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paolo s labini

Dani Rodrik, “Ragioni e torti dell’economia”

di Alessandro Visalli

rodrik ragioni e tortiL’economista turco Dani Rodrik (questo il suo blog) è sicuramente una delle star del panorama economico internazionale, docente ad Harvard e autore del famoso “trilemma” sulla globalizzazione lanciato dal suo libro “La globalizzazione intelligente”, della quale avevamo fatto questa lettura. In questo libro tenta una complessa difesa della professione economica, anche se in una versione in cui sono avanzate più modeste assunzioni sulla capacità di conoscere il mondo “vero” attraverso i suoi strumenti.

La tesi essenziale è piuttosto semplice, in prima lettura: la realtà sociale (e quindi economica) non si può conoscere né prevedere, tuttavia per agire in modo razionale è necessario compiere con il giusto metodo e le corrette aspettative le semplificazioni e modellazioni che la disciplina organizza. La contraddizione si risolve, nella sua proposta, grazie al pluralismo. Precisamente al pluralismo dei modelli.

Questa prospettiva è molto interessante e promettente, ma non riesce a convincermi pienamente. L’economista “eterodosso” in troppi punti mi appare ancora legato da fili resistenti al paradigma neoclassico, ed al suo realismo ingenuo di derivazione neopositivista, e non riesce a trarre complete conclusioni dal suo “allentamento” di aspettative. Rodrik si dice vicino ad una prospettiva pragmatista (più propriamente “neo”) ma alcuni avvertimenti tipici della tradizione sono esercitati in modo credo troppo debole. L’abbandono dell’idea di Verità come corrispondenza ad una Realtà prestrutturata (o auto-strutturata), implicata nel neo-positivismo, in favore dell’inclusione del nostro contributo concettuale (che è sempre sociale e linguisticamente definito) che include sempre i criteri di verificazione e quelli di verità, porterebbe infatti in caso di coerente applicazione agli enunciati tentati dall’economista di Harvard a diversi “non sequitur” nella catena delle argomentazioni. Almeno questa è l’impressione che ho tratto dalla lettura.

Il movimento del libro di Rodrik parte dal discredito reciproco, verso il quale intende lanciare ponti, tra i settori disciplinari ed accademici degli economisti professionali e degli altri scienziati sociali (sociologi, politologi). Una controversia che matura nel diverso utilizzo e concezione del metodo scientifico ed in particolare nell’uso dei modelli matematici.

Ora, la modellazione matematica, con la supposta maggiore precisione e rigore che la contraddistingue, è la firma distintiva della nuova economia invalsa nell’uso comune nell’ultimo cinquantennio a partire dalla rilettura metà novecentesca di alcuni contributi seminali ottocenteschi. Sia nella versione “neo-keynesiana” (con il famoso modello di Hicks), sia in quella “neo-classica” (anche detta “neo-liberista”), i modelli formalizzati scritti in linguaggio matematico sono al centro della pratica intellettuale e della vita accademica nelle facoltà di economia. E sono al centro della trasmissione della disciplina e dell’apprendimento delle sue tecniche e soluzioni.

I modelli, insomma, per usare le parole di Rodrik “sono sia il punto di forza sia il tallone di Achille dell’economia” (p.19). La proposta è precisamente di considerarli “tallone di Achille”, quando vengono immaginati come unica immagine “Vera” del mondo al singolare (cioè quando “un” modello, o una sua famiglia, è concepito come descrizione corretta di tutto ciò che conta nel mondo per come esso funziona realmente). Ma, al contempo, bisogna considerarli “punto di forza”, in quanto definenti l’economia “come scienza” capace di “avanzare”, precisamente aggiungendo altri modelli adatti alle diverse contingenze e situazioni; cioè allungando lo scaffale.

Non è facilissimo individuare con esattezza cosa mi lasci insoddisfatto di questo “indebolimento”, perché il pluralismo difeso da Rodrik è importante. Si può dire che sia in generale la difesa disciplinare, l’idea di una sorta di autosufficienza necessaria, insieme all’insufficiente assunzione del carattere socialmente definito di ogni enunciato che in una comunità si costruisce. In qualche modo la divergenza è nel cognitivismo ancora troppo forte (o, per usare un linguaggio habermasiano, non abbastanza “post-metafisico”) e soprattutto nella sua direzione. Per esplorare questa insoddisfazione questo post farà parte di una piccola sequenza: andrà insieme ad una lettura di un piccolo libro di Hilary Putnam del 1987, ad un recentissimo libro di Francesco Sylos Labini su temi vicini, ed infine alla lettura a lungo rinviata del recente libro di Habermas “Verbalizzare il sacro”, che malgrado il suo nome include interventi sul tema del pensiero “post-metafisico” a qualche decennio di distanza dal suo libro del 1988.

Tornando ai modelli, per l’economista turco bisogna riconoscere che essi servono per costruire una disciplina che sia scientifica (anche se non al modo della fisica, come avrebbe voluto la prima e seconda generazioni di neo-classici). Per la precisione sono necessari, anzi “assolutamente essenziali”, per “comprendere il funzionamento della società”. Queste formule ambiziose, senza alcuna nota esplicativa o allentamento prudenziale o precisazione di tipo procedurale (del genere “sono necessari per rendere comunicabile, e quindi discutibile, una particolare visione del funzionamento atteso della società che si propone”) si prestano ad una lettura decisamente anti-pragmatista. La questione non è che essi, necessariamente, semplifichino e formalizzino, o che essi “ignorino molti aspetti del mondo reale”, ma che tutti questi termini problematici siano presentati nel linguaggio del riduzionismo ingenuo. Un riduzionismo che nel contesto della disciplina economica è essenzialmente istanza di potere. Cioè funziona in una certa circolazione di discorsi e fissa certe identità. 

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A pag. 25 è compiuto il paragone con i modelli “dei medici e degli architetti”, nel “catturare l'aspetto più rilevante della realtà in un contesto dato”. Un paragone che dimentica ciò che lo stesso sensibile studioso sa bene e richiama nel seguito del libro: la società non è un individuo e non è fatta di cemento armato. Essa è attraversata da conflitti, definisce identità con differenti valori e interessi, reagisce ai tentativi di controllarla. La società non è un oggetto. Reificarla la aliena.

Allora un modello semplice e formalizzato, io direi, non “cattura un aspetto della società”, non è in questa presunta prestazione la sua utilità, ma consente di esplicitare delle catene causali di cui si propone il riconoscimento e su cui si propone di agire. Con esse (che sono costrutti, intrinsecamente provvisori e rischiosi) consente di organizzare discussione e conflitto. L’economia, come ogni altra disciplina, in altre parole, crea un suo “mondo”; ma nel farlo consente anche di organizzare la discussione su di esso, portando in luce (per così dire) l’articolazione delle identità e degli interessi che si propongono come cruciali. La disciplina è dunque interamente politica, nel suo essere anche costrutto sociale di un sottoinsieme degli attori rilevanti per l’azione.

Questo è un piano della mia insoddisfazione per l’interessante lettura del libro: l’autore vuole ricostruire le alte mura lesionate della disciplina, e per questo rivendica che da esse si veda più lontano e meglio. Io non nego affatto che da esse si veda, solo che affermo si veda “diversamente”, non “più lontano”. Gli economisti non “costruiscono modelli per catturare aspetti salienti delle interazioni sociali”, come vorrebbe Rodrik, essi costruiscono invece schemi concettuali e discorsivi che definiscono alcune regolarità, osservate attraverso di essi, proponendoli in schemi funzionali. Dunque propongono azioni che operano distribuzioni (anche e soprattutto quando le nascondono).

Rodrik individua un punto molto importante e molto profondo quando afferma che i modelli usati in economia “sono favole” (p.31). Essi per lui “funzionano esattamente allo stesso modo” nel processo di creazione e consolidamento della società (che significa anche della sua organizzazione e potere). Sono infatti brevi, non ambigui, hanno posizioni chiare, normalmente una morale implicita. Questa intuizione, insieme al capitolo conclusivo, lontano quasi ottanta pagine, sulla socialità della disciplina, poteva portare direttamente ad un altro libro. Forse molto più dirompente.

Ma per lui i modelli formalizzati in linguaggio matematico sono anche “esperimenti”. Precisamente “esperimenti di laboratorio”, attraverso l’isolamento e l’identificazione essi “costruiscono spazi mentali per controllare ipotesi”. Sarebbero, insomma, la strada maestra attraverso la quale i costrutti dell’economia possono essere confrontati con l’eventuale “conferma” del mondo “esterno”. Essi mirano a quella che chiama una “validità esterna”. Nel testo sono tentati degli esempi sulla base dell’inferenza di conseguenze attese dal modello e dall’osservazione della conferma di queste.

Peccato che solo molto di rado sia possibile confermare, in modo non equivoco, un modello particolare con quella che Rodrik, nel suo linguaggio troppo poco differenziato, assume come “realtà esterna”. Come un grande pragmatista come Quine diceva le discipline, ed i suoi modelli, sono come delle grandi sfere che toccano il mondo solo al perimetro, è sempre possibile, per chi vive dentro la sfera di interpretare il contatto assumendo la conferma. Ogni singola teoria, o modello, è infatti immerso nella sfera e tocca altre teorie o modelli in innumerevoli punti o luoghi, venendone sostenuta, mentre ciò che vi è di esterno solo in poche aree. Una vera confutazione del modello, in altre parole, è cosa molto più facile da dire che da fare. Anche quando non fosse implicata nella sua caduta altro che il lavoro fatto per farlo affermare.

Ma c’è ben di più: ci sono carriere e alleanze, ci sono effetti di potere, aspettative individuali e sociali, contratti veri e propri, fondi di ricerca, capacità di influenzare politiche, enormi flussi economici (ad esempio quelli delle Banche Centrali, molto più rilevanti di quanto si pensi nel consolidamento della disciplina economica).

È per questo che il test di Milton Friedman, la capacità di fare previsioni corrette, è andato completamente fallito. Ma è per questo che Rodrik, riconoscendo ampiamente il fallimento, lo tiene fermo.

Per l’autore, che in questo mostra una certa anglosassone lontananza dalla cultura umanistica e letteraria, la matematica implica “chiarezza e coerenza”. Garantisce che “tutte le ‘t’ abbiano la stanghetta” (p.44). Dunque nel contesto del discorso economico quel che si afferma è la “maggiore” precisione della disciplina matematizzata, rispetto agli enunciati in linguaggio naturale delle altre discipline (ad esempio della filosofia, anche pragmatista, verrebbe da dire, ma lui si riferisce soprattutto alla sociologia).

I modelli espressi in linguaggio matematico:

Chiariscono la natura delle ipotesi,

Consentono l’accumulazione di conoscenza, espandendo la biblioteca,

Implicano un metodo empirico,

Forniscono un metodo per risolvere le divergenze,

Costituiscono gli standard professionali.

Ora, questa rivendicazione è indicativa: la precisione della matematica è infatti indiscutibile, ma cosa significa in questo contesto? Precisione rispetto a cosa? Se la prestazione essenziale, che definisce il discorso economico (esplicando i suoi effetti disciplinari al suo interno ed all’esterno) è solo “mettere i trattini sulla 't'”, la cosa è abbastanza vuota. Se si tratta, invece, di mettere le “t” dove ha senso, la cosa si può fare anche in altri modi; ad esempio senza mutilare e costruire “favole”. Ma, ecco, dove cade il punto (e dove sorge anche l’importante discorso a suo tempo fatto da Kuhn): l'effetto che fa la differenza è quello indicato dagli ultimi due punti, è il potere ed il disciplinamento (anche all'ìnterno, forse soprattutto). Ciò che andrebbe guardato è quindi all’impresa sociale della disciplina insieme al suo funzionamento nei giochi sociali e politici dominanti. Gli altri effetti, come chiarire le ipotesi, accumulare enunciati classificati come “conoscenza”, sono altrettanto garantiti da un preciso e consapevole discorso organizzato da altre discipline e da altri corpus letterari (ad esempio dalla filosofia, dalla sociologia, e  via dicendo). Il “metodo empirico” è poco coinvolto nella pratica della costruzione di modelli nella tradizione letteraria e disciplinare neo-classica. Anzi si potrebbe argomentare (e lo farà Sylos Labini) che ne è del tutto estraneo. Anche la matematica può ben “giocare un ruolo strumentale”, ma non “puramente” (p.48). Essa è parte di una strategia di legittimazione e di esclusione. Strategia che Rodrik conosce molto bene e rivendica, in qualche modo. In tutto il libro ricorda che i cancelli disciplinari si chiudono su chi non pratica il gioco sociale della costruzione dei modelli, che l’apprendimento e la socializzazione nella professione –in particolare accademica- passa per i modelli, e le carriere passano per la messa a punto di nuovi.

Dunque essa potrà ben “non essere indispensabile” per fare affermazioni economiche (in senso che ogni affermazione può essere “tradotta” in linguaggio naturale, esplicando le notazioni matematiche), ma lo è nella definizione delle mura della disciplina. O almeno di quella che si è affermata in questi anni. E non solo perché le politiche complesse del FMI, dell’Ocse o delle Banche Centrali, che agiscono con relativamente piccole leve su sistemi ipercomplessi e altamente reattivi (inoltre fortemente intelligenti e guidati da agenti variamente orientati), richiedono “favole” e queste “rituali” (come l’applicazione del modello CGE di turno). Ma questo avviene perché la parola va controllata. L’accesso alla parola in pubblico, in un Talk Show come in un Comitato di Esperti, va riconosciuto e i suoi poteri dominati.

La questione individuata da Rodrik è certamente che “il mondo si può capire solo se lo si semplifica” (frase che attribuisce a Borges), ma va molto oltre.

Né la questione si limita all’eventuale inclusione (pure necessaria ed auspicabile) del paradigma della complessità nella descrizione del mondo. Cioè all’utilizzo di concettualizzazioni e modelli che includano “equilibri multipli” (superando l’ottocentesca impostazione walrasiana dell’equilibrio unico generale, espresso come massimizzazione di una funzione matematica), “punti critici”, “complementarietà”, “path dependence” (p.53).

Tra gli esempi portati dall’autore, che è pur sempre un economista neo-classico, pur eterogeneo, si trova il famoso “primo teorema dell’economia del benessere” (anche detto “della mano invisibile”) che a suo parere “prova realmente l'ipotesi della mano invisibile. Mostra, cioè, che se sono valide determinate assunzioni l'efficienza [in senso di Pareto] di un'economia di mercato non è solo una congettura o una possibilità, ma segue logicamente dalle premesse” (p.61).

In altre parole, l’economia di mercato (nelle definizioni eroiche assunte), “fornisce tanto prodotto economico quanto ne potrebbe fornire qualsiasi altro sistema economico. Non c’è nessun modo per migliorare questo risultato, nel senso che nessuna distribuzione di risorse potrebbe migliorare la condizione di qualcuno senza peggiorare quella di qualcun altro”. Spostare le risorse nella società americana, come ad esempio vorrebbe Sanders, necessariamente danneggerebbe almeno una persona (o una famiglia, ad esempio la famiglia Walton, che possiede qualcosa come 87 miliardi di dollari).

Un simile teorema, con la sua relativamente complessa matematica, è posto al primo semestre di qualsiasi corso superiore di economia e può anche concludere qualsiasi successiva definizione. Se non si può, dallo spazio definito della disciplina (come vedremo), toccare le distribuzioni, ciò che resta è solo la conservazione del mondo come esso è. D’altra parte affermare che “in realtà” (e non nel luogo teorico del modello) il massimo si raggiunge nelle condizioni tipizzate, induce una implicita conseguenza normativa: che bisogna spingere la realtà a conformarsi alle assunzioni poste nella matematica.

Non a caso tutte le politiche neo-liberiste sono volte ad appianare il terreno di gioco, distruggere i nodi di socialità e comunitari (che ostacolano il libero scambio dei fattori e creano attrito alle transazioni), ampliare la circolazione, indurre consumatori e produttori a non considerare altro che il proprio interesse immediato, garantire che tutto sia in vendita e comprabile, ignorare esternalità, come l’inquinamento, e via dicendo…

Ma se questo, come vorrebbe l'economista turco, è il “gioiello della corona” abbiamo una casa costruita su una pietra di sabbia. La “prova” rivendicata è infatti solo banale formalismo e semplice coerenza, una validità puramente interna. Qualunque algoritmo ben fatto è coerente, ma il punto è sempre se ha qualche significato fuori di sé. Esso (il significato), detto in altro modo, lo può trovare solo fuori del suo formalismo che altrimenti soggiace al sospetto di essere “ding an sich” (vuoto), come in altro contesto dice Kant nella prima Critica.

Ma questo modello è tutt’altro che vuoto. Il punto è solo che non è dove si dice essere: la sua valenza descrittiva è molto bassa, ma quella normativa, al converso, totale. Quel che Arrow e Debreau, usando intuizioni di Smith, ma soprattutto di Walras e di Pareto, hanno fatto è in effetti costruire una potentissima “favola” che crea un nuovo sguardo sul mondo. Uno sguardo che trasforma il mondo.

Definire il dibattito aperto da simili modelli (ma ciò vale anche per quello del commercio internazionale di Paul Samuelson nel 1938, citato a pag.65, o per il modello della formazione del prezzo “a margine”, citato a pag. 134) “razionale e costruttivo”, perché oppone varianti di modelli anziché discutere sul mondo come è (nella sua densa tessitura di identità, valori, discorsi e interpretazioni), individua un sottoinsieme del termine “razionale” particolarmente stretto. È razionale ogni discussione sui mezzi che prescinda dalla messa in questione delle cornici in cui questi si collocano, un’interazione quindi disciplinata e recintata. Nella quale non si possa divagare, o parlare in modo “impreciso”. Nel quale autorità e gerarchia siano definiti nel perimetro aperto dal campo discorsivo, e solo da esso.

Un campo in cui il paesaggio vede individui razionali auto fondati (è la caratteristica dei cosiddetti “modelli micro fondati” post keynesiani), meccanismi di interazione semplici, limitati feedback, canali causali diretti ed indiretti gerarchizzati in modo chiaro.

Ciò malgrado, come ben riconosce Rodrik, le teorie essenziali, come quella del prezzo formato “al margine” essenziale non solo per superare la vecchia teoria del “valore-lavoro” ricardiana e marxiana, “sono basate su concetti –utilità marginale, costo marginale, prodotto marginale- che non possono essere oggetto di osservazione” (p.137).

Per ottenere il crisma della agognata scientificità si può costruire una teoria con oggetti che non possono essere osservati (tanta parte della fisica contemporanea è così costruita), ma bisognerebbe inferirne conseguenze necessarie a loro volta osservabili. E questo è molto problematico con una disciplina così strettamente connessa con il potere di cambiare le cose come l’economia e nella quale le osservazioni sono così dipendenti da rilevazioni altamente complesse e distribuite. La disciplina è, insomma, piena di “scatole nere”, di ambiguità, di difficoltà osservative, di micro teorie incoerenti e di grandi teorie lacunose (come, appunto, quella marginalista).

Nel libro ci sono utilissime riletture, come quella della transizione dal paradigma (non matematizzato per espressa ritrosia dell’autore) keynesiano al suo incapsulamento in un modello da parte di Hicks, alla crisi dello stesso determinata dalla crisi delle materie prime (e dell’assetto di potere di Bretton Woods) dei primi settanta e dagli attacchi intellettuali di Lucas e Cochrane (“micro fondazione” ed “aspettative razionali”), resi irresistibili dall’utilizzo della matematica e dalla sua grande potenza legittimante (nel contesto di una ricezione americana del neo-positivismo di Von Mises, Frank, Neurath), nello spazio della rivoluzione conservatrice di Reagan.  Leggiamo come la vede il professore di Harward: “il grande fascino della teoria risiede nel modello stesso. I micro fondamenti, il linguaggio matematico, le nuove tecniche, lo stretto legame con la teoria dei giochi, l’econometria e altri campi che godono di un’alta reputazione nell’ambito delle discipline economiche: tutto ciò faceva apparire la nuova macroeconomia classica anni luce più avanti dei modelli keynesiani” (p.148).

Ma nel 2008 i nodi vengono al pettine e la “grande moderazione” termina nell’attuale assetto.

Ma la crisi non era stata vista da quasi tutti (anche se alcuni, come Rajan e Shiller, fanno eccezione) perché nel quadro delle assunzioni teoriche (in realtà normative) dei modelli formalizzati in linguaggio matematico i mercati non possono crollare. Essi trovano sempre un equilibrio stabile e generale. Questa è “l’ipotesi dei mercati efficienti” di Fama (p. 172) che è clamorosamente contraddetta, in 65 casi su 65 (come vedremo in Sylos Labini) dai semplici fatti.

Tuttavia, proprio perché i “semplici fatti” non esistono, ma solo costrutti densi di assunzioni, valori ed interessi, ancora oggi la teoria resiste e legioni di economisti, dall’alto delle loro mura disciplinari, non ritengono affatto che essa abbia fallito la verifica (secondo il linguaggio neopositivista) o sia stata confutata (secondo quello popperiano).

Si, perché, come dice Rodrik, gli economisti quando sono in pubblico “serrano i ranghi”, e difendono i cancelli disciplinari. Riducono drasticamente la complessità e “valutano l’eleganza più del giudizio”.

L’ultimo capitolo del libro è probabilmente il più stimolante, vi viene riconosciuto che l’economia è piena di narrative, favole e moralità implicite (dato che quelle esplicite, in puro stile neopositivista, sono considerate fuori delle cose di cui si può parlare). E’ raccontata la posizione del filosofo di Harward (dunque suo collega) Michael Sandel, in “Quello che i soldi non possono comprare”, ma viene al termine rigettata con il povero argomento che “l’esortazione morale è bella, ma gli incentivi funzionano” (p.207). Un argomento che mostra la forte dipendenza intellettuale dell’economista turco dal riduzionismo sociale e dall’antropologia mutilata tipica della disciplina. L’uomo reale (non il suo avatar matematico) è motivato da un set molto più ampio di pulsioni che non solo il calcolo dell’interesse immediato. Immaginare che così non sia è precisamente ciò che sta distruggendo la società.

Il monodiscorso dell’economia contemporanea alla sola “efficienza” (e di questa alle sole componenti matematizzabili in una funzione di cui ricercare il massimo) è, al termine, ciò che determina l’espulsione di ogni considerazione di equità dal novero dei discorsi legittimi. Entro le mura della disciplina “ogni economista che allarghi il discorso all’equità, alla giustizia o a un valore morale del mercato, pretendendo di fondarlo sulla teoria economica, sta semplicemente indulgendo in una ‘pratica scorretta’” (p.207). Cioè esce dai “limiti di competenza” del discorso economico.

È chiaro che questo steccato lascia passare solo la particolare versione conservatrice della definizione di efficienza di Pareto (1896), che come ha mostrato Sen è compatibile con il potere concentrato in una sola mano, ma non con quello distribuito in uno stato liberale (realmente). Si può vedere “L’impossibilità di un liberale paretiano” (1982, p.279) in Scelta, benessere, equità

Da Tempo Fertile

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