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Il pluralismo che blocca il pensiero critico

Riccardo Bellofiore

AA. VV. IL CAPITALISMO INVECCHIA?, MANIFESTOLIBRI, PP.140, EURO 22

Nel mezzo della crisi il manifesto intervistò 14 economisti. Con altri interventi, l'iniziativa è ora un libro a cura di Cosma Orsi, con prefazione di Alberto Burgio, postfazione del curatore, e un testo prezioso di Paolo Sylos Labini commentato da Giorgio Lunghini. Il volume «naviga» tra molte interpretazioni. Il titolo, Il capitalismo invecchia?, è singolare. Il capitale è un «morto vivente»: si rianima succhiando lavoro vivo, ringiovanendo (lo ricorda Vladimiro Giacché) proprio grazie alle crisi. Il quesito è: che crisi è questa, di quale capitalismo? Il manifesto non è nuovo a dibattiti del genere, né si è accorto con ritardo della crisi (come molti degli intervistati). Parlato, presentando le interviste, scrisse che il manifesto «sa poco di economia». In realtà la pagina capitale e lavoro ha coperto esemplarmente lo tsunami finanziario e reale dall'agosto 2007. Lo stesso Parlato pubblicava nel 1974 Spazio e ruolo del riformismo. Oggi leggiamo punti di vista che si affiancano senza dialogare davvero. Allora la discussione partiva un punto di vista definito. Oggi, pluralismo eclettico di monologhi. Ieri, pluralità di punti di vista dialoganti.

Com'era il dibattito, da metà Novanta sino al 2007? Si contendevano il campo due letture. Una, stagnazionistica, si appoggiava o sulla caduta del saggio del profitto (da aumento della composizione del capitale) o sul sottoconsumo (da bassi salari). L'altra insisteva sulla dinamicità di un Impero esente da crisi, l'economia della conoscenza e una cooperazione sociale immediata. Entrambe duramente smentite. Si è proceduto come se niente fosse, a furia di seconde globalizzazioni e golpe nell'Impero. Il pensiero critico è così arrivato impreparato alla crisi.

 

Cos'è successo? Riprendo in breve l'analisi che sul manifesto, con Joseph Halevi, abbiamo presentato in tempo reale, e che ha radici nei nostri scritti precedenti. Il capitalismo andato in crisi non è, come molti scrivono, «liberista» e «deregolamentato». Il neoliberismo, dopo una fase monetarista, ha contrastato la tendenza alla Grande Crisi mutandosi in paradossale keynesismo finanziario e privatizzato. Traumatizzati i lavoratori, li ha sussunti alla finanza facendone risparmiatori maniacali e consumatori indebitati. Con il debito pubblico che si riduceva, il debito privato doveva crescere. Non quello schumpeteriano degli innovatori: quello insostenibile delle famiglie.

Tutto si reggeva sulla inflazione delle attività in borsa e nell'immobiliare. La ricaduta reale era una ristrutturazione via centralizzazione (fusioni e acquisizioni) senza concentrazione (filiere transnazionali di imprese non verticalmente integrate, con frammentazione delle condizioni del lavoro). Era essenziale il sostegno di una politica monetaria attiva, tutto meno che monetarista. Alle spalle un pensiero economico pragmatico, tutto meno che tradizionalmente neoclassico: a parte Roncaglia, però, nessuno coglie che il mainstream è diviso, e da un bel po'.

Dagli Usa i consumi - «autonomi», politicamente manovrati: d'altronde lo stato sta dietro la new economy - reggevano l'economia globale, creando sbocchi ai neomercantilismi. Un meccanismo alla lunga insostenibile, che però contrasta l'instabilità, con squilibri cumulativi che abbattono i tassi di interesse e «liberano» i disavanzi di conto corrente. Quando «qualcosa va storto» - qualsiasi cosa: come ricorda Ciocca, che non si beve la favola della deregolamentazione dei mercati finanziari - la crisi finanziaria esplode, si tramuta in crisi reale, poi in crollo dell'occupazione. Il risparmiatore entra in fase depressiva, il debito delle imprese esplode. È la deflazione da debito.

Per la forza delle cose gli economisti italiani eterodossi hanno dovuto incorporare aspetti di questa sequenza. Rimangono le linee di divisione richiamate: e si procede, di nuovo, come se niente fosse. Della caduta del saggio di profitto Giacché dà una versione sofisticata, e Burgio ne pare convinto. Ma l'aumento della composizione del capitale c'è stato davvero? C'è da dubitarne. La svalorizzazione degli elementi del capitale costante fa sì che, pur quando ci sono investimenti innovativi, essi non chiudano più il circuito della realizzazione. Mancando la spesa pubblica come motore si è stimolato il consumo trainato dalle bolle. Chi è costretto oggi a riprendere l'analisi del «nuovo» capitalismo deve rileggerla con lenti sottoconsumiste: la migliore versione nel libro è comunque quella di Barba e Pivetti. Il sottoconsumo, però, non spiega nessuna crisi. (Su «Marx e la crisi» rimando il lettore a un mio convegno raccolto su: www.unibg.it/pers/?riccardo.bellofiore).

Il filone post-operaista, sovra-rappresentato, offre spunti di interesse, ma è preda di una contraddizione. Come sostenere il basic income se il «nuovo» capitalismo è crollato? Invocando (senza dirlo) un social-liberismo che alzi la propensione al consumo, stabilizzando l'economia. Vedendo produzione di valore ovunque: ma la produzione di valore nella circolazione è, marxianamente, produzione che si prolunga nella circolazione. Fantasticando di soggetti produttivi in sé, in quanto viventi. Peraltro, come scrive Picchio, i lavoratori della conoscenza non sono meno materiali dei lavoratori fordisti, o più emotivi e relazionali di loro.
Molti insistono sulla crisi reale, non finanziaria. È l'una e l'altra. Senza l'intreccio non si vedono le novità nella finanza (il money manager capitalism di Minsky), nella politica economica (la gestione della moneta di Greenspan), nel lavoro (la piena sotto-occupazione di un lavoro precarizzato, a cui le proprietà concrete vengono dal capitale, che sia qualificato o meno, che produca merci materiali o meno). Non è un caso che l'analista più acuto sia De Cecco (con Halevi, il miglior commentatore della crisi): credo si pensi un grande conservatore più che classicamente di «sinistra».

Picchio coglie il cuore della questione: «è la complessità delle vite dei lavoratori (donne e uomini multidimensionali) ... causa di tensioni e centro di contraddizioni perché non sono infinitamente disponibili ad essere usati come mezzi». È sulla riproduzione, economica e sociale, che si gioca la fase dinamica del capitale, così come la crisi. Per questo il reddito va garantito: non perché si sia in sé produttivi di (plus)valore, ma perché parte della popolazione lavorativa.

È eluso un nodo teorico, che è poi anche pratico. Non si tratta, in primis, di distribuzione e domanda. Si tratta di moneta e produzione, che determinano l'una e l'altra. Magri concludeva così il dibattito del 1973: «Un ciclo si è chiuso: quello dell'autonomia, della insubordinazione operaia ... (U)n ciclo nuovo si dovrebbe e potrebbe aprire, non più arretrato ma più avanzato, quello che oggi è consuetudine dire "socializzazione"». Il manifesto seppe vedere bene la crisi, meno la ristrutturazione che spense il ciclo dell'autonomia. Ma la questione dello sbocco politico e dell'egemonia resta da sciogliere, e si ripropone al punto più basso della forza del mondo del lavoro.

La sfida è ancora: dalla forma dello sfruttamento al «cosa, come, quanto» produrre. Ripartire dalla classe e dal genere, senza perdere di vista che è la stessa crisi del capitale a porre l'esigenza di una socializzazione dell'investimento, dell'occupazione, della banca e della finanza, in un diverso rapporto con la natura.

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