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paroleecose2

Althusser e la lepre. Strutture della crisi climatica e pratica politica ecologista

di Camillo Chiappino

althusser.jpgSpiazzamento, sporgenza ed epistemologia

La forza della riflessione di Althusser[1] è la sua capacità di sporgenza. A dircelo è Balibar, la stella più fedele di quella formidabile costellazione[2] che fu il circolo di allievi che, negli anni ’60, si riunì intorno al maestro Althusser per rileggere e rinnovare la lettura di Marx. Nel 1996, introducendo la nuova edizione in lingua francese di Per Marx, Balibar avverte di non farsi ingannare dalla forma del testo. Pur trattandosi di una riproposizione di alcuni interventi che Althusser aveva già redatto tra il 1960 e il 1965, la scelta di articolarli insieme in una forma unitaria fece di Per Marx una vera e proprio opera, un libro filosofico a tutti gli effetti. Filosofico: perché esce in un periodo in cui la filosofia cambia stile in quanto <<attraverso la storia e l’antropologia, la psicanalisi e la politica, la filosofia si confronta più intensamente di prima con il suo esterno, il suo inconscio, la non-filosofia>>. Un libro: perché non si trattò soltanto di attingere alla verità autentica di Marx (l’esegesi), ma di lavorare su Marx per produrre <<una straordinaria costellazione di strumenti concettuali>>. Forse rischiando di far dire a Marx qualcosa che non aveva pensato, ma comunque aprendo <<alla possibilità di esportare le nozioni e le questioni presenti in Marx all’intero campo dell’epistemologia, della politica e della metafisica>>[3]. Vista dal punto di vista della congiuntura attuale, in cui la crisi climatica come contraddizione tra società umana ed equilibri non umani è lo sfondo su cui si proiettano, innescano e giustappongono crisi sociali ed economiche, dell’immunizzazione biologica e belliche, ecc., rileggere Althusser è, in primo luogo, ripeterne l’atteggiamento filosofico secondo cui la produzione di concetti è un lavoro di sconfinamento tra diversi saperi – nel suo caso la filosofia, la psicoanalisi, la storia della scienza, la critica dell’economia politica – proprio perché siamo di fronte a ordini di problemi in cui la teoria filosofica troppe volte, per dirla con Kant, cade in uno stato di minorità, sia che si tratti di epidemie, sia che si tratti di equilibri ecosistemici.

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scenari

Poetica dell’essere vero: metafisica dei costumi

di Toni Negri

Toni Negri è stato tante cose. Tra queste – tra l’operaismo e la militanza politica – è stato, forse in maniera più silenziosa, un lucidissimo studioso di Leopardi. Su Scenari, vogliamo ricordarlo con un estratto di Lenta Ginestra*. Saggio sull’ontologia di Giacomo Leopardi, opera monumentale che ha aperto nuove prospettive sull’intero corpus leopardiano.

copertina lenta ginestra scenari 1062x480.jpeg“Non cerco altro più fuorché il vero, che ho già tanto odiato e detestato. Mi compiaccio di sempre meglio scoprire e toccar con mano la miseria degli uomini e delle cose, e d’inorridire freddamente, speculando quest’arcano infelice e terribile della vita dell’universo” [1]. È questo un programma filosofico? Taluno ha insistito a dismisura su questo e analoghi passi leopardiani. Una volta, Leopardi e Schopenhauer, era lo stereotipo che si usava per liquidare la portata sovversiva della critica leopardiana [2]. Ora la moda è cambiata: Leopardi e Kafka per qualche altro menagramo… [3] Leopardi, ovvero il grande vinto, il pessimismo cosmico, ecc. Nulla di meno vero.

Questo andare di citazione in citazione, scegliendo le più disperate e tirandone conclusioni definitorie, è solo un malvezzo: d’altra parte Schopenhauer e Kafka hanno la loro propria grandezza e non si comprende davvero come possano essere chiusi nella fattispecie leopardiana. Niente in Leopardi c’è della schopenhaueriana fenomenologica progressiva teologia del nulla e tanto meno il gusto, affatto dialettico, della negazione e della devoluzione della realtà nelle figure dell’evanescenza l’uomo “vede, ovunque guardi, la sofferente umanità e la sofferente animalità e un mondo evanescente”, non gli basta più quindi “amare gli altri come se stesso e fare per essi quanto fa per sé; ma sorge in lui un orrore per l’essere di cui è espressione il suo proprio fenomeno, per la sua volontà di vivere, per il nocciolo e l’essenza di quel mondo riconosciuto pieno di dolore”[4]: in Leopardi il reale è sempre fuori discussione e lo sfondo del suo materialismo è irriducibile. Né di Kafka vi sono in Leopardi l’allucinazione, una gnoseologia machiana: “nel mondo di Babele c’è come un’asfissia della parola” – poi quella kafkiana, appunto, fenomenistica analitica della psiche: “una fine apparente causa un dolore reale” [5]; in Leopardi la psiche è continuamente riportata al meccanismo del senso – e si fonda e si ricostruisce materialmente.

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coku

Operaio Sociale. Hans Jürgen Krahl

di Leo Essen

krahl 1220x600.jpgI

La malinconia di molti marxisti cosiddetti occidentali, malinconia dovuta alla scoperta che nell’Unione Sovietica il comunismo non si era avverato di botto, portò a un’avversione per l’Economico che ancora alla fine degli anni Sessanta, in una persona come Krahl, non accennava a passare.

In una notarella al Che Fare?, scritta nel 1967, all’età di 24 anni, il brillante marxista tedesco, cresciuto all’ombra di Adorno, scrive quanto segue: La prassi economicista rinuncia alla sovversione e alla rivoluzione, si schiera con la riforma. La prassi economica comprende la sola attività tradunionista. La lotta meramente economica integra le masse nei rapporti di dominio economico e le costringe all’apatia.

Nonostante le analisi di primo livello, analisi che in molti punti sono in linea, per esempio, con la decostruzione francese, segno dalla magna cucuzza del ragazzo; nonostante una lettura precisa del suo tempo, Krahl subisce il fascino di quella malinconia che aveva preso le menti di quei marxisti, i quali, per età, avevano vissuto direttamente la delusione sovietica.

Non c’era bisogno che Krahl (insieme ad altri, certamente) gettasse questo discredito sull’Economico spingendo molti marxista a perdere tempo sul Politico e sul Concetto di politico – sull’autonomia del politico, eccetera.

Rimane che il suo contributo, seppur frammentario, è di primissimo livello.

 

II

Nel 1969, in un saggio pubblicato su Corrispondenza Socialista, Krahl insiste su questo tema.

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lanatra di vaucan

Noterelle sul concetto di “capitale” in Thomas Piketty, o meglio sulla sua assenza

di Clément Homs

Piketti.jpgPremesse del traduttore

Questi brevissimi appunti a firma del compagno Homs, animatore in Francia delle edizioni Crise&Critique e dell’omonimo gruppo ruotante attorno alla “Critica del valore” (Wertkritik), mettono in luce i grossi limiti di base delle analisi di Thomas Piketty, economista, accademico e autore di bestseller francese. Eppure c’è dell’altro. Infatti ci danno l’opportunità di chiarire un concetto marxiano imprescindibile – tanto quanto l’aria che si respira per vivere – ma che viene sempre più a mancare nelle premesse delle critiche che si vogliono radicali – proprio come l’aria che diviene irrespirabile nella tossicità e nell’inquinamento dei nostri contesti sempre più invivibili. Tale premessa è che il “capitale” non è una “cosa” ma un “rapporto sociale”. Homs dimostra come, mancando questo cominciamento, Piketty (che, pover’uomo, non è né il primo né sarà l’ultimo) caschi puntualmente in letture monche e nell’utilizzo aspecifico e astorico delle categorie costitutive e generalizzate del modo di produzione capitalistico. Eppure i pochi osservatori italiani che hanno dato una breve sbirciata al castello teorico della “Critica del valore” sono arrivati alla medesima conclusione: questa corrente di pensiero “cosifica” il “capitale” perdendosi per strada il fatto che si tratti di un “rapporto sociale”. Così, per esempio, l’economista Bellofiore scrive che “in Postone e in Kurz l’accento è, unilateralmente, sul solo Capitale come Feticcio, che si fa Soggetto Automatico, e non (anche) sul capitale come relazione, come rapporto sociale, da cui quel feticcio emerge”1; il sociologo Sivini, allo stesso titolo, scrive che “per la Critica del valore, invece, il capitale non è un rapporto sociale; è – un altro modo di interpretare Marx – il soggetto automatico che presiede all’accumulazione”2La “Critica del valore” rimprovererebbe ad altri un limite che conterrebbe essa stessa in nuce? Il bue che dà del cornuto all’asino?

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lafionda

Contro “Impero”

di Onofrio Romano

malevich.jpgRicordiamo la figura complessa e sfaccettata di Toni Negri attraverso questo saggio-recensione di “Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione” (pubblicato da Harvard University Press e poi in lingua italiana da Rizzoli) con cui il filosofo e politico padovano, col sodale Michael Hardt, dopo le note vicende giudiziarie e l’esilio, tornò alla ribalta della scena intellettuale e politica internazionale.

* * * *

1. “Oppresso politicamente, dipendente e sfruttato fino al midollo economicamente, questo è l’aspetto generale dell’uomo, soprattutto dell’uomo che lavora in questa società. Su di esso gravano lo Stato, la chiesa, il proprietario, le istituzioni di ogni genere al loro servizio, l’ideologia, le usanze e le tradizioni che lo rendono schiavo e che si adoperano a stordirlo nella mente e nell’animo per tenerlo lontano dalla vera via della rivoluzione (…) Il socialismo emancipa l’uomo in tutti i sensi, gli consente di manifestare liberamente e con forza tutte le energie e tutti i potenziali umani, tutte le capacità e tutti talenti (…)”

2. “(…) Noi lottiamo in quanto crediamo che il desiderio non abbia limiti e che la vita possa ininterrottamente riprodursi e godere nella libertà e nell’uguaglianza (…) Il modo di produzione della moltitudine è contro lo sfruttamento in nome del lavoro, contro la proprietà in nome della cooperazione, e contro la corruzione in nome della libertà. Esso autovalorizza i corpi che si trovano al lavoro, si riappropria dell’intelligenza produttiva con la cooperazione e trasforma l’esistenza in esperienza di libertà.”

Il mondo è ingiusto. Gli autori dei due pezzi affermano le stesse cose, condividono la medesima visione, stanno all’evidenza dentro un paradigma unico. Eppure, i primi sono nella polvere, i secondi sugli altari. Dei primi si sono perse le tracce, sui secondi è tutto un pullulare di riflessioni, recensioni, dibattiti, assemblee, lezioni, seminari di approfondimento, ecc.

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Costituzione e politica economica

di Alessandro Volponi*

costituzione italiana.jpgÈ possibile desumere dal testo della Costituzione i lineamenti generali della politica economica che ogni governo della Repubblica dovrebbe perseguire? Lineamenti generali ovviamente e non un articolato complesso di provvedimenti e atti valido per tutte le stagioni, per ogni fase del ciclo economico, per ogni grado dello sviluppo. Cercherò di mostrare che è possibile, anzi necessario, solo dopo avere esaminato alcuni articoli che precedono il titolo III della prima parte della Costituzione (Rapporti economici) e che determinano, nell’insieme, una notevole espansione della spesa pubblica: l’art. 7 che costituzionalizza gli onerosi patti lateranensi; l’art. 9 che impegna i governi a promuovere lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica, a tutelare ambiente e patrimonio storico e artistico; l’art. 10 che prevede il diritto d’asilo; l’art. 24 III comma che garantisce i mezzi per agire o difendersi davanti a ogni giurisdizione ai non abbienti; l’art. 28 che estende allo Stato la responsabilità civile per atti compiuti in violazione di diritti da dipendenti dello Stato; l’art. 30 comma II che impone allo Stato il mantenimento dei figli in caso di incapacità dei genitori; l’art. 31 che assicura misure economiche per la formazione della famiglia e protezione per la maternità, l’infanzia e la gioventù; l’art. 32 che fonda il diritto alla salute e garantisce cure gratuite agli indigenti (già molto numerosi si erano moltiplicati nel corso della guerra); l’art. 34 che stabilisce l’istruzione obbligatoria e gratuita, almeno per otto anni, in un paese ancora afflitto da analfabetismo e semianalfabetismo di massa e che dispone inoltre borse di studio per i capaci e meritevoli che vogliano raggiungere i gradi più alti degli studi; l’art. 35 I comma che impegna lo Stato a curare la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori; l’art. 37 I comma che assicura alla madre lavoratrice una speciale adeguata protezione; l’art. 38 che istituisce il diritto al mantenimento degli inabili al lavoro, il diritto dei lavoratori ai mezzi per vivere in caso di infortunio, malattia, invalidità, vecchiaia e disoccupazione involontaria, infine il diritto dei minorati all’educazione e all’avviamento professionale.

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lafionda

Vincenzo Costa, Categorie della politica. Dopo Destra e Sinistra

di Giulio Menegoni

astrattodcieg.jpg“La Pace è finita” titola un fortunato saggio di L. Caracciolo recentemente pubblicato. La Storia si è rimessa in moto ed è appena il caso di starne al passo, se non si vuole esserne travolti. Ma il passo, per muoversi, ha da superare l’inciampo. La pietra che gli vieta la via. Il laccio che lo trattiene. Nulla si muove da sé, nessun ostacolo si toglie senza resistenza. Un vecchio ordine deve cadere affinché uno nuovo possa apparire.

Nel solco di questa titanica impresa si situa il saggio di Vincenzo Costa (Categorie della Politica. Dopo Destra e Sinistra, Rogas Edizioni, 2023) che qui presentiamo. L’autore, docente di Filosofia Teoretica presso l’Università Vita-Salute di Milano, non nasconde a sé e al lettore l’alta finalità e l’improbo obiettivo del testo. Si tratta, infatti, di «iniziare a sgomberare il campo da un ordine concettuale» (cit.), il pensiero binario, soprattutto quello che irretisce la sovrabbondanza del politico nelle maglie strette della diade Destra/Sinistra, vera e propria superfetazione retorica a uso e consumo delle classi dominanti, dispositivo di riproduzione del dominio trasversale del mercato contro ogni altro interesse. Nel caso specifico, la Diade Destra/Sinistra va superata, afferma Costa, «perché non rispecchia l’articolazione dell’esperienza, la sovrascrive e le toglie la parola» (cit.). Ma lo scopo del saggio è ben più ampio di questa singola rimozione, e infatti l’Autore invita con forza a «lasciarsi alle spalle l’organizzazione binaria che caratterizza il pensiero politico della modernità» (cit.) in senso globale. Non si tratta, infatti, di operare per sostituzione, optando per una diade migliore (popolo/elites; basso/alto) – azione a cui peraltro molta letteratura critica si è dedicata negli ultimi anni.

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latradizionelibert.png

Marx, Bakunin e la questione dell'autoritarismo

di David Adam

ob da6710 marx bakunin.jpgLa critica di Bakunin alle propensioni “autoritarie” di Marx ha determinato la tendenza a lasciare in ombra la critica di Marx alle intenzioni “autoritarie” di Bakunin. Ciò è dovuto in gran parte al fatto che le correnti principali dell'anarchismo e del marxismo sono state attratte da un mito – quello della statolatria “autoritaria” di Marx – condiviso da entrambe. Pertanto il conflitto nella Prima Internazionale è direttamente attribuito a un disaccordo riguardo i principi antiautoritari e si afferma che l'ostilità di Marx nei confronti di Bakunin ha origine nella sua ripulsa di tali principi, nel suo avanguardismo, ecc. L'anarchismo, non senza ragione, si pone come l’alternativa “libertaria” all'"autoritarismo" del marxismo ufficiale. Perciò nulla di più facile che considerare la celebre diatriba tra i due teorici pionieri di questi movimenti - Bakunin e Marx - come un conflitto tra libertà assoluta e autoritarismo. Questo saggio intende mettere in discussione tale narrazione. Esso non metterà in pratica questo intendimento mediante solenni dichiarazioni intorno all'anarchismo e il marxismo considerati astrattamente, ma semplicemente raccogliendo alcuni fatti sovente trascurati. Le idee di Bakunin intorno all'organizzazione rivoluzionaria costituiscono il cuore di questa indagine.

* * * *

Filosofia politica

Inizieremo rivolgendo l'attenzione ad alcune differenze in teoria politica tra Marx e Bakunin che ci permetteranno di comprendere le loro polemiche riguardo il tema dell'organizzazione. Marx criticava in primo luogo e soprattutto ciò che considerava una versione aggiornata della posizione dottrinaria di Proudhon verso la politica – l'idea che ogni potere politico sia antitetico rispetto alla libertà.

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machina

Esiste davvero la velocità della luce?

Considerazioni sulla capacità della fisica di distinguere tra parole e cose

di Franco Piperno

Schermata del 2023 11 29 15 34 32.pngUn testo di Franco Piperno, pensato originariamente per la Scuola di Dottorato «Archimede» e per il Dottorato in Filosofia dell'Unical.

«Riuscire a districare il reale dal linguistico, le cose dalle parole è un obiettivo importante per possedere a pieno i fondamenti logici della teoria relativistica e potere eventualmente superarne i limiti e le contraddizioni. Purtroppo questa attenzione critica agli aspetti semantici della teoria – quelli che la mettono in comunicazione con il senso comune — difetta in generale tanto nei testi quanto nelle lezioni e nei seminari universitari. Da questo punto di vista, sembra essenziale che per quanto riguarda i fondamentali della disciplina, non ci si limiti ai manuali ma si favorisca la lettura degli scritti originari, quelli che hanno determinato le rotture epistemologiche nella storia della fisica».

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Introduzione - Velocità versus tempo. Dal tempo assoluto di Newton alla velocità assoluta di Einstein

 

I) Introduzione.

Il concetto di simultaneità costituisce la chiave di volta della relatività speciale. I famosi effetti di contrazione delle lunghezze e dilatazione dei tempi riposano interamente sulla relatività della simultaneità.

All’età di sedici anni, Einstein, come racconta nelle sue Note autobiografiche, aveva avvertito una certa inquietudine davanti al ruolo che svolge la velocità della luce nell’elettromagnetismo; ma solo cinque anni più tardi aveva trovato un modo di trattare la questione ricorrendo al concetto di simultaneità.

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iltascabile

Numeri e forme

di Nicola Pinzani*

Il rapporto profondo tra algebra e geometria ne Il Teorema di Pitagora di Paolo Zellini

Proof of the Pythagorean Theorem di Crockett Johnson.jpgL’area del quadrato costruito sull’ipotenusa è uguale alla somma delle aree dei quadrati costruiti sui cateti. Rappresentato dalla celeberrima raffigurazione di quadrati, cateti e ipotenuse, il teorema fluttua come una sentenza sui quaderni e sulle lavagne di tutto il mondo. È diventato simbolo di un metodo, di un canone che dà importanza all’insegnamento dei fondamenti di una comprensione intuitiva dello spazio. Una parte esoterica dell’apprendimento, condivisione di antichi saperi silenziosi, ora praticamente muti nella loro stasi formale. Questa singolarità lapidaria diventa pretesto, più che vero protagonista, di un discorso che, nell’ultimo libro di Paolo Zellini, Il Teorema di Pitagora (Adelphi, 2023), attraversa millenni di storia del pensiero geometrico.

Non è facile accontentare lettori bulimici di dati, storie e fatti; i teoremi non se ne nutrono e non ne vengono nutriti, e raramente diventano argomento esplicito di discussione. Queste ambigue pietre miliari del pensiero non si possono comprendere esclusivamente nella loro veste formale, ma devono essere inserite e interpretate all’interno di canoni che appartengono all’arcaicità, a dimensioni che in virtù della loro estraneità temporale coinvolgono l’intera forma del pensiero.

Zellini è professore ordinario di analisi numerica all’Università di Roma Tor Vergata. La sua carriera accademica si muove all’interno dei confini dell’algebra lineare e dell’ottimizzazione numerica: discipline che sembrano stridere con l’afflato letterario della sua scrittura. È solo un pregiudizio, così come è un pregiudizio quello che porta molti scienziati a credere che solamente la matematica cosiddetta “pura” possa, con parsimonia, adornarsi di strappi nel tessuto formale, fenditure attraverso le quali intravedere una luce diversa dal caustico bagliore del formalismo.

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antropocene

Il “Karl Korsch” di Giorgio Amico

Sulle opportunità di un nuovo dibattito "korschiano"

di Afshin Kaveh

Giorgio Amico: Karl Korsch. Dal consiliarismo al marxismo critico, Massari Editore, 2023

2014738065 1Giurista, filosofo, rivoluzionario di professione, ministro, cospiratore, soldato valoroso, pacifista coerente, Karl Korsch è stato tutto questo e molto di più. Amico personale di Amadeo Bordiga e di Bertold Brecht, ispiratore della Scuola di Francoforte, compagno di studi di Kurt Lewin, avversario di Stalin - Korsch ha segnato in molti modi la storia del Novecento.

* * * *

I

Nulla da togliere alle personalità che, più di cinquant’anni fa, hanno ruotato attorno alla presentazione e discussione critica delle prime edizioni italiane delle opere di Karl Korsch – tra gli altri, Colletti, Rusconi, Perlini e Vacca –, ma è sempre stata evidente la mancanza di uno studio serio che, tirando le somme, riuscisse a collocare Korsch nel suo contesto storico, di modo poi da poterlo proiettare e restituire a noi. Che quei contributi accumulati e invecchiati di cinque decenni, tra articoli in dotti volumi, introduzioni, prefazioni, saggi originali e brevi studi particolari, non soddisfino pienamente l’esigenza di cedere al signor Korsch il posto e lo spazio che merita nel contesto della critica radicale, non è di certo data dal tempo, il quale scorrendo come base naturale ha fatto decadere nel dimenticatoio la grande maggioranza di quegli scritti, se non proprio tutti. Il vero problema è stato il vuoto costituito dalla mancanza nel contesto nostrano di un interesse e di un dibattito serio su Korsch da una parte, e dall’assenza di un’opera realmente complessiva ed esauriente sulla sua vita e sul suo pensiero dall’altra.

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paroleecose2

Dalla parte di Nebogatov. Il tranello della geopolitica e il degrado del dibattito sulla guerra

di Jacopo Lorenzini

007E1408 4DFF 413A B557 9951F7234B62 e1698913565869.jpegNel 1936 lo scrittore tedesco Frank Thiess dà alle stampe un libro destinato ad una duratura fortuna editoriale. Si intitola Tsushima. Il romanzo di una guerra navale. Nelle pagine della sua opera (un romanzo basato su fonti storiche rigorose, prototipo di un genere che proprio oggi conosce una rigogliosa fioritura) Thiess narra della disastrosa spedizione della Flotta russa del Baltico attorno al Capo di Buona Speranza per andare a combattere la flotta giapponese nelle acque dello Stretto di Corea: una spedizione conclusasi con la disfatta di Tsushima, appunto, e con l’umiliazione dell’Impero zarista nella guerra russo-giapponese del 1905.

Ma Thiess trasforma la storia di quello che è stato senza dubbio un disastro politico e militare, in una narrazione epica. Una narrazione che conosce solo eroi, sia tra i marinai russi che tra quelli giapponesi, tutti egualmente degni di rappresentare «il più puro spirito militare». Tutti tranne uno: il contrammiraglio Nikolaj Ivanovič Nebogatov.

Nebogatov è il comandante del terzo squadrone della flotta russa. Il suo contingente è composto da quattro vecchie corazzate, tre delle quali sono unità adatte a malapena per la difesa costiera. Sono navi tecnicamente superate, che lo stesso comandante in capo Rozhestvenskiy considera d’impaccio per il resto della flotta. Durante la battaglia di Tsushima lo squadrone di Nebogatov viene sostanzialmente ignorato dagli ammiragli giapponesi, che condividono la valutazione del collega russo e che lo lasciano da parte, concentrandosi piuttosto sulla distruzione delle più moderne corazzate avversarie.

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perunsocialismodelXXI

L’enigma del "miracolo" cinese e la necessità di ridefinire il concetto di socialismo

di Carlo Formenti

9788892140318 0 536 0 75.jpeg1. L’intuizione di Arrighi.

Nel secondo volume di Guerra e rivoluzione (1) intitolato “Elogio dei socialismi imperfetti”, mi occupo ampiamente del caso Cina (Cap. I) e delle rivoluzioni bolivariane in America Latina (Cap. III). Qui torno esclusivamente sulla questione cinese, perché un'analisi comparativa con altre esperienze, passate e attuali, richiederebbe molto più spazio. Dal titolo appena citato è evidente quale sia il mio giudizio nei confronti delle esperienze trattate in quelle pagine: contrariamente alla maggioranza degli intellettuali marxisti occidentali, per tacere degli autori genericamente “di sinistra”, i quali blaterano di capitalismo di stato o, nella migliore delle ipotesi, di tentativi più o meno riusciti di emancipazione dal dominio neocoloniale, ritengo che si tratti di rivoluzioni antimperialiste che hanno imboccato la strada della transizione al socialismo.

Attenendomi alla sola Cina, questo giudizio si fonda su una serie di dati di fatto di cui mi limito a elencare qui di seguito i più significativi: anche dopo le riforme degli anni Settanta, i settori strategici dell’economia (sia in campo industriale che in campo finanziario) sono rimasti sotto il controllo politico dello stato/partito; l’agricoltura è stata (parzialmente) liberalizzata ma non privatizzata; gli investimenti stranieri vengono utilizzati per accelerare lo sviluppo tecnologico e scientifico oltre che economico, senza permettere che influiscano sugli equilibri generali del sistema; gli investimenti diretti all’estero sono finalizzati a favorire lo sviluppo dei Paesi beneficiari e non a sottoporli al ricatto dell’economia del debito (una logica opposta a quella degli investimenti occidentali); i tentativi della borghesia nazionale di trasformare il proprio potere economico in potere politico vengono stroncati; lo straordinario successo economico, che in una prima fase ha imposto pesanti sacrifici alle classi lavoratrici, è stato successivamente utilizzato per riscattare centinaia di milioni di cittadini dalla povertà assoluta, elevare i salari operai e i redditi contadini, migliorare le condizioni di vita e di lavoro delle masse e spostare progressivamente il motore dello sviluppo dalle esportazioni ai consumi interni; infine questo rapido e tumultuoso processo di trasformazione socioeconomica non si è accompagnato – come auspicato dalle élite occidentali – a una evoluzione in senso liberal-democratico del sistema politico, ma ha mantenuto la barra del timone verso l’obiettivo di realizzare nuove forme di democrazia popolare (2).

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pierluigifagan

Il neo-nazionalismo morale occidentale

di Pierluigi Fagan

www.nelfuturo.jpegL’argomento è complicato e si debbono usare termini carichi di stratificazioni storiche e ideologiche, termini spesso imprecisi che coltivano fraintendimenti, lo spazio è breve e le mie capacità limitate, tuttavia sento l’esigenza forte di trattarlo ugualmente. Partiamo dalla presentazione della tesi: in Occidente, si va formando un sentimento identitario di appartenenza meta-nazionale, basato sulla superiorità morale. Trattiamo qui Occidente come una macro-nazione coincidente nei bordi con la sua definizione di civiltà. Civiltà, tuttavia, è una definizione storico-analitica, nessuno ha mai provato sentimenti per l’appartenenza a una civiltà, a una “nazione” sì.

Il concetto di nazione (o il precedente “popolo”) ha dato storicamente vita a due sentimenti, uno debole come auto-identificazione di appartenenza, l’altro forte come ideologia che dal difensivo (noi siamo diversi da loro) passa facilmente all’offensivo (noi siamo superiori a loro e abbiamo diritti su di loro in base a tale superiorità). Da coloro che partono dal “sangue comune” fino a chi pensa che il concetto di nazione sia una pura tradizione inventata, c’è un ampio dispiegarsi di posizioni. Mondato il concetto di ogni sentimento e ideologia, di per sé, si possono rinvenire gruppi umani che hanno una certa coerenza interna più di quanto il loro stare assieme abbia con l’esterno. Se li analizzate stando al loro interno e rivolgendovi a questo, sembreranno anche troppo vari e disomogenei per ritenere il concetto sostenibile. Se però li analizzate dall’esterno in contesti più ampi dove ci sono altri gruppi di diversa storia e tradizione, effettivamente l’appartenenza a una certa nazionalità è congruente, distinguente, “emerge” dalla comparazione. Dire se per cultura o natura è ereditare una falsa dicotomia, insostenibile in biologia e storia.

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marxdialectical

Calvino è stato marxista. In memoriam

di Roberto Fineschi

Presento qui, in occasione della ricorrenza del centenario della nascita e in forma estremamente schematica, alcune idee che sto sviluppando in uno studio di carattere organico sulla “filosofia” di Italo Calvino che uscirà l’anno prossimo

2e1b5c63d8ebc0885332cd6c8be12563 XL.jpgItalo Calvino è stato un grande intellettuale comunista e marxista. Se nella seconda fase della sua vita si allontanò da quelle posizioni, permanevano tuttavia importanti linee di continuità che permettono di ricondurlo nell'alveo di quella tradizione filosofica, politica, civile e morale.

* * * *

1. Italo Calvino, sanremese cui “capitò” di nascere a Cuba, è stata una figura di intellettuale tra le più grandi della storia italiana recente, tra i pochi con un ampio respiro internazionale e universalmente apprezzato per originalità e profondità. Viaggiatore del mondo, parigino di adozione, ebbe notoriamente forti legami con il territorio toscano: oltre a morire infaustamente proprio a Siena nel 1985, amò profondamente il litorale prossimo a Castiglion della Pescaia, scenario di alcune delle sue opere; vi passò per molti anni l’estate nella sua residenza immersa nella pineta di Roccamare e scelse la cittadina toscana come luogo per la propria sepoltura.

Al di là della memorialistica locale, mero pretesto per avviare il discorso, è altro il ricordo che vorrei rievocare. Se sempre viene a ragione ricordato il periodo della sua militanza politica diretta come membro del Partito Comunista Italiano - interrotta con le dimissioni del 1957 in seguito ai fatti ungheresi e alla timidezza con cui il PCI procedeva con la destalinizzazione -, meno frequentemente tale esperienza viene collegata a ragioni teoriche e filosofiche - oltre che, ovviamente, pratiche - che lo spinsero a questa adesione e che restarono vive ben al di là del fatidico ‘56.