno al più recente Quantitative Easing (QE)25. Meno male che c’è! Ma a mio avviso solo perché ha contribuito a diminuire l’importanza degli “spread” e forse a tamponare in qualche misura le tendenze recessive in atto, sia in virtù di qualche effetto nel campo delle abitazioni (attraverso un certo rilancio dei mutui) sia come conseguenza dell’alleggerimento degli oneri del debito pubblico. Ma questi risultati palliativi poco hanno a che fare con la promessa ripresa dello sviluppo.

La rimozione dell’importanza dello spread verso paesi come l’Italia altro non era che la rimozione di un elemento di pressione essenzialmente disciplinare e del tutto artificiale. Il vero rischio non si ha mai infatti, nel caso di paesi, rispetto alla “restituzione del debito”, visto che sono i soggetti dei paesi creditori a cercare, a tutti i costi e in pieno lecito egoismo, impieghi nei paesi detti a rischio, e visto che i debiti pubblici non vengono quasi mai restituiti, bensì solo rinnovati. Un vero e genuino rischio si avrebbe solo ove un paese dovesse trovarsi nell’incapacità di pagare gli interessi. Tuttavia banchieri e finanzieri hanno gestito ad arte il concetto di “rischio paese” al solo scopo di tenere alti (con gli spread) i rendimenti dei loro prestiti. Infine, dopo essere stati troppo ingordi in questo gioco e avere in taluni casi, letteralmente, contribuito a indurre un vero rischio paese (come nel caso della Grecia), hanno poi fatto ricorso a pesanti aiuti di stato, trasferendo ad altri –i cittadini- il danno il cui rischio giustificava ex ante gli alti rendimenti dei prestiti!

In ogni caso non può certo dirsi che il QE stia dando grandi frutti in campo reale e nello stimolo dello sviluppo. Come già accennato lo sviluppo ha prima di ogni altra cosa bisogno di rassicurazioni su politiche espansive affidabili protratte nel tempo.

Per contro il basso livello dei tassi di interesse contribuisce positivamente ad una ripresa degli impieghi finanziari in un contesto che non è stato certamente ancora sufficientemente bonificato.

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Note

1 Visto che questo scritto si occuperà molto di banche e finanza, il pensiero non può non andare all’avvocato Giorgio Ambrosoli, ucciso per avere avuto il coraggio della verità nei confronti del mondo di malaffare legato a Sindona. Il coraggio di cui parlo è molto meno importante di quello dell’ “eroe borghese” di cui parla Corrado Stajano, ma sarebbe bene che fosse più diffuso.

2 Pochi chiarimenti basteranno a mostrare che tra questi personaggi quelli intelligenti non possono che essere in mala fede (quelli tonti sono intrinsecamente uno scandalo, visto che non dovrebbero avere ruoli istituzionali).

3 Pochi non economisti sanno che gli economisti usano un tempo logico e non il tempo cronologico usato dal resto dell’umanità. Il “breve periodo” è l’intervallo di tempo in cui non cambiano le dimensioni della capacità produttiva e il numero delle imprese, eventi che caratterizzano il “lungo periodo”. Tutto ciò generalizzando indebitamente una invenzione analitica di Marshall, che ne aveva fatto invece un uso limitato e strumentale alla comprensione di un numero limitato di problemi.

4 Le ambiguità più appariscenti riguardano l’uso comune di certe parole e la differenza tra il significato comune e il significato dato loro dagli economisti. Il risparmio di cui parlano gli economisti è un flusso, quello di cui parlano i giornali e le famiglie è il risparmio accumulato. Il PIL (prodotto interno lordo) non è “l’indice della ricchezza di un paese”, come recitano spesso i media: il PIL è infatti un flusso e la ricchezza è uno stock.

5 L’eguaglianza verrebbe assicurata da meccanismi di riequilibrio. Nella tradizione marginalista, ad esempio, l’eguaglianza sarebbe assicurata dal tasso di interesse, in quella keynesiana invece da variazioni quantitative di produzione e reddito che assicurerebbero variazioni positive del risparmio a fronte di una domanda finale più alta e viceversa.

6 L’eccezione cui penso è quella di Evsey Domar, tra i primi studiosi ad analizzare a livello aggregato i processi dinamici di crescita, che indica puntigliosamente questa possibilità, una possibilità che viene sistematicamente dimenticata anche da tutti quegli studiosi che si rifanno al suo modello originario.

7 Altrimenti non si spiegherebbero gli antichi e speciosi dibattiti religiosi, sia nel mondo cristiano che in quello mussulmano, sull’usura.

8 Le corporations differiscono dalle società individuali perché i soci rispondono delle perdite della società solo nella misura del valore delle azioni. Solo gli amministratori rispondono con tutto il loro patrimonio. La responsabilità limitata dei soci consente alle aziende di raccogliere molti più fondi impiegabili di quanti riuscissero ad ottenere nella forma delle società di persone. Gli amministratori si trovano nelle condizioni di poter infliggere danni ai soci, a meno che non vengano stabilite a loro carico da norme statali degli obblighi ben definiti. L’evoluzione di questi obblighi ha caratterizzato la storia delle moderne corporations, che sono poi divenute la forma giuridica che hanno assunto le grandissime aziende del Novecento.

9 La prima Borsa viene comunemente considerata quella della East India Company olandese, fondata (non a caso) nel 1602.

10 Il caso più vistoso è stato certamente quello del boom immobiliare USA, ma i prestiti concessi in Europa dai paesi dell’Europa del Nord a Spagna, Portogallo e Grecia non sarebbero dissimili nella loro sostanza: banche e risparmiatori dei paesi ricchi sono andati volentieri a finanziare ad alti tassi di interesse la domanda di liquidità di quelli più poveri (a cominciare dalla Grecia), fino all’epilogo in cui gli oneri di tali dissennate e miopi strategie sono ricadute sulle spalle dei più poveri, direttamente quando i governi sono intervenuti per sostenere le banche, indirettamente con le politiche di austerità.

11 L’ultima volta che ho sentito usare impropriamente la parola “investimenti” è stato il 20 Dicembre 2015, da parte del Governatore della Banca d’Italia, nella trasmissione TV “Che tempo che fa”.

12 Paradossalmente (rispetto alla filosofia prevalente a livello di Unione Europea) il “disordine” dei conti pubblici non costituisce un danno per il paese indebitato, bensì un palliativo che attenua le spinte recessive, come molti correttamente sostengono sulla sola base di un approssimativo abbecedario keynesiano (ai tempi di Keynes, tuttavia, una quota molto più ampia di quanto assorbito dalla compravendita degli assetti patrimoniali più liquidi serviva le esigenze delle imprese produttive).

13 Gli investimenti possono non essere un fatto sociale e non dipendere necessariamente dal risparmio. Anche Robinson Crusoe può fare investimenti produttivi; occorre che egli dedichi tempo di lavoro e, se necessario, l’uso degli utensili in suo possesso per costruire ulteriormente utensili dello stesso o di altro tipo. Se può farlo con il tempo libero e con utensili non altrimenti usati non ha bisogno di diminuire i suoi consumi (non ha bisogno di risparmiare). Altrimenti si, nel senso che o deve mettere da parte un po’ di beni di consumo per campare quando lavora per costruire utensili, ovvero deve destinare utensili a costruire altri utensili invece che beni di consumo, con la conseguenza che per alcuni giorni potrà produrre meno beni di consumo, essendo diminuita transitoriamente la quantità di utensili usati nella loro produzione (sintesi estrema di molti esempi à la Böhm Bawerk). In una società “di mercato”, invece, il lavoro per costruire utensili (macchine, capitali fisici) viene “comandato” attraverso il pagamento del salario.

14 Fin da millenni fa le attività bancarie, quali che ne fossero i soggetti che le esercitavano, hanno convogliato danaro verso impieghi remunerativi per se stesse e per una clientela facente parte dei circoli di potere che contano.

15 Così come può darsi che nel corso dello sviluppo capitalistico vi fossero famiglie che risparmiassero per investire, come evidenziato dalla letteratura sull’accumulazione di capitale nell’Europa protestante.

Per orientarsi faccio rinvio ad un articolo del 2012 di Alberto Bagnai; “Crisi finanziaria e governo dell’economia”, che non condivido in toto ma che ha il pregio di una grande chiarezza su temi sfuggenti.

17 Il sistema è infatti “fatto da tre autorità di supervisione: la European Securities and Markets Authorities (ESMA), [l’EBA], la European Insurance and Occupational Pensions Authority (EIOPA)”. Ma subito dopo si aggiunge che “il sistema comprende anche lo European Systemic Risk Board (ESRB) come anche il Joint Committee of the European Supervisory Authorities” . E con ciò fanno cinque, per non parlare delle autorità di supervisione nazionale (immagino che per l’Italia siano quanto meno Banca d’Italia, Consob e probabilmente l’IVASS (per la supervisione sulle assicurazioni, autorità che comunque appare come una costola della Banca d’Italia).

18 Sic! E’ evidentemente più credibile il poveraccio che ruba per fame, ma questo viene condannato.

18 Altro linguaggio criptico, che dice che il salvataggio non può più avvenire a spese dello stato, ma dei soggetti coinvolti, perfino i depositanti per la parte eccedente i 100.000 Euro, e di un fondo di garanzia interbancario.

20 A fine 2013, secondo Eurostat, i costi per i bilanci pubblici dei salvataggi bancari erano stimati nell’ordine dei 250 Md per la Germania, dei 40 in Grecia e solo dei 4 (già restituiti) in Italia.

21 Spesso si ritiene che l’analisi economica possa ricostruire più elementi latenti di quanto possa fare la storia, ma credo che ciò valga solo in casi limitatissimi e si riferisca alla contrapposizione tra la migliore analisi economica, non certo espressa a mio avviso dalle tecnocrazie, e la cultura storica più banale.

22 Attenzione, le date precise contano nel caso dell’amministrazione Roosevelt, visto che egli era entrato in carica solo dieci giorni prima.

23 Roosevelt aveva una rapidità decisionale sorprendente. Appena insediatosi, il Presidente adottò una “vacanza bancaria” e contestualmente fece approvare il 9 marzo l’Emergency Banking Relief Act, il cui scopo –quello di porre garanzie ai depositi bancari e restituire fiducia nel sistema bancario- chiarì per radio agli americani nella sua prima “chiacchiera intorno al camino” (fireside chat). Alla riapertura delle banche l’indice Dow Jones della Borsa di New York salì di oltre il 15% e nelle settimane successive la maggior parte di coloro che avevano ritirato i soldi dai depositi li riportò nelle banche.

24 Mi limito a segnalare come una grande attenzione fosse precocemente dedicata alle operazioni finanziarie con danaro preso a prestito (quel che oggi si chiama leva finanziaria), evidenziandone il carattere distorsivo e il rischio indiretto per la solidità del sistema bancario.

25 A proposito di linguaggio, io non sono riuscito a capire che differenza vi sia tra le manovre che un tempo venivano indicate come “operazioni sul mercato aperto” e il QE, consistente nell’acquisto sul mercato (e quindi non al momento dell’emissione) di titoli del debito esistenti.

Sergio Bruno, 16/01/2016


Comments

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Heleny
Friday, 10 June 2016 01:35
Le istituzioni SONO ESPRESSIONE DI interessi finanziari. Chi pensa che siano emanazione pubblica è un illuso.
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