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voxpopuli

Intervista all’economista professor Prabhat Patnaik

di Bollettino Culturale

indian farmerjpgPrabhat Patnaik, nato a Jatani il 19 settembre del 1945, è uno dei principali economisti marxisti dell’India. Tramite una borsa di studio ha la possibilità di studiare al Daly College di Indore ed in seguito si laurea in economia al St. Stephen’s College di Nuova Delhi. Ad Oxford consegue il proprio dottorato per poi tornare in patria nel 1974 per insegnare, fino al pensionamento avvenuto nel 2010, presso il Centre for Economic Studies and Planning (CESP) della Jawaharlal Nehru University di Nuova Delhi. Specializzato in macroeconomia ed economia politica, è uno dei più attenti osservatori e critici della politica economica del governo indiano. Feroce critico delle politiche economiche neoliberiste e del nazionalismo hindu, ha pubblicato numerosi articoli e libri in diverse lingue.

Tra i più importanti vorrei ricordare: A Theory of Imperialism, scritto con sua moglie Utsa Patnaik, altra importante economista marxista indiana, The Value of Money, Re-Envisioning Socialism, e Demonetisation Decoded – A Critique of India’s Currency Experiment.

* * * *

1. Professor Patnaik, lei è un marxista in un paese che scivola sempre di più a destra. Il fondamentalismo indù di Modi ha molto in comune con lo sciovinismo di Abe in Giappone, Trump, Orbán e Salvini. Come si materializza questo fondamentalismo indù in economia e che rapporto ha con la gestione dell’ordine neoliberista?

L’attuale partito al governo del paese è stato istituito dalla RSS [Rashtriya Swayamsevak Sangh, Organizzazione Nazionale Patriottica] come suo braccio politico. La RSS è un’organizzazione fascista istituita nel 1925 che aveva inviato un emissario a Mussolini e aveva grande ammirazione per il fascismo tedesco e italiano.

La sua recente ascesa improvvisa ha molto a che fare col sostegno ricevuto dall’oligarchia corporativo-finanziaria del paese, a sua volta legata alla crisi dell’ordine neoliberista che a mio parere si è arenato. In precedenza, l’ordine neoliberista aveva autonomamente ottenuto supporto promettendo un’alta crescita, prosperità e occupazione. Siccome queste promesse hanno iniziato a suonare come parole vuote durante il periodo di crisi, il neoliberismo ora ha bisogno di un nuovo pilone per sostenere la sua egemonia; e il supremazismo indù funge proprio da nuovo puntello.

L’attuale governo fascista non solo persegue con vigore l’agenda neoliberista, ma è più vicino di qualsiasi altro governo precedente all’oligarchia corporativo-finanziaria. Il suo deliberato smantellamento del settore pubblico, la sua decisione di imporre un’unica imposta sui beni e sui servizi come richiesto da questa oligarchia, il suo attacco ai sindacati e i suoi piani di modifica delle leggi sul lavoro a scapito dei lavoratori, il suo calpestare i diritti degli stati e indebolimento del federalismo, il suo dilagante clientelismo, e gli enormi tagli fiscali alle imprese elargiti (apparentemente per stimolare l’economia), sono tutti sintomi della sua estrema vicinanza al capitale multinazionale.

Il suo problema, tuttavia, è che, a differenza degli anni Trenta, quando maggiori spese militari, finanziate dal debito pubblico, avevano portato i paesi fascisti fuori dalla Grande Depressione, il fascismo contemporaneo è incapace di aumentare l’occupazione o di alleviare la crisi economica. Questo perché l’unico modo in cui il governo può stimolare fiscalmente l’economia è spendendo di più e finanziarla sia attraverso un deficit fiscale che attraverso le tasse sui capitalisti (maggiori spese pubbliche finanziate dalle tasse sui lavoratori non aggiungono molto alla domanda aggregata, in quanto i lavoratori spendono comunque la maggior parte dei loro redditi); ma il capitale finanziario non gradisce tali modalità di finanziamento delle spese statali. E oggi, quando il capitale finanziario è internazionale, mentre lo Stato rimane uno Stato-nazione, le obiezioni della finanza giocano un ruolo decisivo (altrimenti ci sarà un deflusso finanziario e quindi una crisi finanziaria). Questo fatto impedisce qualsiasi attivismo fiscale. E la politica monetaria è abbastanza irrilevante per stimolarne l’attività.

 

2. A suo avviso, quali sono stati i punti di forza e di debolezza della pianificazione economica dell’epoca di Nehru, che ebbe la consulenza di un grande economista marxista come Charles Bettelheim?

Sebbene l’India non fosse un’economia socialista, la pianificazione di Nehru prese come modello la pianificazione sovietica. Aveva due grandi punti di forza: uno era quello di costruire il settore pubblico come baluardo contro le multinazionali; il secondo era quello di rendere il paese il più possibile autosufficiente, in modo da non essere suscettibile a pressioni imperialiste. L’India ha sviluppato le proprie capacità tecnologiche in tutta una serie di industrie e potrebbe così affermare la propria indipendenza nei confronti delle multinazionali straniere. Ciò, tra l’altro, è tornato utile per il paese anche dopo l’introduzione del neoliberismo, quando la forte base di istruzione tecnica del paese (gli istituti di tecnologia finanziati con fondi pubblici) ha permesso il rapido sviluppo di un’industria nazionale di software per computer.

Il primo punto debole della pianificazione di Nehru è stata l’incapacità di effettuare una completa ridistribuzione delle terre. Lo sviluppo dell’agricoltura, che si è affermato come requisito necessario per l’industrializzazione, ha avuto luogo sulla base di una miscela di capitalismo latifondiario e capitalismo “kulako”, in modo che i benefici dello sviluppo dell’agricoltura non sono stati equamente ripartiti nella popolazione rurale. Ciò ha significato un aumento della disuguaglianza di reddito (anche se non è diventato così ingente come nel periodo neoliberista), che ha mantenuto limitato il mercato interno per l’industria. Inoltre ha conservato nelle campagne la vecchia struttura sociale di potere, con la sua ideologia di disuguaglianza per caste.

Il secondo punto debole del modello nehruviano è che non c’era una grande devoluzione delle risorse e del processo decisionale agli organi eletti localmente nei villaggi, il che impedì la fioritura dell’iniziativa locale. In breve, un sistema di pianificazione pesantissimo fu imposto a una struttura sociale che non era sufficientemente convertita, cosa che contribuì alla crisi finale del modello nehruviano, e facilitò il suo superamento. (Anche se, naturalmente, dato il potere che il capitale finanziario internazionale aveva acquisito, e dato inoltre il crollo dell’Unione Sovietica, è dubbio se l’India avrebbe potuto resistere alla pressione per l’introduzione di politiche neoliberiste in assenza di una mobilitazione di massa che però all’epoca non era fattibile).

Ma siccome in questo periodo c’è molta diffamazione dell’era di Nehru, devo sottolineare un fatto significativo. La disponibilità di cibo pro capite nell’«India Britannica» all’inizio del XX secolo era di circa 200 kg; era scesa precipitosamente a meno di 150 kg all’epoca dell’indipendenza nel 1947; dopo l’indipendenza è salito a circa 180 kg fino alla fine degli anni ’80, quando il paese ha intrapreso la svolta neoliberista; sotto neoliberismo c’è stato di nuovo un calo della disponibilità di cibo pro capite a circa 170 kg.

 

3. Che analisi può darci dell’insurrezione maoista dei Naxaliti e che rapporto ha con la natura periferica del capitalismo indiano?

Il problema con i maoisti indiani è che la loro analisi rimane bloccata negli anni Trenta e Quaranta. I maoisti senza dubbio articolano le sofferenze delle tribù, dei dalit e di altri gruppi estremamente oppressi, ma non si può fare una rivoluzione con il sostegno di solo il 20% della popolazione. Alla questione difficile di come unire tutti i lavoratori, gli operai, gli operai agricoli, gli artigiani, i contadini che sono stati tutti vittime del neoliberismo (più di trecentomila contadini si sono suicidati negli ultimi venticinque anni) si deve rispondere nel contesto specifico dell’India contemporanea, che è diverso dalla Cina degli anni Trenta e Quaranta.

Permettetemi di fare un esempio. Le elezioni basate sul suffragio universale degli adulti avvennero in Francia, il paese della rivoluzione borghese classica, per la prima volta nel 1945. (L’Inghilterra si era avvicinata al suffragio universale nel 1928 quando le donne avevano ottenuto il diritto di voto). In India il suffragio universale degli adulti è stato incorporato nella Costituzione ed è stato introdotto per la prima volta nelle elezioni del 1952. Fu un enorme avanzamento, un grande guadagno per gli oppressi, in una società che era stata caratterizzata da millenni di disuguaglianza istituzionalizzata sotto forma del sistema delle caste.

Per essere sicuri che i risultati elettorali siano determinati dal potere monetario, le classi dominanti hanno tutto l’interesse a ridurli a farsa, proprio perché la sinistra deve lottare per renderli significativi, per rendere reale la democrazia. Ma boicottare le elezioni perché i marxisti classici, tutti precedenti all’introduzione del suffragio universale, erano scettici al riguardo, significa vivere nel passato. E affermare che una dittatura monopartitica, anche da parte di un partito comunista, può rappresentare una forma di governo superiore a quella di un governo eletto a suffragio universale degli adulti, significa chiudere gli occhi sulla realtà.

C’è troppa mancanza di coerenza nell’analisi della situazione indiana da parte dei maoisti.

 

4. Ritiene il vicino modello cinese una possibile alternativa da proporre per una forza comunista indiana al paese?

Non sono sicuro che cosa intendi dire come “modello cinese”. Il modello di Mao certamente è diverso da Deng Xiaoping. Non voglio certo che l’India emuli l’attuale modello cinese, nonostante il suo grande successo nel raggiungere tassi di crescita impressionanti, né voglio che anche l’India segua il modello di Mao, benché ci siano molti aspetti che gradisco.

Non mi piace l’attuale modello cinese perché non sono a favore di dittature monopartitiche che finiscono immancabilmente per spoliticizzare gli operai e i contadini; a mio parere non è questo il socialismo. Inoltre, l’attuale modello economico cinese ha prodotto enormi disuguaglianze in termini di reddito e distribuzione della ricchezza, ha prodotto un consumo dilagante, e un senso di concorrenza tra le persone invece di un senso di solidarietà, e nessuna di queste è la mia idea di una società che si muove verso il socialismo.

Il mio problema con il modello maoista riguarda più la sua politica, e non tanto la sua economia. Una dittatura monopartitica, come ho già detto, non è la mia idea di socialismo. Tuttavia, nell’ambito economico, l’enfasi di Mao sulla regolazione del cambiamento tecnico per raggiungere la piena occupazione, sull’evitare il consumismo, sull’accettazione volontaria di un modello di consumo nella società tale per cui tutti rimangano occupati, e soprattutto sulla costruzione di solidarietà tra le persone invece che di competitività che le esclude reciprocamente, è qualcosa che accetto.

Tra i marxisti c’è la tendenza a sottolineare esclusivamente lo sviluppo delle «forze produttive» come conditio sine qua non del socialismo. Mao ha respinto questa concezione del marxismo e io accetto la sua posizione al riguardo.

Ma nel complesso vorrei che la via indiana verso il socialismo fosse sui generis; a livello economico deve comportare non la decimazione della piccola produzione, che è quello che fa il capitalismo, ma la sua protezione e promozione e la graduale trasformazione in forme collettive di proprietà e pure la sua riqualificazione tecnologica. A livello politico deve implicare un approfondimento della democrazia così come esiste, piuttosto che una sostituzione della democrazia con una dittatura monopartitica.

 

5. Difende, con la sua risposta a David Harvey, A Theory of Imperialism, la validità della Teoria della Dipendenza. Fondamentalmente lei ribadisce che una forma periferica di capitalismo non è segno del sottosviluppo ma come questo modo di produzione si materializza in quel luogo specifico e in un rapporto di dipendenza con il centro del sistema-mondo capitalista. Secondo lei come può una nazione dipendente rompere questo legame? Ad esempio, Samir Amin propose la disconnessione [delinking], lei cosa ne pensa?

In assenza di una «disconnessione», è impossibile per un paese periferico essere autonomo nel perseguire politiche di sua scelta e quindi uscire dalla morsa dell’imperialismo. Anche quando il paese periferico ha buoni risultati in termini di crescita del PIL, come ha fatto l’India fino a poco tempo fa, non può migliorare le condizioni dei lavoratori. Anche una crescita accelerata del PIL in un regime globalizzato sarebbe accompagnata da una crescente povertà e malnutrizione. Ciò è dovuto al fatto che, come abbiamo sostenuto nel nostro libro sull’imperialismo, in assenza di misure di «aumento della terra disponibile» [land-augmentation] alla periferia, la crescente domanda di beni primari da parte della metropoli è soddisfatta solo attraverso una stretta sull’assorbimento locale di tali merci, o di altre merci che utilizzano la stessa terra. E misure di «aumento della terra disponibile» richiedono un’attività indipendente dello Stato che non è possibile finché lo Stato deve agire secondo i capricci del capitale finanziario internazionale. In caso contrario, in un regime globalizzato ci sarà una massiccia fuga di capitali che causerà una crisi finanziaria.

Di conseguenza, sono indispensabili i controlli sui capitali, che impediscono tali fughe e, una volta instaurati i controlli sui capitali, i disavanzi della bilancia dei pagamenti dovranno essere rispettati, non attraverso gli afflussi finanziari attuali, ma attraverso controlli commerciali. Tali controlli commerciali diventeranno ancora più necessari se l’imperialismo imporrà sanzioni commerciali in risposta ai controlli sui capitali. È quindi assolutamente necessario «disconnettersi» dal regime di relativo libero scambio e dei flussi di capitali.

Ma che cosa si fa insieme alla «disconnessione»? Un paese periferico deve perseguire una strategia di sviluppo che protegga l’agricoltura contadina; effettua la ridistribuzione della terra; intraprende misure di «aumento della terra disponibile»; aumenta la produzione pro capite e la disponibilità di cereali; industrializza non rimuovendo dalla terra la popolazione dipendente dall’agricoltura, cioè non effettuando l’«accumulazione primitiva di capitale», ma organizzando questa popolazione in cooperative e collettivi volontari e lasciando che tali collettivi (a parte il settore pubblico) diventino essi stessi proprietari dell’industria; e fornisce l’istruzione universale gratuita e l’assistenza sanitaria attraverso le istituzioni pubbliche.

Tutto ciò naturalmente richiede un cambiamento nella natura di classe dello Stato. In realtà solo uno Stato di lavoratori e contadini avrà la volontà e la predisposizione a «disconnettersi» dalla globalizzazione per fare tutto ciò.

 

6. Lei spesso ha parlato delle vecchie economie del socialismo reale come prive di crisi di sovrapproduzione e di disoccupazione. Non è l’opinione di alcuni economisti marxisti come Charles Bettelheim che ha dimostrato la presenza in quei sistemi di crisi cicliche e dell’uso delle categorie del mercato nei piani quinquennali elaborati dalla classe dirigente comunista. In fondo questa era una delle critiche principali di Mao all’URSS ed uno dei motivi che hanno scatenato la Rivoluzione Culturale. Lei ritiene fondate queste critiche, e se sì, come possono influire sullo sviluppo di una pratica economica tendente al socialismo?

I vecchi paesi socialisti avevano cicli di investimento, ma non di reddito. I cicli di investimento non hanno portato a cicli di reddito perché il rapporto moltiplicatore è stato tagliato: se a causa di un basso investimento in un certo anno, le merci sembravano essere in eccesso di offerta, poi i prezzi sono stati abbassati assieme ai salari in denaro determinati, in modo che i salari reali, e quindi la domanda di consumo, aumentassero per compensare la riduzione della domanda dovuta alla riduzione degli investimenti. In un’economia capitalistica gli investimenti ridotti riducono anche i consumi e quindi il reddito complessivo, siccome i prezzi sono legati ai salari in denaro e non possono essere abbassati rispetto ai salari in denaro. Le economie socialiste tagliano questo stretto legame tra salari monetari e prezzi. Questi ultimi potrebbero scendere rispetto ai salari in denaro in periodi in cui vi sembrava essere domanda altrimenti insufficiente. (Per inciso, ciò non porterebbe mai a perdite da parte di tutte le imprese considerate nel loro insieme. Alcune imprese possono subire perdite mentre altre no, ma non ha importanza poiché tutte le imprese sono di proprietà dello Stato).

A loro volta, i cicli di investimento potrebbero aumentare a causa degli «effetti eco»: se gli investimenti fossero stati effettuati in modo frammentato in un certo periodo iniziale, allora tutti questi strumenti sarebbero stati più o meno demoliti circa nello stesso periodo, e quindi causa un altro ciclo di raggruppamento di investimenti. Le fluttuazioni degli investimenti sono avvenute anche a causa dei cicli dell’agricoltura: in anni di cattivo raccolto, ad esempio, gli investimenti sono stati tagliati. Questi cicli di investimento non hanno quindi nulla a che vedere con l’uso di “categorie di mercato”. Al contrario, le economie socialiste hanno evitato la crisi di sovrapproduzione a causa del meccanismo che ho appena descritto.

L’esistenza del mercato in un’economia non la rende orientata di per sé al mercato. Per esempio, si può avere un sistema in cui l’aggregato dei beni di consumo prodotti è distribuito attraverso il mercato, ma che non rende l’economia retta dal mercato, in quanto in un’economia guidata dal mercato, le decisioni di produzione e di investimento sono prese interamente sulla base dei segnali da parte del mercato. Questa è la causa delle crisi.

La disoccupazione nasce non solo a causa delle crisi, ma anche perché un’economia di mercato non può fare a meno di un esercito di manodopera di riserva, poiché non ci sarebbe alcun limite superiore ai prezzi e salari se ci fosse la piena occupazione, cioè in assenza di un esercito di manodopera di riserva. Quindi, riferendosi alle economie socialiste precedenti, che non avevano alcuna disoccupazione «retta dal mercato», sarebbe a mio parere del tutto sbagliato.

In realtà, credo che il problema della pianificazione nell’Unione Sovietica sia altrove, cioè nell’eccessiva centralizzazione del processo decisionale. Ciò dovrebbe essere evitato in un’economia del terzo mondo che sta tentando di costruire il socialismo con sostanzialmente un settore di piccola produzione, compreso l’agricoltura contadina. Tale economia deve dare a tutti un salario, indipendentemente dal fatto che la persona sia occupata o meno, e dovrebbe istituire una serie di controlli centrali. Poiché un’economia di questo tipo con un notevole decentramento deve disporre in misura significativa di mediazioni di mercato, disporre di controlli centrali è essenziale per mantenerla vicina alla piena occupazione e ad una distribuzione egualitaria del reddito.

A mio parere, questioni quali l’esistenza o meno del mercato e la quota di proprietà sociale dei mezzi di produzione non sono di per sé importanti. Il capitalismo credo sia un sistema “spontaneo” o semovente, soggetto alle proprie tendenze immanenti; e non ci può essere libertà a meno che questo sistema sia rovesciato. Gli accordi economici del socialismo devono essere tali da superare questa spontaneità.

 

7. Molti paesi dell’Asia sono stati in grado di uscire dalla trappola del sottosviluppo non rispettando i dogmi imposti dal FMI, penso al capitalismo assistito di Singapore o della Corea del Sud. Lei come si confronta con quello che Žižek, riprendendo Lee Kuan Yew, chiama “capitalismo dai valori asiatici”?

Non credo che esista il «capitalismo dai valori asiatici», tranne forse come un fenomeno di passaggio o di transizione. Il capitalismo, essendo un sistema spontaneo, imprime abbastanza spontaneamente i suoi valori in ogni società che penetra. Esso mercifica tutto, introduce la concorrenza al posto della cooperazione, e diffonde il consumismo e l’egocentrismo ovunque (eccetto qualora si sviluppi tra i lavoratori una controcultura contro il capitalismo). Così i cosiddetti «valori asiatici» non possono durare a lungo di fronte al capitalismo; non ci può essere alcun fenomeno duraturo definito «capitalismo dai valori asiatici».

La spontaneità non significa assenza di assistenza statale. Infatti lo Stato può favorire le tendenze spontanee del capitalismo, al fine di accelerarne il funzionamento. La domanda da porsi è, quindi, in quale misura Singapore e Corea del Sud confutino la tesi secondo cui lo sviluppo del terzo mondo è impossibile sotto il capitalismo. A mio parere sostenere che lo facciano è ingannevole.

È perfettamente possibile che il centro si estenda ad alcune sacche del terzo mondo, anzi, lo fa sempre. Ma la tendenza di base a generare povertà, come abbiamo spiegato nel nostro libro Una teoria dell’imperialismo, non scompare. Se Mumbai, per esempio, fosse un paese separato che si aprisse a diventare una base per il capitale del centro, e che imponesse un divieto a tutta l’immigrazione dal suo entroterra, allora potrebbe benissimo diventare un «paese» prospero. In realtà, l’imperialismo sta sempre sostenendo tali esempi di «successo» per camuffare la sua tendenza di base a impoverire le masse del Terzo mondo. Ma la mia preoccupazione è sull’«entroterra».

Ciò pone l’importante questione su ciò che dovrebbe costituire l’unità di analisi. L’unità di analisi non può essere un «paese» giuridicamente definito. Poiché l’imperialismo è un fenomeno globale, dobbiamo guardare la totalità di ciò che esso fa ai popoli del terzo mondo.

Consentitemi di fare solo un esempio. Tra i primi anni Ottanta e oggi, la produzione pro capite e la disponibilità complessiva nel mondo di cereali sono diminuite in termini assoluti; e questo vale per l’intero Terzo mondo, il che significa che oggi la fame è maggiore rispetto ai primi anni Ottanta. (Il consumo ridotto nei paesi avanzati a causa di un maggiore «salutismo» è troppo marginale per spiegare questo calo). Poiché è positiva l’elasticità della domanda di cereali al reddito disponibile, almeno nella fascia di reddito di cui fa parte il Terzo mondo, ciò deve comportare un peggioramento delle condizioni della popolazione. Pertanto, i tassi di crescita del PIL non parlano molto delle condizioni della popolazione. Si suppone che l’India abbia avuto un alto tasso di crescita del PIL a causa del neoliberismo, ma la sua povertà assoluta, nel senso della percentuale di persone che scendono al di sotto di una norma nutrizionale assoluta, nello stesso periodo è aumentata.

Quindi l’idea che la diffusione del capitalismo nei paesi del terzo mondo eliminerà la povertà introducendo tassi di crescita del PIL più elevati è completamente sbagliata.

 

8. Nei suoi scritti è chiara linfluenza di due grandi economisti marxisti come Paul Sweezy e Paul Baran. Quanto deve a questi due economisti e che rapporta ha con Keynes, di cui Il capitale monopolistico raccoglie la sfida lanciata al marxismo?

Sia Baran che Sweezy sono stati influenzati da un altro grande economista marxista, Michał Kalecki, che è arrivato indipendentemente alle stesse conclusioni di Keynes nella sua Teoria Generale ma utilizzando categorie marxiste. Era un ingegnere di formazione la cui unica introduzione all’economia fu il Capitale di Marx e l’Accumulazione del capitale di Rosa Luxemburg. Ciò mi porta a un problema di base con l’economia marxiana.

Marx aveva confutato la Legge di Say e aveva riconosciuto che il capitalismo è vulnerabile al problema di una carenza di domanda aggregata, quasi tre quarti di secolo prima di Keynes. Ma questa parte della sua scoperta scientifica è stata in secondo piano nella convinzione che la carenza di domanda aggregata era solo un problema ciclico automaticamente superato attraverso la rottamazione delle attrezzature. L’economia marxista continuò quindi come se questo problema non avesse alcuna importanza, se si considera il quadro medio per cicli.

Si tratta tuttavia di un errore; non vi è alcuna ragione logica per cui la rottamazione delle attrezzature dovrebbe superare una crisi di carenza di domanda aggregata. Ancora oggi pochissimi economisti marxisti riconoscono la carenza della domanda aggregata come la causa più potente della crisi del capitalismo.

Ora, Kalecki, Baran e Sweezy sono andati in netta controtendenza all’interno del marxismo, motivo per cui prendo molto seriamente il loro lavoro. Fra l’altro, Baran fu tra i primi marxisti a considerare il ruolo dell’imperialismo non solo nel senso leninista, ma anche nel colonialismo, nello sviluppo del capitalismo. Siccome ritengo che il capitalismo non possa essere visto come un sistema autonomo, che purtroppo è il modo in cui Marx lo aveva analizzato nel Volume I de il Capitale, mi trovo nella tradizione di Kalecki, Baran, e Sweezy. È questa tradizione del marxismo che è di grande rilevanza per i marxisti del Terzo mondo.

 

9. Mentre in Occidente l’onda lunga del 68, penso al mio paese, l’Italia, metteva in discussione il capitalismo fordista, iniziarono le prime delocalizzazioni in quello che veniva definito il Terzo Mondo, accompagnato dalla rivoluzione verde in agricoltura, la forzata apertura dei mercati di queste nazioni e dalle riforme cinesi del 1978. Di fatto avvenne una massiccia espulsione dei contadini dalla campagne che crearono gli slum nelle metropoli. A mio avviso, venne sabotata la forza rivoluzionarie delle masse contadine, le stesse che avevano condotto alla vittoria i comunisti in Cina, in Vietnam, nel Laos, in Corea e in Cambogia e che stavano combattendo in altre zone dell’Asia, come le Filippine, l’India, la Thailandia e la Birmania. Lei pensa che questa ristrutturazione complessiva del capitalismo abbia influito sulla possibilità di una larga vittoria delle forze comuniste almeno nei paesi del Terzo Mondo?

Non credo che l’espulsione dei contadini dalle campagne spieghi il riflusso rivoluzionario. In India, per esempio, ancora oggi quasi la metà della forza lavoro è impegnata nell’agricoltura come operai o contadini. Penso che in questo contesto vi siano altri due fattori di maggiore importanza.

Il primo è l’enfasi data nel marxismo allo «sviluppo delle forze produttive». Il socialismo è considerato come sinonimo di sviluppo di forze produttive, che poi si suppone significare un alto tasso di crescita. Io chiamo questa tendenza nel marxismo come «produzionismo» [productivism ndT]. Il produzionismo ha vinto in Cina dopo una lotta lunga e accanita in cui Mao è stato impegnato senza successo. La vittoria del produzionismo è avvenuta in parte perché sembra conforme all’asserzione di base secondo cui il socialismo è sinonimo di sviluppo di forze produttive (e non di libertà umana) e in parte perché ha un grande fascino nel Terzo mondo, che ha visto così poco sviluppo in questa direzione. Inoltre, il fatto stesso che la delocalizzazione delle attività avvenisse sotto il capitalismo neoliberista ha dato alla tendenza «produzionista» nel marxismo nel Terzo mondo una credibilità di cui non aveva mai goduto prima.

Il secondo fattore è il peso sociale e le aspirazioni della gioventù della classe media, che vuole emulare lo stile vita occidentale. La globalizzazione neoliberista lo fa capire chiaramente: pur avendo giovato alla classe media e avendo goduto di un notevole sostegno all’interno di questa classe, ha al tempo stesso portato grandi difficoltà ai contadini. Infatti il conflitto tra la gioventù (soprattutto urbana) borghese e i contadini (e gli operai che soffrono anche a causa della miseria dei contadini che gonfia l’esercito di riserva di lavoro), è il nuovo fenomeno più visibile nel Terzo mondo di oggi. Ma ritengo anche che questa situazione stia cambiando. Il neoliberismo ha raggiunto un vicolo cieco. Il fatto stesso che Donald Trump stia introducendo il protezionismo negli Stati Uniti è sintomatico di questo vicolo cieco. Grazie alla prolungata crisi in cui questo vicolo cieco del neoliberismo ha spinto l’umanità, una crisi in cui ci troviamo oggi, i giovani della classe media che fino ad ora avevano sostenuto con entusiasmo la globalizzazione, saranno presto disillusi; e nuove possibilità rivoluzionarie si apriranno per portare avanti le società del terzo mondo nella direzione del socialismo.

 

10. Unultima domanda. Lei ritiene fondamentale cambiare la natura di classe dello Stato per opporsi sia al neoliberismo che per ottenere dei successi per le masse come un solido stato sociale. Altri pensatori marxisti, come Robert Kurz o Gianfranco La Grassa, ritengono inservibile lo Stato nella costruzione del socialismo. Va superato con tutte le categorie del capitalismo come il lavoro salariato, la merce e il denaro. Questo è il motivo che portò alla nascita, ad esempio, dei soviet. Lei ritiene possibile costruire la premessa del socialismo per mezzo di un capitalismo fortemente dirigista?

Il ruolo dello Stato è estremamente importante. È importante per «disconnettere» l’economia dalla globalizzazione attraverso controlli dei capitali e commerciali; per investire nel settore pubblico, dal momento che i capitalisti andranno in uno «sciopero degli investimenti»; per realizzare la ridistribuzione della terra; e per difendere l’avanzamento verso il socialismo contro i tentativi imperialisti di sabotaggio. Ma non vorrei un modello di sviluppo centralizzato e pesantissimo. Vorrei che lo sviluppo fosse decentralizzato e inquadrato in un obiettivo di approfondimento della democrazia.

La vera sfida della costruzione del socialismo sta però altrove, cioè nel trovare una fonte alternativa di motivazione e di disciplina del lavoro senza le quali nessuna società può esistere. Sotto il feudalesimo, la gente lavora a causa dell’uso e della tradizione, che sta alla base della coercizione, per esempio la frusta del monsignore; sotto il capitalismo la disciplina del lavoro è inculcata attraverso la coercizione implicita dell’esercito di riserva di lavoro, che significa che se il «capo» non è soddisfatto del vostro lavoro allora siete licenziati; sotto il socialismo la motivazione del lavoro e la disciplina del lavoro devono venire dalla pura volontà dei lavoratori di lavorare.

Il socialismo, come è esistito realmente, ha usato la coercizione per introdurre la disciplina di lavoro; ma questo non può essere l’immagine di una società socialista. Come ho detto prima, il socialismo deve avere la «piena occupazione» nel senso che tutti ottengono un salario. Se la motivazione del lavoro e la disciplina del lavoro devono essere volontarie in una situazione del genere, mi sembra necessaria una decentralizzazione del processo decisionale. In un contesto collettivo, ad esempio, l’emulazione, la pressione tra pari e la discussione possono svolgere il ruolo di rendere effettiva la disciplina del lavoro.

Questo pone in risalto un’altra questione fondamentale: in un’organizzazione così decentralizzata, come si possa costruire una grande solidarietà, andando oltre il villaggio, o la comune, o la contea, o la provincia. È qui che la politica dovrà entrare in scena. La politicizzazione permanente dei lavoratori è essenziale; e per questo credo che il socialismo debba essere associato ad un approfondimento delle strutture democratiche che promuovano la partecipazione, piuttosto che ad una dittatura monopartitica.

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