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machina

Maurizio Lazzarato: Guerra o rivoluzione. Tertium non datur?

di Mimmo Sersante

Pubblichiamo nella sezione reflex la recensione di Mimmo Sersante al libro di Maurizio Lazzarato Guerra o rivoluzione. Perché la pace non è un'alternativa, pubblicato da DeriveApprodi lo scorso autunno. La recensione è apparsa originariamente su «Pulp Libri»

0e99dc 579531be34e24955b0bb706f8f607d6amv2«A questo punto, signori principi e uomini di Stato, voi nella vostra saggezza, avete portato la vecchia Europa. E se non vi rimane altro che cominciare l’ultima grande danza di guerra, per noi va bene. Può darsi che la guerra momentaneamente ci spinga indietro, che ci strappi qualche posizione già conquistata. Ma se voi avete scatenato quelle forze che non siete più capaci di incatenare di nuovo, sia pure così: alla fine della tragedia, rovinati sarete voi, e la vittoria del proletariato sarà già raggiunta o, comunque, inevitabile», F. Engels [1].

Lo stesso ottimismo che Maurizio Lazzarato profonde nel suo ultimo saggio, Guerra o rivoluzione, edito da DeriveApprodi. Titolo tranchant che pone un’alternativa secca al lettore. Se poi per caso gli venisse in mente una pace possibile tra i due corni del dilemma, c’è il sottotitolo – Perché la pace non è un’alternativa – a chiarirgli che tertium non datur. Anche per Lazzarato, come a suo tempo per Engels e ancor prima per Hegel [2], la storia dell’Europa (e del mondo) non contempla la pace.

E infatti alla guerra noi siamo abituati da tempo perché è da trent’anni e passa che il mondo che abitiamo è in stato di guerra permanente e averla oggi a quattro passi da casa ce l’ha resa ancor più familiare. Evidentemente non ci erano bastate le guerre di successione jugoslave all’indomani dell’unificazione della Germania. Questa volta – e forse più di allora – sentiamo che ci riguarda da vicino, che ci stiamo impegolando in una situazione maledettamente complicata e più grossa di noi. Vorremmo starne fuori temendo il peggio. Magari tornando a sognare una Pax Europea, di fatto impossibile dopo la lunga tregua della guerra fredda. E allora?

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marx xxi

Come la Cina si protegge dalle incursioni dei capitali speculativi dell’economia-mondo

di Giordano Sivini

Riceviamo e pubblichiamo

cina digitalizzazione copiaDa una ricerca storica sulla Repubblica Popolare Cinese del ‘900 è emersa l’ipotesi, esplicitata fin dal titolo “La costituzione materiale della Cina. Le ragioni storiche della crescita del capitalismo cinese fuori dall’economia-mondo finanziarizzata” (Asterios, 2022), che all’incessante sviluppo cinese nel nuovo millennio abbiano contribuito gli investimenti diretti dall’estero e il concomitante divieto agli investimenti di portafoglio di entrare nell’area di accumulazione cinese. Il divieto era stato deciso alla fine degli anni ’90. La Cina stava preparandosi ad entrare nell’Organizzazione Mondiale del Commercio e adeguava il sistema istituzionale ed economico alle forme del capitalismo globale. Nel 1996 aveva promesso al Fondo Monetario Internazionale che la ‘moneta del popolo’, il renminbi, sarebbe stata resa gradualmente convertibile, ma il sopravvenire della crisi finanziaria asiatica fece bloccare il processo. Mentre nell’economia globalizzata i capitali produttivi stavano diventando tributari di quelli finanziari (Sivini, 2018), in Cina venne presa la decisione di vietare l’ingresso a quei capitali esteri che non avessero obiettivi immediatamente produttivi.

L’ipotesi che l’elemento distintivo del capitalismo cinese fosse legato a questa decisione è ripresa in esame in questo articolo alla luce delle autorizzazioni date dalla Cina nel nuovo millennio ad investitori stranieri ad operare in borsa e a grandi istituti finanziari esteri di realizzarvi investimenti di portafoglio. Il fine principale di queste aperture è stato di rendere il mercato finanziario cinese più competitivo, capace di produrre innovazioni nel sistema finanziario, orientato a sostenere le attività produttive ma ritenuto scarsamente efficiente.

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neronot

Sulla mutazione del desiderio

Ipersemiotizzazione → desessualizzazione → ansia → †

di Franco «Bifo» Berardi

fiamma bifoHo iniziato a leggere Felix Guattari nel 1974. Ero in una caserma del sud italiano, quando il servizio militare era obbligatorio per i giovani sani di mente e di corpo, ma servire la patria mi scocciò rapidamente, e stavo cercando una via d’uscita quando un amico mi suggerì di leggere quel filosofo francese che raccomandava la follia come una via di fuga.

Lessi allora Una tomba per Edipo. Psicoanalisi e trasversalità edito da Bertani, e ne trassi ispirazione per un’azione di follia. Il colonnello della clinica psichiatrica mi riconobbe pazzo e così me ne tornai a casa.

Da quel momento ho preso a considerare Felix Guattari come un amico i cui suggerimenti possono aiutare a fuggire da qualsiasi tipo di caserma.

Nel 1975 pubblicai il primo numero di una rivista chiamata A/traverso, che traduceva concetti schizoanalitici nel linguaggio del movimento degli studenti e dei giovani lavoratori chiamato Autonomia.

Nel 1976, con un gruppo di amici, comincio a trasmettere nella prima radio italiana libera, Radio Alice. La polizia interviene a chiudere la radio durante i tre giorni di rivolta degli studenti di Bologna, dopo l’assassinio di Francesco Lorusso.

Il movimento bolognese del 1977 usava l’espressione “autonomia desiderante”, e il piccolo gruppo dei redattori della radio e della rivista si definivano “trasversalisti”.

Il riferimento al poststrutturalismo era esplicito nelle dichiarazioni pubbliche, nei volantini, nelle parole d’ordine della primavera ’77.

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tempofertile

L’angelo della storia. Rileggendo Benjamin

di Alessandro Visalli

alfbenj 2“9. C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta”[1].

Siamo nel 1940, una data decisiva per comprendere il testo, Walter Benjamin rompe radicalmente, nel manoscritto detto delle “Tesi di filosofia della storia[2] con tutta l’ideologia del progresso che è tanta parte del marxismo. L’operazione che il grande intellettuale ebreo compie è di ibridare nel corpus rivoluzionario marxista elementi derivanti sia dalla critica romantica della civilizzazione, sia dalla tradizione messianica ebraica. Sono allora sedici anni, da quando ha incontrato il marxismo attraverso la lettura di Lukács e l’incontro caprese con la russa Asja Lacis, e quindici da quando in “Strada a senso unico[3] riconosce nella rivoluzione un esito non già inevitabile, o naturale, quanto una sorta di estrema difesa davanti al disastro. Un “tagliare la miccia accesa” prima dell’esplosione.

Il lavoro che compie sul marxismo, in particolare a metà degli anni Trenta, è da allora rivolto a dissotterrare le componenti romantiche ed antiborghesi che lo stesso Marx recepisce, ma che sono sepolte abbastanza accuratamente dal marxismo tedesco nella fase della sua affermazione politica.

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blackblog

Nota storica su un testo di Hans Jürgen Krahl (in calce)

di Frank Grohmann

bpk 70242758L'opera di Hans Jürgen Krahl (1943-1970), rimasta in forma di bozza o addirittura frammentaria, deve molto al suo contrapporsi con l'opera di Jürgen Habermas - come dimostra in particolare il progetto del 1968 [*1], anch'esso incompiuto, qui di seguito riprodotto. Un anno dopo la sua relazione "Sull'essenza della logica dell'analisi marxiana della merce" [*2] (1966/67) - svolta nel corso di un seminario di Adorno e che ancora oggi colloca il pensiero di Krahl accanto a "Sulla dialettica della forma-valore" (1970) [*3] di Hans-Georg Backhaus e a "Sulla struttura logica del concetto di capitale in Karl Marx" (1972) [*4] di Helmut Reichelt - il progetto di Krahl non solo critica Jürgen Habermas, ma allo stesso tempo suggerisce dov'è che Krahl vede i limiti della teoria critica dei suoi maestri Max Horkheimer e Theodor W. Adorno: ossia, come si dirà più avanti, egli vede tali limiti nel pericolo di «razionalizzare la necessità dell'astrazione filosofica, in ragione dell'autonomizzazione speculativa». In altre parole, «la critica, da parte di Adorno, della società tardo-capitalista rimaneva astratta e negava l'esigenza di definire una negazione risoluta» - per l'appunto – «di quella categoria dialettica, quindi, a cui sapeva di essere legato dalla tradizione di Hegel e Marx» [*5].

Il testo che qui sotto presentiamo, non va letto tanto come se fosse un documento storico, quanto piuttosto come un esortazione a svolgere una lettura critica della posizione dell'agitatore e teorico Hans-Jürgen Krahl, organizzatore dell'SDS [*6]. Questo testo è il seguito alla sua "Risposta a Jürgen Habermas" [*7], nella quale Krahl esprimeva già in maniera chiara la sua contrapposizione.

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machina

Louis Althusser tra marxismo e marxismi

di Oliviero Calcagno

La «maledizione» di Althusser

0e99dc 2c90089626674fa885607033ea1e3927mv2Secondo la lettura che propongo, nella ormai lunga vicenda dei marxismi (al plurale) non vi è stato autore più frainteso (se non addirittura diffamato) di Althusser. Dal livello più superficiale al più tecnico, se ne trovano varie forme, che è possibile così suddividere:

A) Il pubblico dei semi-colti semplicemente non ne conosce né il nome, né le tesi: di conseguenza, non sa riconoscere tracce della sua elaborazione in autori alla moda. Ciò vale in particolare per quanti di costoro fanno riferimento alla psicoanalisi di Lacan.

B) Il pubblico dei colti, ma non specialisti, ne ha orecchiato il nome, e tuttavia si è abituato a leggere che la sua impresa teorica era finalizzata a costituire una neo-ortodossia marxista. Emblematica per pressappochismo la pagina dedicata su Wikipedia, che recita testualmente: «Nella filosofia, dice Althusser, è necessario ritornare a una prospettiva scientifica e determinista della teoria marxista, contro le interpretazioni e le utilizzazioni umaniste e ideologiche».

C) Il pubblico dei militanti di sinistra lo ha guardato con la diffidenza che si riserva ai teorici chiusi nell’Accademia e perciò incapaci di cogliere gli appuntamenti con la storia. Ed è un fatto che nel maggio francese del ’68 egli non esercitò alcun ruolo (da cui il calembour Althusser à rien, «Althusser non serve a niente»).

D) La comunità di nicchia degli specialisti in scienze sociali ne ha sentito parlare per il suo anti-umanesimo teorico, che è però concetto costitutivamente indigeribile per quelle discipline. D’altra parte, non si può negare che sia stata la moderna centralità antropologica ad aver dato loro origine.

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euronomade

La sovranità: permanenza o ritorno spettrale?

di Giso Amendola

Discutendo P. Dardot, Ch. Laval, Dominer. Enquête sur la souveraineté de l’État en Occident (Paris: 2020. La découverte). La versione inglese di questo articolo è pubblicata in Soft Power. Revista euro-americana de teorìa e historia della politica e del derecho, Issue 17 ( 9,1) – January-June 2022

ph 222 11. La discussione sulla globalizzazione è debitrice, in larga parte, della geografia politica emersa nel mondo occidentale moderno. È la mappa di un mondo ordinato attorno agli stati sovrani, ai loro confini e alle loro relazioni. Il soggetto è lo stato sovrano, che occupa il monopolio della scena: le relazioni internazionali significative sono relazioni interstatuali. Il Nomos della terra di Carl Schmitt è il libro che ha dipinto questa scena con i colori più forti: quel mondo è stato, secondo Schmitt, il vero miracolo dei giuristi. Grazie allo stato e alla sua sovranità, si riusciva a tenere a bada la guerra civile, e allo stesso tempo, ad assicurare un corretto rapporto tra la politica e l’economia. La politica assicurava l’ordine e garantiva al mondo degli interessi economici una relativa indipendenza, offrendogli allo stesso tempo le proprie prestazioni in termini di produzione di ordine, di stabilità e di sicurezza. È un’immagine del mondo idealizzata e costruita su un evidente rimosso coloniale, che del resto proprio nel Nomos Schmitt lascia emergere esplicitamente, nominando le amity lines come confine tra questo nomos ordinato e le terre di conquista. È però l’immagine del mondo a partire dalla quale si è misurata in seguito la rottura prodotta dalla globalizzazione. In breve: l’Economico travolge il Politico con l’esaurirsi della centralità della forma stato. Di qui il problema di ritrovare un ordine possibile, che restauri il primato del Politico sull’Economico; o, al contrario, di proclamare l’estinzione del Politico insieme alla forma Stato, e di assumere l’ordine economico come ordine del mondo.

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machina

Dalla questione meridionale allo Stato-piano. Gramsci e l’operaismo

di Federico Di Blasio

Il testo rilegge la questione meridionale e la rivoluzione passiva gramsciana attraverso il «filtro della soggettivazione» e, nell’assumere il punto di vista dei subalterni, apre all’analisi operaista dello Stato-piano

0e99dc c1e628b150a94045a914b1ed36bd915cmv2Quando il secondo conflitto mondiale giunge a termine, l’Italia è, ancora più di prima, un crocevia di contraddizioni. Il fascismo e la guerra hanno assestato un decisivo fendente a una situazione già ampiamente precaria. La storia del belpaese era d’altronde da lungo tempo una storia fatta di fratture, divisioni interne, spaccature profonde e insanabili.

È in tale contesto storico che va situata, in termini contemporanei, la cosiddetta questione meridionale. Ossia, quel fascio di problemi volto a mettere a fuoco il divario economico, sociale e politico tra Nord e Sud. Di più, si tratta, con la questione meridionale, di tentare di risolvere la vexata quaestio del divario tra Settentrione e Meridione nell’ottica di un superamento dello sviluppo a due velocità tale da aver prodotto, nel corso dello svolgimento della storia del nostro paese, due Italie: la prima sulla via della crescita industriale sulle spalle di una sempre più crescente classe operaia, la seconda degradata e rurale, sorretta da una massa contadino-rurale sotto il giogo di un arcaico blocco agrario.

 

Intellettuali, subalterni e l’economia programmatica nei Quaderni del carcere

Per lungo tempo la Questione meridionale è stata associata al problema dell’alleanza di classe tra classe operaia e contadina e classe borghese riformista e illuminata. Ciò deriva dall’impostazione data da Antonio Gramsci, in un lungo articolo del 1926 dal titolo Note sul problema meridionale e sull’atteggiamento nei suoi confronti dei comunisti, dei socialisti e dei democratici e più comunemente noto come Alcuni temi della questione meridionale.

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conflitti e strategie 2

Un nuovo percorso teorico, di Gianfranco la Grassa*

Introduzione di Gianni Petrosillo

indexouygvbhtIn questo nuovo saggio, il cui titolo è indicativo della direzione intrapresa dallo studioso veneto, Gianfranco La Grassa fa i conti con le epoche, quella passata, quella in corso e quella che irrimediabilmente si avvicina, per fornire una chiave teorica nuova delle inevitabili transizioni e mutazioni che l’incedere della Storia porta con sé, soprattutto a livello sociale. Il suo strumento analitico privilegiato è quel marxismo che, dopo essere stato aggiornato, diventa una porta di uscita verso un nuovo approccio teorico più adatto alla comprensione dell’attuale formazione sociale. Occorre, peraltro, rammentare che La Grassa ha iniziato un faticoso lavoro di revisione teorica ormai trent’anni fa e la sua “uscita” dal marxismo deve pertanto essere considerata una gestazione travagliata che non ha saltato alcun passaggio logico, un raro caso di esame di coscienza fatto per ragioni di scienza.

Purtroppo, l’esistenza umana è troppo breve per cogliere (e spesso accettare) i profondi cambiamenti che inevitabilmente la coinvolgono (e sconvolgono), tanto più che gli accadimenti producono i loro effetti sul lungo periodo, spesso più lungo della vita di una o più generazioni, sfuggendo alla comprensione immediata di chi li vede nascere e non li vedrà giungere alle estreme conseguenze o di chi li sentirà deflagrare senza avere memoria del loro inizio, necessitando, pertanto, per essere intesi interamente di una riflessione “ampia”, utile a mettere insieme i vari frammenti evenemenziali finalizzati alla costruzione di un quadro più o meno coerente della situazione, anche se mai definitivo. Per questo la si deve “prendere alla lontana” altrimenti cause ed effetti sono destinati a essere equivocati o desunti arbitrariamente da stati e fatti troppi vicini o insistentemente fraintesi per essere adeguatamente sceverati e interpretati.

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altraparola

Fantasmi mediatici e voyeurismo di guerra

di Alvise Marin

Ensor2Solo chi la vive sul proprio corpo e nella propria anima, può fare esperienza reale della guerra, ovvero può avere «esperienza diretta del Reale in quanto opposto alla realtà sociale quotidiana»[1]. Un’esperienza lesionante e desertificante, fatta di boati assordanti, dell’incendio e del crollo della propria casa, dell’odore e la vista del sangue di corpi feriti o ammazzati, della fame e della sete, di quel Reale traumatico che venendo prima di qualunque ragione può consegnarci a una follia senza ritorno, della sospensione delle abitudini di vita, della disintegrazione del paesaggio interno ed esterno e della costante sofferenza, legata a una condizione di inermità assoluta e d’incapacità di vedersi proiettati verso un qualsivoglia futuro, inchiodati come si è all’orrore del presente, nel quale spira incontrastato l’alito della morte. Chi invece la osserva al riparo di uno schermo televisivo o di un computer, come noi, ne può fare tutt’alpiù un’esperienza mentale, emotiva, spettacolare ed estetica, avendo sempre ben presente che nessun proiettile potrà colpirci, che nessuna bomba potrà far saltare in aria la nostra casa, che la nostra vita non è in pericolo e che dunque non saremo mai coinvolti realmente in quegli eventi. Davanti ad uno schermo non possiamo fare alcuna esperienza reale di quanto vediamo, perché quest’ultima è possibile sempre e solo a partire dal preciso punto (punctum) nello spazio e nel tempo, in cui si colloca il nostro corpo, e non attraverso una visione ubiquitaria e un tempo reversibile, come quello proprio dei media.

L’esperienza della guerra coinvolge corpi e menti nell’hic et nunc nel quale si svolge, laddove invece il mezzo televisivo, fin dalla sua comparsa e oggi, a fortiori, i nuovi media, abolendo quei limiti a cui è vincolato il corpo umano, trasportano lo spettatore in luoghi lontani nel tempo e nello spazio, facendolo anche assistere ad eventi invisibili a occhio nudo.

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blackblog

I demoni si risvegliano

di Robert Kurz

Il testo che segue - "I demoni si risvegliano" ["Die Dämonen erwachen"] - è una traduzione dell'ultimo capitolo del libro Schwarzbuch Kapitalismus: Ein Abgesang auf die Marktwirtschaft (“Il libro nero del capitalismo: un canto del cigno per l'economia di mercato”). Come indicato dal sottotitolo, il libro è una storia critica del capitalismo proprio nel momento in cui il sistema sta affrontando il suo collasso storico]

libroneroIl capitalismo è arrivato alla fine del suo volo cieco attraverso la storia; ora può solo distruggersi. Ma quanto più appare innegabile che l'umanità non può continuare a riprodursi secondo le modalità della "bella macchina" e di quel suo unico movimento tautologico fine a sé stesso, tanto più si indurisce quella che è la forma della coscienza capitalista. La crisi mondiale della Terza rivoluzione industriale, ormai non riesce più a trovare alcun progetto emancipatorio da mobilitare come alternativa sociale. In genere, la critica radicale del capitalismo viene considerata come se fosse solo uno strano anacronismo, e ciò perché nella coscienza sociale - sia dell'«uomo della strada» che nella letteratura delle scienze sociali – essa viene identificata solo con il paradigma museale, irrimediabilmente obsoleto, del movimento operaio, il quale in realtà è sempre rimasto immanente al sistema. In tal modo, la riflessione teorica scompare completamente dalla sfera pubblica capitalista, sostituita in maniera superficiale da una cultura fatta di interessi mediatici autoreferenziali, che si preoccupa solo di attrarre l'attenzione: la "teoria" si presenta così come un'impresa commerciale come tutte le altre. Ma il ludico culturalismo postmoderno, che continua a ridefinire la povertà quasi come un travestimento, e l'umiliazione sociale come un gioco, è solo un evento superficiale sotto il quale si agita già qualcosa di molto diverso.

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tempofertile

Vincenzo Costa, “Elite e populismo. La democrazia nel mondo della vita”

di Alessandro Visalli

competenzahhuIl libro di Vincenzo Costa[1] è stato scritto immediatamente a ridosso del ciclo di successi elettorali ‘populisti’ del 2016-18 e si pone il problema di fornire gli strumenti intellettuali per giudicare quel che accade in quel torno di anni che seguono la crisi del 2008 (la quale in Europa manifesta i suoi effetti maggiori solo dopo la crisi greca e quindi dal 2010), con gli effetti economici e sociali dell’austerità, la critica dell’Unione Europea e dell’Euro, il distacco delle classi medie dal consenso verso quelle che saranno qui chiamate “le élites”. Pur nella sua agilità, un testo di circa centocinquanta pagine, il libro individua un percorso teorico semplice e chiaro: la democrazia è un progetto sempre a venire, una ‘riserva attiva del possibile’, ma viene ridefinita dalla cultura liberale alla quale le sinistre si sono arrese come dispositivo istituzionale e legale che resta indifferente alle vite concrete e punta piuttosto a governarle attraverso le élite. Nel ‘divenire inutile della sinistra’ l’opposizione che si manifesta a questo progetto di disattivazione e gerarchizzazione è quella tra élites e ‘moltitudini’. In questa opposizione si apre un bivio: o la risposta ai meccanismi sociali e discorsivi che costituiscono le élite ed escludono avviene in modo reattivo, egemonizzata dai ‘senza-potere’ e dalle classi medie déclassé[2], e si ha il ‘populismo’. Oppure intorno ad un progetto che articola le premesse antepredicative dei “mondi vitali” allargati, e non solo relativi alle ‘classi medie’, si determina la costruzione di “popolo” che muove dall’esigenza di giustizia e ottiene la riconnessione delle élite con questi; e allora si ha ‘democrazia popolare’.

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machina

Lottando per diventare come Dio

Note sulla teologia politica a partire dal pensiero di Thomas Müntzer

di Gabriele Fadini

0e99dc 249e535636bc44a6b4a30febc6225483mv2Thomas Müntzer è una figura straordinariamente affascinante ed evocativa, spesso condensata in quell’affermazione «omnia sunt communia» che è stata importante nell’immaginario dei movimenti contemporanei. In questo articolo Gabriele Fadini propone l’ipotesi che l’attualità del pensiero e della vicenda di Müntzer consista nel contributo che tale pensiero può portare alla questione della teologia politica. È una «trascendenza senza trascendenza», che per Müntzer non ha come modello né il pensiero immanente che in essa vedrebbe Engels né una semplice filosofia della storia, ma a tutti gli effetti una «teologia della rivoluzione». Attraverso questo percorso di lettura, l’autore sostiene che la teologia politica, per come si sviluppa nel pensiero di Müntzer, non è solo una branchia della teologia ma il riflesso di ogni evento storico poiché in grado di coglierne il dato universale e quello particolare, il singolo e il molteplice, l’eternità e la temporalità.

* * * *

Ogni qual volta ci si occupa di autori o correnti di pensiero molto indietro nel tempo è quasi un dovere porsi la domanda se ciò che si sta studiando possa essere considerato ancora attuale e, se sì, di che tipo di attualità si tratti.

In La politica al tramonto, Mario Tronti inscrive Thomas Müntzer nella faccia nascosta, minoritaria, marginale ed eretica della politica moderna e in quella tradizione che legge il messianismo non in termini extramondani, ma in termini politici aventi un rapporto diretto con l’esegesi rivoluzionaria, con l’escatologia terrena di un al di là mondano. Un messianismo politico, dunque, che è racconto non della fine del mondo ma della mano sovversiva di Dio sulla e nella storia per ribaltarne il corso e in cui finalmente il braccio potente del Magnificat veramente innalza gli umili e abbassa i potenti [1].

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marxismoggi

Capitale e natura. Dai “sapiens” al critico dominio del dollaro

di Carla Filosa

rapporto ambienteUnità di natura e modo di produzione storico

Un nuovo libro intitolato “Noi siamo natura” di Gianfranco Bologna, Edizioni Ambiente, sembra proporre un’ottica di cultura al servizio dell’azione a difesa dell’ambiente, senza avere più molto tempo per attardarsi. Ciò premesso, come possibile indicazione di riferimento di recentissima stesura, per affrontare il problema climatico che oggi mostra aspetti disastrosi già parzialmente visibili, si propone di considerare i cambiamenti climatici naturali separatamente da quelli determinati dalle attività umane. Questo per concentrarsi sui mutamenti, non da un punto di vista tecnico da demandare agli esperti del settore, ma da un punto di vista sia proprio della natura sia sociale e storico.

È bene rammentare che sul riscaldamento climatico (Global Warming), e non solo, si fa qui riferimento alle analisi effettuate sin dagli anni ’50 dall’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), quale massimo consesso mondiale di esperti sul clima. Al contrario, non si intende prendere nemmeno in considerazione le tesi relative all’“allarmismo climatico”, volte a minimizzare le rilevazioni scientifiche che potrebbero compromettere la regolare continuità delle incidenze umane. Queste sono infatti considerate altamente probabili – la cui possibilità è data al 95-100% - su un riscaldamento dell’atmosfera terrestre e degli oceani, che comporterebbe disastri quali scioglimento di nevi e ghiacci con conseguente innalzamento dei mari, pericolo per gli insediamenti umani sulle coste delle terre emerse, concentrazione di gas serra tra cui soprattutto CO2, ecc.

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Neoliberismo e anarcocapitalismo

di Antonio Minaldi

Il valore e i prezzi, una disputa tra classici e neo classici. Dall'homo oeconomicus all'homo naturalis. Le aporie del sistema e le soluzioni immaginate (ed immaginarie)

murale napoli 1 355x480Il tema della libertà è l’orgoglio e la croce dell’Occidente. Ideale motore propulsivo di rivoluzioni e grandi conquiste popolari lungo una storia ormai ultrasecolare, ma anche madre di tutti gli inganni imperiali e imperialisti del capitalismo ultraliberista che in nome suo, e di sua sorella la democrazia, non si fa problema di portare rapina, guerra e distruzione in giro per il mondo. Questo ingannevole e improprio sposalizio tra libertà e capitalismo trova oggi una sua, poco nota ma fortemente significativa manifestazione nelle ideologie libertarian statunitensi e specificatamente nell’anarco capitalismo. Un movimento composito e complesso, che al di là di differenze e diatribe interne, si costituisce, nella generalità delle sue manifestazioni, intorno alla centralità che assume, per i suoi teorici, l’idea della assoluta libertà che gli individui godono (o dovrebbero godere) nel mercato, e che, come sappiamo, viene presupposta come portatrice di benessere e progresso, grazie alle capacità auto regolative dello stesso mercato, secondo la famosa ipotesi della “mano invisibile” di Smith.

Ebbene secondo libertariani e anarco capitalisti, questo miracoloso percorso capace di produrre il bene comune partendo dall’individualismo egoistico, non deve essere relegato al solo scambio mercantile, ma deve essere posto alla base di qualunque tipo di relazione umana e sociale. La conseguenza sarà l’estinguersi dello Stato e di qualunque forma di potere pubblico, in una società che si autoregola attraverso la proprietà privata di ogni tipo di bene immaginabile, e dunque sul libero gioco competitivo di cittadini portatori di interessi proprietari, personali e particolari.