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Ciao, ciao Keynes

di Alessandro Chiavacci

keynes112Parte I

Gli amici Moreno Pasquinelli e Leonardo Mazzei, e il gruppo Mpl/Sinista contro l’ Euro/P 101, da anni lavorano per coalizzare le forze sociali e intellettuali per creare una alternativa al presente, con gli occhi puntati su quella che è la questione centrale oggi per l’ Italia, cioè l’uscita dai vincoli dell’euro e dell’Unione europea. Nel fare questo però a mio avviso guardano con troppa condiscendenza  a forze sociali e a teorie che mentre sembrano possibili alleati di un progetto di trasformazione del mondo, hanno anche limiti di fondo che ne inficiano l’utilità dal punto di vista di quella stessa prospettiva.

Una di queste teorie, sulla quale vorrei soffermarmi, è il keynesismo.

Dovendo fare una sintesi ultra semplificata e ingiusta del contributo pratico del keynesismo, potremmo dire che il suo significato è che, poiché il reddito non si traduce sempre in spesa è possibile che la domanda effettiva sia minore di quella che serve a generare piena occupazione,  che perciò, in molti casi,  è necessario integrare la domanda con la spesa pubblica realizzata in deficit.

Ora,  a parte i limiti pratici, quali l‘osservazione che è molto probabile che per varie ragioni tensioni inflazionistiche sorgano prima che si raggiunga una ipotetica “piena occupazione delle risorse”, a me sembra che questa visione incontri anche limiti teorici. Quella fondamentale è che noi operiamo all’interno di un sistema capitalistico, dove il fine della produzione è quello del profitto, e che perciò, a mio avviso, le manovre sulla moneta e l’ammontare della spesa pubblica improduttiva (n.b.: SE improduttiva) si muovono entro i margini imposti dal processo di valorizzazione. Avanzando una ipotesi, mi verrebbe da dire che quando la spesa improduttiva confligge con l’ammontare del plusvalore, si ha inflazione; quando tale spesa mette in pericolo la stessa produzione di valore, cioè la vitalità del sistema, si rischia l’iperinflazione.

Mettendola in altra forma, facendo un paragone con la fisiologia umana, potremmo dire che il nostro corpo economico (di noi “Italia”) è composto da 5 milioni di cellule/imprese (grandi, piccole, banche, lavoratori autonomi) che vanno a glucosio/profitto. Immaginarsi che se sono in coma basti a risvegliarle la sola circolazione di sangue extra-corporea significhi dimenticarsi che quelle cellule vanno comunque a glucosio..

Ora, i keinesiani mettono giustamente in evidenza che il nesso fra risparmio e investimenti va invertito rispetto a quello considerato da classici e neoclassici. Cioè che è l’investimento che crea il risparmio, e non viceversa. Assolutamente vero, tanto che potremmo dire che il risparmio di oggi è interamente il frutto degli investimenti passati.

Tuttavia molti keynesiani sembrano ragionare in modo strano. Sembra che per loro, le identità della contabilità nazionale non siano sempre valide, o meglio che siano valide “dopo un certo periodo di tempo”. Ma quelle identità contabili, proprio in quanto “identità” sono valide sempre, in ogni momento e in modo continuo. Cioè, è sempre vero che, in una economia chiusa, la somma dei consumi e degli investimenti non può eccedere (a parte le fluttuazioni delle scorte, ma quante sono queste scorte..?) quanto si è prodotto, o che in una economia aperta agli scambi mercantili, la somma di consumi, investimenti e importazioni non può superare la produzione per l’interno e le esportazioni.  In una economia aperta ai flussi di capitale questo limite non è più vincolante, è vero, grazie al ricorso al risparmio estero. Ma il risparmio estero non viene a comando…

 

 

Alcuni dati di contabilità nazionale 

Passando a parlare dell’Italia attuale, i dati della contabilità nazionale per gli anni 2012, 2013 e 2014 (gli ultimi pubblicati per quanto mi risulta) indicano un tasso di risparmio netto (cioè il risparmio lordo meno gli ammortamenti) negativo per tutti e tre gli anni, e del pari, un tasso di investimento netto (ancora, investimenti netti meno ammortamenti) analogamente negativo, con una accentuazione per il 2014 quando  i disinvestimenti fissi hanno raggiunto il 2,3% del prodotto interno netto. Detto in altri termini, ci stiamo mangiando il patrimonio.

D’altra parte, se le strade sono piene di buche, come sono, se le scuole cadono a pezzi, se i resti di Pompei crollano, se le colline smottano ad ogni accenno di pioggia, può darsi che gli ammortamenti del patrimonio pubblico, archeologico e ambientale siano sottostimati. E d’altronde, se i ponti delle autostrade crollano prima di entrare in funzione, se il valore degli investimenti nell’alta velocità finisce in gran parte nei profitti di mediatori e di contractors, se gli edifici pubblici sono costruiti con cemento “depotenziato” può darsi che gli stessi investimenti siano in gran parte sovrastimati.

Voglio dire che la situazione italiana è drammatica e probabilmente peggiore di quello che ci raccontano.

D’altronde, in una prospettiva futura di sovranità democratica del nostro paese, ci sarà un giorno da pensare ad una politica di difesa (e anche se l’appartenenza alla Nato ha dei costi può darsi che difendersi da soli sia ancora più costoso), ad una politica di sovranità energetica (che costa), a diminuire l’età pensionabile (che costa), a migliorare le condizioni di lavoro (che costa) e poi a ricostruire almeno qualcuno dei settori, (citando Gallino, La fine dell’italia industriale) in cui siamo rimasti indietro: la chimica, l’informatica, l’aeronautica, l’elettronica.. Che hanno bisogno di colossali investimenti. E dovremo magari un giorno pensare anche alla bellezza e alla qualità della vita, invece che pensare solamente ai consumi. Qualcuno pensa che possiamo farlo senza pensare al risparmio? Che basti una politica keinesiana di deficit-spending per procurare le risorse necessarie? Io nutro forti dubbi.

 

 

Qual è il ruolo dello stato 

I keinesiani sembrano pensare che il ruolo dello Stato nell’economia sia quello di “tenere la domanda in tensione”, come se l’economia fosse... un materassino gonfiabile con qualche perdita. Finché la domanda pubblica tiene il materassino in tensione, tutto va bene.

Ma il ruolo dello Stato non è quello di “erogatore di spesa”, non è affatto un “acquirente di beni e servizi”.

In primo luogo l’intervento dello Stato è per via normativa. Qualcuno può sostenere che ha scarsa importanza economica la legislazione sul lavoro? O la legislazione sulle imprese e sulle società? O che lo ha la legislazione sull’urbanistica e sull’edilizia, o sul federalismo o sui poteri degli enti locali? O che lo ha la legislazione sull’ambiente, la salute, la sicurezza? Certamente no. Dimenticarlo corrisponde all’idea liberale che la legislazione su tali materie sia solo un “vincolo”, un “laccio o lacciuolo” del quale l’economia non può che prendere atto, ma non è affatto così.

Né va dimenticato, in secondo luogo,  che lo Stato agisce anche come proprietario. La gestione di Eni, Enel, Poste, Finmeccanica, delle municipalizzate non è affatto irrilevante in termini economici, anche se non compare, se non come utili o perdite per la quota azionaria statale, nelle statistiche della contabilità pubblica. Né lo è la gestione di quella parte restante di patrimonio pubblico  il cui valore sfiora ad oggi i 2000 miliardi di euro.

Ma facciamo finta per un momento che il ruolo dello Stato nell’economia sia efficacemente rappresentato dalle equazioni della contabilità nazionale, quelle che sono state costruite dai keinesiani con i concetti dell’economia liberale.

In tali equazioni, abbiamo che:

PIL= REDDITO= SPESA

In tali equazioni, data la natura di identità, il ruolo dello Stato può essere sintetizzato come soggetto fra gli altri della domanda aggregata, che siano  consumatori o  imprese investitrici. Il problema è che questa rappresentazione, pur lecita, non è affatto adeguata.

Infatti, la Pubblica Amministrazione agisce in primo luogo sulla prima fase del circuito produzione-reddito-spesa, come produttore di servizi. Il problema è che la contabilità nazionale, costruita con concetti liberali, non è in grado di valutarne il valore, perché i servizi pubblici non hanno un prezzo di mercato. Si è perciò ricorsi all’espediente di valutarli sulla base dei costi effettuati per produrli. Ma questa convenzione statistica è paradossale, perché se un governo particolarmente efficiente, a parità di spesa, riuscisse a raddoppiare la quantità di servizi erogati, o uno particolarmente incapace la dimezzasse o al limite la annullasse, questo non sarebbe in alcun modo rilevato nella contabilità nazionale.

Ma non considerare oggetto meritevole di osservazione la produzione effettiva di servizi da parte dello stato equivale a considerare che lo Stato faccia un uso economicamente ottimale delle risorse di cui è a disposizione. Una affermazione che meriterebbe di essere sostenuta di fronte ad una platea di piccoli imprenditori strangolati dal fisco, ma che in ogni caso è una assurdità sia per un economista che per il pensiero critico.

In secondo luogo, tralasciando il problema non da poco della rilevazione dei servizi, lo Stato non è ancora un acquirente di beni…!

Nel Conto Consolidato delle amministrazioni pubbliche per il 2014, sui circa 826 miliardi di uscite complessive dello Stato, solo 168 sono acquisto di beni e servizi, consumi intermedi e investimenti…! Gli altri 658 sono trasferimenti di reddito!!! Cioè, lo Stato usa la maggioranza schiacciante delle tasse, delle imposte e dei contributi che riceve per intervenire sulla distribuzione del reddito, come prestazioni pensionistiche e sociali,  come redditi da lavoro dipendente, come interessi sul debito, come contributi alla produzione o agli investimenti! Quindi, se in qualche modo dovessimo rappresentare lo Stato, dovremmo casomai rappresentarlo come una grande macchina per la trasformazione del reddito (fase 2 del circuito), non come un acquirente (fase 3) di beni e servizi…!

La spesa per beni e servizi rappresenta il 20% della sua spesa. Se l’intervento sopra richiamato sul piano normatorio e proprietario valesse, poniamo, metà dell’intervento pubblico nell’economia, tale spesa si ridurrebbe al 10% dell’intervento totale. Quei keinesiani che con aria di trasgressione parlano di spesa in deficit, stanno parlando di un argomento che ai dati del 2014 rappresenta il 6% della spesa complessiva, cioè il 3% dell’intervento dello Stato. Dimenticano cioè il 97% della sua attività. Anche un deficit doppio sarebbe irrilevante se lo stato agisse e spendesse bene, mentre potrebbe essere insostenibile lo stesso pareggio di bilancio se lo Stato agisse e spendesse male. 

 

 

Un giudizio storico sul keynesismo 

Da quanto precede, mi sembra di poter dedurre che gli strumenti keynesiani non possano essere uno strumento adeguato per opporsi in modo efficace al capitalismo della finanza in cui ci troviamo a vivere.

Certo, bisogna riconoscere che il keynesismo è stata una rivoluzione. Keynes a parere di chi scrive ha mostrato ai liberali e ai governanti come una parziale socializzazione del plusvalore, attuata con manovre espansive sulla moneta, con la spesa finanziata dalla banca centrale, o finanziata in deficit, sia conveniente sia per i capitalisti che per il sistema economico più in generale. Su tale idea si sono costruite le politiche attive di politica economica  e i sistemi di welfare. Tuttavia il limite del keynesismo deriva dal fatto che Keynes (che era a sua volta un liberale) doveva parlare ad una platea di economisti e di governanti liberali. Perciò ha dovuto rappresentare lo stato come uno spenditore, un acquirente di beni e servizi come tanti altri: cosa che non è. Perché come abbiamo visto prima, lo Stato è in primo luogo un produttore di servizi e un trasformatore dei redditi; o meglio, con riferimento a quanto detto sopra, un normatore, un proprietario, un produttore di servizi e un trasformatore dei redditi. Solo in ultima istanza è anche un acquirente di beni e servizi.

Il keinesismo è stato la controparte politica della II rivoluzione industriale, cioè della produzione di massa. Quando i capitalisti attingevano enormi giacimenti di plusvalore dalla produzione taylorista, redistribuire questo plusvalore era utile e necessario. Il ruolo utile dello stato spenditore si è esaurito per il capitale quando quei giacimenti di plusvalore si sono esauriti o per le conquiste contrattuali dei lavoratori organizzati, o quando, anche in conseguenza di quelle, il capitale ha spostato la produzione industriale di massa nei paesi a bassi salari e basso welfare.

Il keinesismo è stato un grande successo. A parte il successo economico, è stato un successo politico. Lo è stato perché ha reso possibile per più di mezzo secolo l’integrazione della sinistra politica e sociale nel capitalismo, che, attraverso il combinato disposto di keinesismo e sindacalismo ha diretto l’attenzione sulla spesa pubblica e sulla distribuzione del reddito piuttosto che verso una critica più radicale  dei rapporti di produzione.

Ma è stato anche un grande strumento di corruzione. Non nel senso della corruzione dei politici e delle tangenti, ma molto più profondamente perché l’idea che “l’importante è la spesa” ha fatto dimenticare ad ogni soggetto pubblico la funzione, l’efficienza, l’equità, la razionalità, le conseguenze di quella spesa.

Per farmi capire, ricorrerò ad un esempio personale.

Nel ’93 mi trovavo a Torino, e perciò decisi di andare ad un convegno di Rifondazione Comunista sull’ Alta Velocità. Nel convegno si dissero peste e corna di quel progetto, criticandolo da tutti i punti di vista. Alla fine del convegno, mi rivolsi al mio vicino alla riunione, un comunista torinese. Gli chiesi: “Ma allora, è sicuro, ma proprio sicuro che Rifondazione Comunista è contraria all’Alta Velocità…?” Lui mi rispose: “Ueh, compagno… Sono 200.000 miliardi… [allora si ragionava in lire].. è lavoro…!”

L’opinione del mio occasionale compagno di assemblea è di per sé irrilevante, ma credo che rappresenti bene l’uso pratico di massa che è stato fatto del keynesismo: disinteresse per l’uso delle risorse, per l’utilità dei progetti e per i bisogni delle persone.

Infine il keynesismo è stato anche un corruttore di generazioni intere di studenti e di intellettuali, (e anche di noi stessi),  che sono stati indotti a indirizzare la loro critica su aspetti limitati e in fondo marginali del sistema economico.

Pensare un’alternativa al keinesismo non significa solo dover individuare strumenti critici alternativi, ma anche mettere in discussione le forme organizzative dell’azione politica. Cose di cui proverò a scrivere  nella seconda parte. 

* * *

Parte II

Verso l'alternativa. Quali strumenti

«C’è anche una situazione generale che non è affatto rosea, e che porterà probabilmente a esiti catastrofici contro i quali forse poco potremo fare. Quella che sto provando ad indicare è solo una direzione di fondo, una direzione di fondo che però potrebbe cominciare ad operare già nel presente».

Da quanto ho scritto in precedenza, e che è stato pubblicato su Sollevazione il primo giugno, mi sembra di poter sostenere l’inadeguatezza dell’apparato concettuale keinesiano a fondare una politica economica per il presente. 

 

Si pone allora la domanda su con che cosa possiamo sostituirlo. Posto per certo che per chi scrive il lavoro di Marx resta la base per la comprensione della società esistente, è meno facile rintracciare in questo pensiero indicazioni pratiche per l’intervento nella società del capitalismo maturo. A parte che, notoriamente, Marx non scriveva “ricette per la cucina dell’avvenire”, è evidente che la nostra società è così ampiamente partecipata da essere molto diversa dal capitalismo liberale dell’800.

 

 

Con cosa sostituire Keynes, allora?

A me sembra che all’interno dello stesso pensiero economico accademico ci siano spunti critici di grande importanza, molto più significativi della stessa critica keynesiana, che però non vengono generalmente sufficientemente considerati e valutati.

Pensiamo alla questione, conosciuta dai marginalisti, delle “esternalità”: cioè alla considerazione che quando due soggetti contrattano, il prezzo che si forma non è indicativo dei reali costi sociali perché gran parte di questi ricadono su soggetti esterni alle persone che scambiano. Il mercato, in altri termini, non può essere uno strumento di allocazione ottimale delle risorse. Ma non nei due o tre mercati considerati da Keynes.. ma in TUTTI…!

O d’altra parte la questione delle “asimmetrie informative”: il suo significato è che quando fra un datore di lavoro e il suo dipendente esiste un rapporto conflittuale e non cooperativo, il risultato della loro contrattazione è diverso da quello ottimale.

Se combiniamo insieme queste due affermazioni, usando un linguaggio marxiano, potremmo concludere che il capitalismo non può funzionare né dal lato della circolazione dei beni (esternalità) né sul piano della produzione (asimmetrie informative).

E’ vero, replicherà qualcuno, i temi delle “esternalità” e delle “asimmetrie informative” sono importanti sul piano teorico, ma quali strumenti individuano per intervenire politicamente? Almeno Keynes aveva individuato lo strumento della spesa pubblica.

Però non è così. 

Da questo punto di vista ci aiuta Pigou (o chi per lui) parlando dell’ “analisi costi- benefici”. Quando lo stato o un altro soggetto pubblico interviene nell’economia non può ragionare né in termini di costi e ricavi (per ovvi motivi) né con l’ottica di pareggio di bilancio. Deve ragionare in altri termini, cioè deve considerare le ricadute di qualsiasi genere che la sua azione avrà sull’insieme dei soggetti economici e dei cittadini. Dovrà ragionare sulla utilità dei servizi che propone, e della loro efficienza; della equità e efficacia del sistema tributario, sia dal punto di vista complessivo sia su quello della esazione; dovrà considerare in che modo quell’intervento agisce sulla matrice dei costi, le conseguenze sull’ambiente, sul territorio urbano, sulla circolazione dei veicoli, le conseguenze sulla distribuzione del reddito, sull’occupazione, sull’impiego delle risorse. Le considerazioni keynesiane sulla domanda effettiva possono essere un importante sottoinsieme di queste considerazioni.

I marginalisti e Pigou impiegavano strumenti tecnici complicati e forse discutibili. Però il significato pratico che a mio parere se ne può dedurre è che i soggetti pubblici, per quanto in loro competenza, devono ragionare in termini di PIANIFICAZIONE. Di pianificazione, si badi bene, nell’ambito delle proprie competenze: non sto immaginando una pianificazione integrale dell’economia: considero l’iniziativa privata, sia in termini di creatività che in termini di intelligenza diffusa una risorsa insostituibile della nostra società.

Ma per intervenire in termini di pianificazione non è affatto necessario controllare tutto il sistema economico: pianificazione è un metodo, significa tener conto che il fine di ogni ente pubblico è il Bene Comune; significa ricordare che la ragione dell’esistenza dello Stato Interventista è nel Fallimento del Mercato. Significa ricordare che il ruolo dello Stato è di creare ESTERNALITÀ positive per tutto il sistema economico. Significa infine ricordare che lo Stato è il principale attore del sistema economico ed è anch’esso un Produttore

Facendo un esempio banale, se c’è da costruire un ponte che riduce, poniamo, i costi a mezzo milione di imprese, la domanda “Ma deve essere finanziato in deficit o in pareggio di bilancio” risulta piuttosto stravagante. Meglio in deficit, verrebbe da dire, e poi recuperarne i costi con le imposte sul reddito. Ma chiaramente non è l’argomento centrale.

L’argomento centrale per un soggetto pubblico è: i servizi che organizzo sono utili? Sono organizzati in modo efficiente? La loro utilità è valida anche se confrontata con l’uso delle risorse? Le risorse che utilizzo sono raccolte in modo equo, ed in modo efficiente (che sono due cose diverse)? Gli stipendi che distribuisco sono adeguati e giustificati? Le assunzioni del personale sono clientelari o democratiche? Le spese per gli acquisti e per gli investimenti sono giustificate? Quali sono gli effetti dei miei investimenti e della mia produzione sul sistema economico e sulla società più in generale? Chiaramente questo insieme di questioni è un po’ più ampio delle considerazioni keynesiane sulla domanda effettiva.

Qualcuno si chiederà: ma la teoria accademica ci dice anche qualcosa sull’economia internazionale e sull’assurdità dell’ Unione Europea…?

Ma certo che lo dice. Non c’è bisogno di ricorrere alla teoria delle aree valutarie ottimali di Mundell, che poi si scopre che il suo inventore dice: «L’Unione Europea..? E’ completamente irrazionale, è bellissimo! E’ Reagan in Europa…!»

Né di fare considerazioni sugli effetti devastanti e criminali delle politiche di austerità dell’Unione Europea. Bastano le equazioni walrasiane dell’equilibrio economico generale per capire come il principio fondamentale di tale equilibrio, cioè l’uguaglianza del prezzo di ogni singola merce sui vari mercati, sia contraddetto dalla libera circolazione dei capitali, che permette al capitale dei paesi centrali di speculare sulla differenza di salari fra i paesi. Il sistema della libera circolazione dei capitali, e quindi anche l’ Unione Europea, è cioè completamente infondato anche dal punto di vista della teoria neoclassica.

Si potrebbe continuare mostrando come la teoria ricardiana dei costi comparati indichi un percorso per degli scambi fra paesi cooperativi e mutualmente vantaggiosi diverso da quello della libera circolazione dei capitali.

Ma si divagherebbe troppo. La questione, fatte le premesse precedenti é: se noi ridefiniamo l’oggetto dell’intervento politico nei termini della qualità, della razionalità intesa come pianificazione, dei soggetti pubblici, posto che i luoghi delle decisioni di rilevanza collettiva sono migliaia, forse milioni, come si può pensare di agire in modo efficace su questi? Quale organizzazione può mai proporsi realisticamente di intervenire in questi milioni di luoghi?

 

Sull'azione politica. L'io e il noi

La sola risposta realistica all’ultima domanda a mio avviso è: quell’organizzazione non si può costruire.

Non c’è riuscito in 50 anni il Partito Comunista Italiano, con il suo milione e mezzo di militanti, erede della organizzazione socialista, formatosi nella temperie della guerra civile spagnola e della seconda guerra mondiale, a costruire un organizzazione che incidesse in modo significativo in tutti i luoghi rilevanti dell’agire politico, dovremmo riuscirci noi, che siamo per lo più eredi eterodossi di qualche corrente minoritaria del pensiero critico? 

Ma non ci possiamo riuscire, in più, perché il liberalismo ha impregnato profondamente tutta la società italiana: non solo le classi dominanti politiche e finanziarie, e la larga area di clientela e di convenienza legata alla prima, ma tutti gli ordini professionali, a partire da magistrati e avvocati, tutte le associazioni imprenditoriali, i sindacati, e gli stessi oppositori di questo sistema. Infatti, per fare un esempio, le decine o centinaia di micro gruppi ed organizzazioni che negli anni recenti si sono schierati contro l’Euro o contro l’ Unione Europea non sono mai riusciti a coalizzarsi e la ragione principale sta nella loro visione individualistica/liberale. Non ci può riuscire, infine, perché sono infinite le competenze diffuse nella società, e nessun soggetto politico può nemmeno lontanamente immaginare di dar loro indicazioni, e qui sarebbe necessario quel bagno di umiltà che ogni militante politico può fare discutendo con chi esercita una professione, magari un contadino.

Allora, qual è il compito degli intellettuali, o di chi, come noi, più modestamente si pone il problema di una alternativa allo stato di cose presenti?

C’è una intervista, una delle tante che Diego Fusaro ha fatto a Costanzo Preve e che ha messo su internet (su Marx, Fichte, Kant) in cui a un certo punto il filosofo torinese dice:

«Negli anni ’60 eravamo ossessionati dalla metafora della “durezza”. Duro era il capitalismo, dura era la resistenza della borghesia. Si era dimenticato che il reale era duro in quanto NON-IO. È vero che il Reale è “duro”, ma la sua durezza è la durezza di un NON-IO il cui IO ha dimenticato di essere lui stesso ad averlo posto e che lui stesso, avendolo posto, lo può revocare».

Che poi, anche se con altro linguaggio, non è diverso dall’idea marxiana di riportare alla coscienza i rapporti fra gli individui sottostanti alle relazioni umane che riappaiono in forma alienata nel mercato.

Allora, qual è il compito degli intellettuali? A parere di chi scrive, la critica del liberalismo, cioè delle ideologie dell’irresponsabilità.

C’è una linea diretta, a mio parere, fra gli scritti di Guglielmo di Occam, il protestantesimo, il capitalismo moderno e i vaneggiamenti di Mario Monti sulla Grecia come “Più grande successo dell’euro”. La linea diretta sta nella separazione del bene individuale dal Bene Comune.

Occam, in contrapposizione a Tommaso D’ Aquino e alla sua “Summa Theologiae” affermava l’inconoscibilità della verità (“Chi siamo noi per giudicare gli Universali”?) e l’inadeguatezza della ragione per conoscere il reale (“Dio potrebbe agire anche violando il principio di non–contraddizione”: dunque la ragione è inutile) . 

Dopo di lui, conseguentemente, i protestanti hanno sostenuto che ognuno avrebbe potuto “leggere la Bibbia da solo” (cioè farsi individualmente giudice del Bene Comune) e poi Adam Smith ha sostenuto che la cosa migliore era che ognuno cercasse il proprio utile (che tanto poi c’era la “Mano Invisibile” a mettere a posto le cose).

Il liberalismo, se è valida la mia ipotesi di lettura, ha sempre interpretato la via di realizzazione dell’uomo come “emancipazione” (emancipazione vuol dire “rottura delle catene”), cioè come liberazione dai vincoli della totalità. Questo poteva essere comprensibile storicamente (la borghesia doveva liberarsi dal potere feudale e dalla Chiesa) ma ha generato ideologie dell’Irresponsabilità. Sono tali infatti il liberismo (cerco il mio utile, al resto ci pensa la mano Invisibile), il neo-liberismo (l’importante sono gli affari, i popoli possono fottersi), il keynesismo (l’importante è la spesa, poi si vedrà), ma anche il sindacalismo e, in parte, il comunismo.

Negli anni ’70 e ’80 chi ha fatto parte della sinistra consiliare si ricorderà che il leit-motiv era “ricostruire il blocco sociale antagonista”. Quella ricostruzione è impossibile. Sulla base della sola rivendicazione dei propri bisogni non si ricostruisce niente. Sulla base di “diritti e responsabilità” forse sì.

Cioè, non c’è nessuna legge per la quale la lotta di ciascuno per i propri bisogni si possa ricomporre magicamente in qualcosa di simile ad un Bene Comune. Immaginarlo significa far del misticismo. E’ la versione proletaria di Adam Smith. E’ una cattiva teologia.

D’altra parte anche il comunismo marxiano è stato forse, per certi versi, una ideologia dell’irresponsabilità.

Ha individuato efficacemente l’aspetto dello sfruttamento, ma ha messo in ombra che quello dello sfruttamento era il polo di un rapporto di produzione in cui si cede libertà in cambio di sicurezza, si concede schiavitù delegando responsabilità e decisione. Il proletariato doveva solamente “rompere le proprie catene”. Però, quando i partiti comunisti hanno avuto a che fare con la gestione reale di qualche società, quella Totalità, quella Necessità, temporaneamente messe da parte, si ripresentavano come Necessità nella interpretazione indiscutibile e senza mediazioni che ne dava il Partito.

Dicevo prima che quella organizzazione adeguata alla necessità di guidare la ripresa del controllo della società sull’interezza dei rapporti economici non si può costruire. E’ una dichiarazione di pessimismo?

Credo che in questa domanda si faccia confusione fra l’ “Io” e il “Noi”. L’Io cioè il Partito che guida la rivoluzione, forse non si può costruire. Il “Noi” che la fa, forse sì.

La nostra società, qualunque siano i tentativi di Renzi, è e resterà estremamente partecipata. “Noi” siamo già presenti in migliaia di Comuni, in migliaia di società per azioni, in decine di migliaia di consigli di fabbrica o Rsu, in migliaia di assemblee locali delle associazioni professionali, in centinaia di assemblee delle banche cooperative, in migliaia di Consigli di Istituto, in centinaia di migliaia di consigli di classe, in... 20 milioni di famiglie.

L’idea che va diffusa presso 60 milioni di italiani è: Bene Comune. Dobbiamo cioè strappare il velo dell’ideologia liberale che ci spinge a dimenticare il bene comune a favore del nostro tornaconto personale. L’uomo è un animale politico. L’individualismo promosso dal capitalismo è una insopportabile riduzione dell’umano.

Certo, poi c’è la situazione storica concreta. Ci sono le elezioni e dovremo probabilmente scegliere il male minore, ci sono le lotte quotidiane, ci sono i tentativi comunque necessari di costruire comunità pensanti. C’è anche una situazione generale che non è affatto rosea, e che porterà probabilmente a esiti catastrofici contro i quali forse poco potremo fare. Quella che sto provando ad indicare è solo una direzione di fondo, una direzione di fondo che però potrebbe cominciare ad operare già nel presente.

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