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Rischiarare le tenebre della politica in Italia

di Andrea Stroscio

L’autore discute in questo articolo alcuni dei contributi presenti nel numero uno di Pandora. Puoi scaricare il PDF del numero completo a questo link

32 Delacroix-la battaglia di nancyCondivido in generale la prospettiva per una critica del presente, per fare uscire la politica dalla sua crisi e per un recupero di autonomia politica della sinistra avanzata da Mario Tronti, in particolare nel suo libro dell’anno scorso e recentemente nel suo articolo sul primo numero di Pandora. La direzione indicata da Tronti ci aiuta a uscire dal disorientamento politico, ad avviare una riflessione collettiva sui primi passi da muovere per una riorganizzazione delle forze in campo e ad arginare la deriva antipolitica in favore di una politica forte e intelligente, che dica parole e pensieri propri, antagonista e autorevole, capace di incidere sulla realtà e di mediazione. Si tratta innanzitutto di stare, come intellettuale, da una parte, che è politica nel senso di una forza collettiva che critica lo stato di cose presente e si organizza per trasformarlo, riferendosi a quel punto di vista. E conseguentemente condivido il percorso parallelamente indicato da Giacomo Bottos su Pandora per riavvicinare teoria e prassi di trasformazione del mondo, per rimettere in contatto politica e centri di riflessione e ricerca, per un modo di parte di stare nei partiti e nei sindacati dei lavoratori e di confrontarsi con l’associazionismo, le aggregazioni, il terzo settore, che li riavvicini e li ripoliticizzi.

Mi colloco però a un livello di elaborazione meno avanzato, più limitato e incompleto, rispetto alla loro proposta di ricostruzione politica, anche se al contempo e contraddittoriamente avverto, mi sembra più di loro, l’esigenza di un progetto politico collettivo già da subito più concreto.

Ci viene detto: una critica del presente e una cultura politica minimi per questa fase. Indicazioni, da riprendere, apparentemente ragionevoli, ma forse non sufficienti e non del tutto adeguate a soddisfare quell’esigenza di concreta rivendicazione della politica e addirittura a fare irrompere la critica e la coscienza teorica all’interno delle esangui forme attuali, come una sorta di ambizioso cuneo rosso che spezza il cerchio bianco. In particolare, se capisco bene le indicazioni di Tronti e di Bottos, al centro dei loro sforzi di riflessione teorica è un ripensamento della forma partito come punto di vista, come modo di stare nel partito (che poi sarebbe il Pd), con l’obiettivo di restituire alla politica uno sfondo culturale che la liberi ed emancipi dal vincolo di un presente fatto di campagne elettorali e primarie continue, incapace di pensare gli obiettivi di fondo e spesso neppure solo di risolvere i problemi di un governo pure da tanti tanto voluto a tutti i livelli. Se però non si tratta di fare o rifare questo o un altro partito, un partito concreto c’è ed è un campo politico in cui agire, fatto anche di militanti, iscritti, simpatizzanti, elettori e dirigenti concreti.

Dunque quale critica e quale cultura politica bastano in questa fase? Basta, come dice Tronti, un realismo politico per dire la verità, per la critica di questa forma sociale che ponga le condizioni di un suo superamento? Basta, detto altrimenti, l’ideologia del realismo politico residuo del comunismo italiano, per dire la verità? Basta dire la verità? Si possono separare nella lotta verità e giustizia? Ed esattamente quale forma sociale abbiamo di fronte o basta evocarla? Basta pensare ciò che basta o dobbiamo anche pensare ciò che servirà? Qualunque tattica, per essere tale, deve stare dentro a una strategia: quale è la strategia? Un punto di vista che davvero contesti il presente non può non trascenderlo, una critica davvero rischiaratrice non può non aprire a un’utopia domani ragionevole per quanto oggi impensabile di emancipazione e liberazione, per cui valga la pena impegnarsi. D’altronde, la possibilità di trasformare il mondo è sempre stata impensabile prima di essere pensata, magari a iniziare da uno studio della storia e della geografia come distanziamento critico-antropologico (Rousseau, Kant, Marx), per apparire poi in tutta la sua ragionevolezza.

Il condivisibile punto di partenza è che la guerra di classe c’è, qui e ora condotta con i mezzi delle forme storiche sue proprie, e va smascherata in quanto è potentemente occultata. Il primo passo per contrastare le forme politiche in Italia della guerra di classe unidirezionale in atto e per contribuire a restituire coscienza politica di questa guerra ai lavoratori, è pertanto lo smascheramento delle ideologie politiche che la occultano, restituendo legittimità democratica al conflitto sociale e ripensando politicamente il punto di vista dei lavoratori oggi. Ma la politica non può, quand’anche lo volesse, fare la rappresentazione del conflitto sociale e contribuire a smascherarlo dall’ideologia che lo seda, senza fare parzialmente anche il conflitto stesso, senza agirlo essa stessa. Inevitabile ricominciare dalla critica dell’ideologia politica ma, in quanto elemento parziale del conflitto sociale, davvero una politica che faccia di questo una rappresentazione può non fare anche una critica di se stessa, del modo stesso di fare la rappresentazione e in particolare di una rappresentazione nei termini di un realismo politico? Si può davvero fare una critica dell’ideologia, quella critica dell’ideologia necessaria, nei termini di un realismo politico? Sia pure nei termini di un realismo politico erede residuale della tradizione del comunismo italiano. O non finirebbe esso stesso almeno oggi, venute meno le sue basi materiali, con il divenire un’ideologia integrazionista funzionale ad un sistema in crisi? Il realismo politico non è mai neutrale, facilmente porta al cinismo nel senso più deteriore.

È possibile oggi una critica dell’ideologia che maschera la realtà, assumere un punto di vista di parte e una cultura politica per un progetto di ritorno in campo di un pensiero critico e di una prassi trasformatrice senza partire dall’analisi critica del Capitale? Si può leggere il Marx giovane senza leggere il Capitale, senza la compagnia del Marx maturo? Io penso di no. Ma allora serve ripensare Marx e i marxismi per il XXI secolo e il mondo di oggi, per l’agire politico nello spazio sociale contemporaneo. Serve innanzitutto ri-leggere il Capitale (magari nella nuova traduzione del MEGA 2, quando l’editoria italiana riuscirà finalmente a offrircene una traduzione completa, e anche su questo dovremmo riflettere autocriticamente) in compagnia di Marx, anche per restaurare una scienza dell’analisi critica del mutamento storico. Se no come comprendere la realtà e dire la verità insieme vivendo nella miseria di un cripto-marxismo filosofico o peggio di un idealismo storicistico, senza peraltro neppure potere usare a viso aperto linguaggio e vocabolario della sinistra che di quel pensiero recano ovunque traccia?

Prima il Capitale del giovane Marx, che invece Tronti dice oggi bastare, non solo per correttezza e rigore scientifico storico-critico circa la sua centralità interpretativa – per quanto pure sia convinto anche di questo e che non ne basti una lettura parziale, frammentaria, filosofica – ma per tante altre ragioni sempre più attuali oggi in questa parte di mondo: per la critica che smaschera la posizione del lavoratore di fronte al capitale e alle sue contraddizioni interne; per la critica che smaschera il conflitto distributivo non solo tra capitale e lavoro, ma tra capitalisti; per la critica della rendita e della sua svalutazione, anche in rapporto alle cause antagonistiche; per la critica che supera la separabilità teorica di produzione e circolazione. Perché, nonostante letture datate e fuorvianti tuttora in voga, si pongono inaggirabili le questioni marxiane di teoria del valore. E l’elenco potrebbe continuare all’infinito non limitato alle tematiche economico politiche.

Occorrerebbe quindi innanzitutto meglio tratteggiare i caratteri della nuova fase che va delineandosi dalla crisi, a partire dal corretto livello mondiale dell’unità d’analisi e delle trasformazioni materiali micro e macro, specialmente per quanto attiene il problema della sovranità sovra-statuale, tramite una chiara ed esplicita analisi marxista. Potremmo allora chiamarla per l’Italia fase ordo-liberista europea? Di certo, anche in questa fase la democrazia dei ceti medi resta il miglior “involucro politico” per il capitalismo europeo, ma in quali forme? Davvero la crisi della democrazia, o meglio il mutamento antipopolare delle sue forme storiche, sia ideologiche che di regime reale, è secondaria alla crisi della politica, dell’autorità politica, dello stato? Davvero è meritata? O non è stato invece un preciso e consapevole disegno della controffensiva capitalistica proprio contro i processi di democratizzazione? La democrazia non è neutrale rispetto al conflitto di classe e può assumere diverse direzioni, un “contrassegno” più o meno progressivo. Affrontiamo in questa fase, mi pare, un crescente distacco tra democrazia sostanziale e democrazia procedurale, una chiusura oligarchica in nome di una governabilità a-consensuale, cui anche la nostra democrazia repubblicana non sfugge. Democrazie senza democrazia.

Penso poi che in questo contesto ripartire all’attacco a cominciare, come dice Tronti, dagli ultimi e dagli esclusi sia nobile ma illusorio, forse di retroguardia, molto probabilmente impossibile, specialmente nella crisi. Con la sola eccezione di tanti migranti, non ho modo qui di approfondire perché, che forse proprio ultimi ed esclusi per l’appunto non sono. Si può forse ripartire invece da alcuni elementi dei nuovi ceti medi giovanili in continuo accrescimento e dalla loro frustrazione sociale, incuneando la critica e spingendo a un’autocritica laica, spregiudicata e autenticamente cinica, che li sottragga almeno in parte all’egemonia di giornali (o meglio dei loro siti internet) e università. Meno nobile, ma probabilmente più efficace e praticabile, perché lì è il potenziale di conflitto che c’è. Non siamo ancora nelle condizioni di potere lavorare (davvero, all’attacco) con il grande corpo oggi qui passivo delle “persone semplici”. Per ora meglio meno, ma meglio. E poi, quando saremo pronti e ce ne sarà l’occasione, quando avremo ripulito la memoria e riarmato la prospettiva, per fare uscire dall’angolo la sinistra, potremo cercare di spezzare con un linguaggio combattente, critico dell’ideologia, la barriera comunicativa alto/basso (in fondo Renzi da destra e a favore di corrente ha fatto così).

Ma anche solo questo primo passo non mi sembra affatto semplice. Critica dell’ideologia dicevamo. Concretizzare l’universalità in lotte determinate per un umanesimo reale. Per uno sviluppo umano basato sul riconoscimento della dignità della persona. Ecco allora ad esempio per pertinenza la difesa dell’intervento statale nell’economia e del welfare state, non solo per ragioni contingenti e keynesiane, ma per la difesa selettiva e consapevole delle funzioni di direzione sociale parzialmente antagonistiche agli interessi immediati della classe dominante. Quindi critica di un’ideologia del “pubblico non statale” e del “privato sociale”, sempre più connotati imprenditorialmente verso una spoliazione parassitaria volta alla sostituzione di impiego pubblico con un’organizzazione del lavoro più “moderna” e “flessibile”. Ecco allora la critica dell’ideologia del “sii imprenditore di te stesso”, paravento della precarizzazione dei rapporti di lavoro, e dell’ideologia della “meritocrazia”, aggressiva difesa dell’ereditarietà sociale. E così via. Vinceremo una battaglia ogni volta che avremo fatto un passo e aggiunto un camminante verso l’unità del lavoro salariato oggi.

Per questi motivi penso che servirebbe una rivista teorica, interdisciplinare, di analisi e riflessione culturale, ma a ridosso dell’iniziativa politica democratica. Combattente, militante, apertamente marxista nella battaglia delle idee. Perché ci servirà una conoscenza non solo teorica ma ottenuta attraverso l’esperienza della vita politica. Forse una rivista di un marxismo critico nella sinistra democratica italiana di oggi è troppo e impossibile. Ma una rivista che si limitasse a rispolverare la memoria del realismo politico del comunismo italiano, così influenzato da storicismo e idealismo, sarebbe poco e fuori tempo. Dobbiamo uscire dall’asfissia della politica italiana. Non basta la storia, serve anche la geografia. Non bastano parole alte, il latino, servono anche parole chiare ed esatte, l’inglese e la matematica.

Una rivista che contribuisca a rimettere al centro il conflitto sociale capitale-lavoro nella sinistra democratica, a partire da un’analisi marxista della situazione concreta di una moderna forza del conflitto sociale. Senza dimenticare mai il valore anche progressivo e il potenziale emancipativo della modernizzazione capitalistica, non cedendo mai al contro-discorso antimoderno immanente alla modernità, neppure nelle sue forme post moderne. Ma adottando un punto di vista critico di classe e internazionalista sul modello del Manifesto. Un punto di vista che, perlomeno, cerchi di non dimenticare mai da un punto di vista di parte il quadro storico generale, il processo storico complesso dell’accumulazione e le dinamiche economico-sociali, in particolare nel quadro della dialettica tra ambiti nazionali e contesti sovranazionali in quel progressivo ma difficile e contraddittorio dissolvimento europeo della nostra nazionalità, che vede una problematica perdita di autonomia politica dei paesi periferici dell’eurozona dettata dal vincolo europeo.

E insieme organizzarci intorno ad essa nel tempo breve imposto dal capitale a partire dai grandi spazi urbani nella dimensione nazionale e oltre. Senza paura delle nuove tecnologie e delle loro reti sociali, di cui è possibile un uso comunicativo e non solo di disciplinato intrattenimento, luogo possibile di una riconquista dell’azione collettiva purché l’iniziativa non si limiti a una critica passiva e impotente dell’opinione, ma presupponga e predisponga un’iniziativa reale e non solo virtuale. E senza disdegnare la proposta di politiche catalizzatrici. Un’iniziativa che inizi con il connettere studenti e lavoratori salariati in particolare delle università, della scuola e della pubblica amministrazione in genere, dei mass media, dei social media, dell’editoria. Non ci è data l’autonomia di un partito, ma il Pd e il Pse come campi da gioco di una lotta sociale e politica da un punto di vista di parte. A nuove condizioni di oppressione e sfruttamento nuove forme di lotta. Senza mai disconoscere la centralità del lavoro vivo e del mondo della produzione per ogni lotta di emancipazione. Comunque, è importante non perdersi di vista.

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