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manifesto

Thomas Piketty, il pragmatico dell’utopia light

Russell Jacoby

540964l sag­gio di Tho­mas Piketty Le Capi­tal au XXIe siè­cle è un feno­meno sia socio­lo­gico sia intel­let­tuale. Cri­stal­lizza lo spi­rito della nostra epoca come fece, a suo tempo, The Clo­sing of the Ame­ri­can Mind di Allan Bloom. Quel libro, che denun­ciava gli studi sulle donne, sul genere e sulle mino­ranze nelle uni­ver­sità sta­tu­ni­tensi, oppo­neva la medio­crità del rela­ti­vi­smo cul­tu­rale alla ricerca dell’eccellenza asso­ciata, nello spi­rito di Bloom, ai clas­sici greci e romani. Ebbe pochi let­tori era par­ti­co­lar­mente pom­poso ma ali­men­tava il sen­ti­mento di una distru­zione del sistema edu­ca­tivo sta­tu­ni­tense, e degli stessi Stati uniti, a causa dei pro­gres­si­sti e della sini­stra. Un sen­ti­mento che non ha affatto perso vigore. Le Capi­tal au XXIe siè­cle (Il Capi­tale nel XXI secolo) si inqua­dra nello stesso regi­stro inquieto, a parte il fatto che Piketty viene dalla sini­stra e che la con­tro­ver­sia si è spo­stata dall’educazione al campo eco­no­mico. Anche in mate­ria di inse­gna­mento, il dibat­tito si foca­lizza ormai sul peso dei debiti di stu­dio e sulle bar­riere suscet­ti­bili di spie­gare le disu­gua­glianze scolastiche.

L’opera tra­duce un’inquietudine pal­pa­bile: la società sta­tu­ni­tense, come l’insieme delle società del mondo, par­rebbe sem­pre più ini­qua. Le disu­gua­glianze si aggra­vano e fanno pre­sa­gire un futuro gri­gio. Le Capi­tal au XXIe siè­cle avrebbe dovuto inti­to­larsi Le disu­gua­glianze nel XXI secolo.

Sarebbe ste­rile cri­ti­care Piketty per la sua inca­pa­cità di rag­giun­gere obiet­tivi che egli non si era dato. Tut­ta­via, tes­serne le lodi non è suf­fi­ciente.

Molti com­men­ta­tori si sono inte­res­sati al suo rap­porto con Karl Marx, a quello che egli gli deve, e alle infe­deltà, men­tre occor­re­rebbe piut­to­sto chie­dersi in che senso quest’opera chia­ri­sca la nostra attuale mise­ria. E, al tempo stesso, vista la pre­oc­cu­pa­zione rispetto all’uguaglianza, non è inu­tile tor­nare a Marx. Con­fron­tando que­sti due autori, si nota in effetti una diver­genza: entrambi con­te­stano le dispa­rità eco­no­mi­che, ma pren­dono dire­zioni oppo­ste. Piketty rimane nell’ambito dei salari, dei red­diti e della ric­chezza; vuole sra­di­care le disu­gua­glianze estreme e offrirci per paro­diare lo slo­gan della pri­ma­vera di Praga un capi­ta­li­smo dal volto umano. Marx, al con­tra­rio, si pone sul ter­reno delle merci, del lavoro e dell’alienazione: vuole abo­lire que­ste rela­zioni e tra­sfor­mare la società.

Piketty con­duce una requi­si­to­ria impla­ca­bile con­tro le disu­gua­glianze: È arri­vato il momento, scrive nell’introduzione, di met­tere la que­stione delle disu­gua­glianze al cen­tro dell’analisi eco­no­mica. Nell’esergo del libro, egli scrive la seconda frase della Dichia­ra­zione dei diritti dell’uomo e del cit­ta­dino del 1789: Le distin­zioni sociali non pos­sono essere fon­date che sull’utilità comune. (Peral­tro, viene da chie­dersi per­ché un libro così pro­lisso tra­scuri la prima frase della Dichia­ra­zione stessa: Gli uomini nascono e riman­gono liberi e uguali nei diritti.) Basan­dosi su una quan­tità di cifre e gra­fici, egli mostra che le disu­gua­glianze eco­no­mi­che aumen­tano e che i più for­tu­nati si acca­par­rano una parte cre­scente della ric­chezza. Alcuni si sono messi in testa di con­te­stare que­ste sta­ti­sti­che; egli ha rispo­sto punto per punto.

Piketty col­pi­sce con forza nel segno quando tratta dell’esacerbarsi delle disu­gua­glianze che sfi­gu­rano la società, in par­ti­co­lare quella sta­tu­ni­tense. Egli fa notare per esem­pio che l’educazione dovrebbe essere acces­si­bile a tutti e favo­rire la mobi­lità sociale. Ma il red­dito [annuo] medio dei geni­tori degli stu­denti di Har­vard è dell’ordine di 450.000 dol­lari [330.000 euro], il che li pone fra il 2% più ricco delle fami­glie sta­tu­ni­tensi. Egli con­clude la sua argo­men­ta­zione con que­sto eufe­mi­smo carat­te­ri­stico: Il con­tra­sto fra il discorso meri­to­cra­tico uffi­ciale e la realtà (…) sem­bra qui par­ti­co­lar­mente estremo.

Per alcuni a sini­stra, non c’è niente di nuovo. Per altri, stan­chi di sen­tirsi dire con­ti­nua­mente che è impos­si­bile aumen­tare il sala­rio minimo, che non biso­gna tas­sare i crea­tori di posti di lavoro e che la società sta­tu­ni­tense rimane la più aperta del mondo, Piketty è un alleato prov­vi­den­ziale. In effetti, secondo un rap­porto (non citato nel libro), i ven­ti­cin­que gestori di fondi d’investimento meglio remu­ne­rati hanno gua­da­gnato, nel 2013, 21 miliardi di dol­lari (16 miliardi di euro), ovvero più di due volte il red­dito totale di circa 150mila inse­gnanti di scuola materna degli Stati uniti. Se la retri­bu­zione finan­zia­ria cor­ri­sponde al valore sociale, allora un gestore di hedgefund vale quanto 17mila mae­stri… È pos­si­bile che geni­tori (e inse­gnanti) non siano d’accordo.

Tut­ta­via, la fis­sa­zione esclu­siva di Piketty sulle disu­gua­glianze pre­senta limiti teo­rici e poli­tici. Dalla Rivo­lu­zione fran­cese al movi­mento sta­tu­ni­tense per i diritti civili pas­sando per il car­ti­smo, l’abolizione della schia­vitù e le suf­fra­gette, l’aspirazione all’uguaglianza ha cer­ta­mente susci­tato diverse sol­le­va­zioni poli­ti­che. In una enci­clo­pe­dia della con­te­sta­zione, la voce rela­tiva occu­pe­rebbe diverse cen­ti­naia di pagine e riman­de­rebbe a tutte le altre voci. Ha gio­cato, e con­ti­nua a gio­care, un ruolo posi­tivo essen­ziale. Basti pen­sare, anche di recente, al movi­mento Occupy Wall Street e alle mobi­li­ta­zioni per i matri­moni omo­ses­suali. Lungi dall’essere scom­parso, que­sto tipo di riven­di­ca­zione ha tro­vato nuovo vigore.

Ma l’egualitarismo implica anche una parte di ras­se­gna­zione: accetta la società com’è, cer­cando solo di rie­qui­li­brare la ripar­ti­zione dei beni e dei pri­vi­legi. Gli omo­ses­suali vogliono otte­nere il diritto di spo­sarsi allo stesso titolo degli ete­ro­ses­suali. Benis­simo; ma que­sto non modi­fica affatto l’istituzione imper­fetta del matri­mo­nio, che la società non può far deca­dere né miglio­rare. Già nel 1931, lo sto­rico bri­tan­nico di sini­stra Richard Henry Taw­ney sot­to­li­neava que­sti limiti in un libro che peral­tro si schie­rava con l’egualitarismo (4). Il movi­mento ope­raio, scri­veva, crede nella pos­si­bi­lità di una società che dà più valore alle per­sone e meno al denaro. Ma quest’orientamento ha dei limiti: Al tempo stesso, aspira non a un ordine sociale diverso, nel quale denaro e potere eco­no­mico non saranno più il cri­te­rio della riu­scita, ma a un ordine sociale dello stesso tipo, nel quale il denaro e il potere eco­no­mico saranno ripar­titi un po’ diver­sa­mente.. Ecco il cuore del pro­blema. Accor­dare a tutti il diritto di inqui­nare è un pro­gresso sul lato dell’uguaglianza, ma non lo è certo per il pianeta.
 
 
Evi­tare di pagare troppo gli universitari

Marx non asse­gna alcun ruolo all’uguaglianza. Non solo non ha mai preso in con­si­de­ra­zione il fatto che i salari avreb­bero potuto aumen­tare in maniera rile­vante, ma anche se lo avesse fatto, ai suoi occhi il punto non era quello. Il capi­tale impone i para­me­tri, il ritmo e la defi­ni­zione anche del lavoro, di ciò che è van­tag­gioso e di ciò che non lo è. Anche in un regime capi­ta­li­stico di forme agiate e libe­rali, dove il lavo­ra­tore può vivere meglio e con­su­mare di più per­ché riceve un sala­rio migliore, la situa­zione non è fon­da­men­tal­mente diversa. Il fatto che l’operaio sia pagato meglio non ne cam­bia la situa­zione di dipen­denza, come un miglio­ra­mento nel vestire, nel cibo, nel trat­ta­mento, o l’aumento del pecu­lium non abo­li­vano il rap­porto di dipen­denza e sfrut­ta­mento degli schiavi. Un aumento dei salari signi­fica al mas­simo che la lun­ghezza e il peso della catena d’oro che il lavo­ra­tore dipen­dente si è for­giato da sé fanno sì che essa stringa un po’ meno.

Si potrà certo obiet­tare che que­ste cri­ti­che risal­gono al XIX secolo. Ma Marx ha almeno il merito di con­cen­trarsi sulla strut­tura del lavoro, men­tre Piketty non ne fa parola. Non si tratta di sapere chi dei due abbia ragione sul fun­zio­na­mento del capi­ta­li­smo, ma di cogliere la base delle loro rispet­tive ana­lisi: la ripar­ti­zione per Piketty, la pro­du­zione per Marx. Il primo vuole redi­stri­buire i frutti del capi­ta­li­smo così da ridurre lo scarto fra i red­diti più ele­vati e quelli più bassi, men­tre il secondo vuole tra­sfor­mare il capi­ta­li­smo ed eli­mi­narne il dominio.

Fin dalla sua gio­ventù, Marx docu­menta la mise­ria dei lavo­ra­tori: dedica cen­ti­naia di pagine del Capi­tale alla gior­nata di lavoro tipo e alle cri­ti­che che essa suscita. Anche su que­sto sog­getto, Piketty non ha niente da dirci, anche se evoca uno scio­pero all’inizio del primo capi­tolo. Nell’indice dell’edizione inglese, alla voce Lavoro, si può leg­gere: Si veda “Divi­sione capitale-lavoro”. È com­pren­si­bile, per­ché l’autore non si inte­ressa al lavoro in sé, ma alle disu­gua­glianze che deri­vano da que­sta divisione.

In Piketty, il lavoro si riduce all’ammontare dei salari. Gli scoppi di col­lera che qui e là affio­rano nel suo scritto pren­dono di mira i ric­chis­simi. Egli fa notare ad esem­pio che la for­tuna di Liliane Bet­ten­court, ere­di­tiera dell’Oréal, è pas­sata da 4 a 30 miliardi di dol­lari (da 3 a 22 miliardi di euro) fra il 1990 e il 2010: Liliane Bet­ten­court non ha mai lavo­rato, ma que­sto non ha impe­dito alle sue ric­chezze di aumen­tare velo­ce­mente quanto quelle di Bill Gates. L’attenzione riser­vata ai più ric­chi cor­ri­sponde per­fet­ta­mente alla sen­si­bi­lità della nostra epoca, men­tre Marx, con la sua descri­zione del lavoro dei panet­tieri, degli imbian­chini e dei tin­tori pagati a gior­nata, fa parte del pas­sato. La mani­fat­tura e le catene di mon­tag­gio scom­pa­iono dai paesi capi­ta­li­sti avan­zati e si dif­fon­dono nei paesi in via di svi­luppo, dal Ban­gla­desh alla Repub­blica domi­ni­cana. Ma non neces­sa­ria­mente un argo­mento vec­chio è obso­leto, e Marx, foca­liz­zan­dosi sul lavoro, sot­to­li­nea una dimen­sione quasi assente nel Le Capi­tal au XXIe siècle.

Piketty docu­menta l’esplo­sione delle disu­gua­glianze, in par­ti­co­lare negli Stati uniti, e denun­cia gli eco­no­mi­sti orto­dossi, che giu­sti­fi­cano le enormi disu­gua­glianze nelle remu­ne­ra­zioni con le forze razio­nali del mer­cato. Egli rim­pro­vera i col­le­ghi sta­tu­ni­tensi che ten­dono spesso a rite­nere che l’economia degli Stati uniti fun­zioni piut­to­sto bene, e in par­ti­co­lare che ricom­pensi il talento e il merito con equità e pre­ci­sione. Ma, aggiunge, non c’è da stu­pirsi, visto che anche que­gli eco­no­mi­sti appar­ten­gono al 10% dei più ric­chi. Il mondo della finanza, al quale non di rado essi offrono con­su­lenze, alza i loro sti­pendi, ed essi mani­fe­stano una ten­denza incre­sciosa a difen­dere i loro inte­ressi pri­vati, dis­si­mu­lan­dosi die­tro un’improbabile difesa dell’interesse gene­rale.

Per fare un esem­pio che non si trova nell’opera di Piketty, un recente arti­colo pub­bli­cato nella rivi­sta dell’American Eco­no­mic Asso­cia­tion si pro­pone di dimo­strare, dati alla mano, che le forti disu­gua­glianze dipen­dono dalla realtà eco­no­mica. I red­diti più ele­vati hanno com­pe­tenze rare e uni­che che per­met­tono loro di nego­ziare a un prezzo forte il valore cre­scente del loro talento, con­clude uno degli autori, Ste­ven N. Kaplan, docente di eco­no­mia dell’impresa e della finanza alla School of Busi­ness dell’università di Chi­cago. Con tutta evi­denza, Kaplan ha biso­gno di miglio­rare la pro­pria con­di­zione eco­no­mica: una nota in fondo pagina ci informa che egli siede nel con­si­glio di ammi­ni­stra­zione di diversi fondi d’investimento e che è stato con­su­lente per società di inve­sti­mento in capi­tali di rischio. Ecco l’insegnamento uma­ni­sta del XXI secolo! Piketty spiega all’inizio del libro di aver perso le illu­sioni sugli eco­no­mi­sti sta­tu­ni­tensi inse­gnando al Mas­sa­chu­setts Insti­tute of Tech­no­logy (Mit), e che gli eco­no­mi­sti delle uni­ver­sità fran­cesi hanno il grande van­tag­gio di non essere né molto con­si­de­rati né paga­tis­simi: que­sto con­sente loro di tenere i piedi per terra.

Ma la con­tro­spie­ga­zione che egli pro­pone è quan­to­meno banale: le enormi dispa­rità di remu­ne­ra­zione dipen­de­reb­bero dalla tec­no­lo­gia, dall’istruzione e dalle abi­tu­dini. Le retri­bu­zioni stra­va­ganti dei super­qua­dri, un mec­ca­ni­smo potente di aumento delle disu­gua­glianze eco­no­mi­che, in par­ti­co­lare negli Stati uniti, non pos­sono essere spie­gate con la logica razio­nale della pro­dut­ti­vità. Riflet­tono le norme sociali attuali, le quali dipen­dono da poli­ti­che con­ser­va­trici che hanno ridotto l’imposizione fiscale sui più ric­chi. I pro­prie­tari di grandi imprese si attri­bui­scono sti­pendi enormi per­ché lo pos­sono fare e per­ché la società ritiene que­ste pra­ti­che accet­ta­bili, almeno negli Stati uniti e nel Regno unito.

Marx pro­pone un’analisi ben diversa. Più che pro­vare abis­sali disu­gua­glianze eco­no­mi­che egli cerca di sco­prirne le radici nell’accumulazione capi­ta­li­sta. Certo, Piketty spiega che le disu­gua­glianze sono dovute alla con­trad­di­zione cen­trale del capi­ta­li­smo: la disgiun­zione fra il tasso di ren­di­mento del capi­tale e il tasso di cre­scita eco­no­mica. Nella misura in cui il primo sopra­vanza il secondo, favo­rendo la ric­chezza esi­stente a sca­pito del lavoro esi­stente, si arriva a ter­ri­fi­canti disu­gua­glianze nella ripar­ti­zione delle ric­chezze. Su que­sto punto Marx sarebbe forse d’accordo, ma, ripe­tiamo, egli si inte­ressa al lavoro, per­ché lì si tro­vano l’origine e la mani­fe­sta­zione delle disu­gua­glianze. Secondo Marx, l’accumulazione del capi­tale pro­voca neces­sa­ria­mente disoc­cu­pa­zione, par­ziale, occa­sio­nale o per­ma­nente. Que­ste realtà, delle quali dif­fi­cil­mente si potrebbe con­te­stare l’importanza nel mondo attuale, sono total­mente assenti nell’opera di Piketty.

Marx parte, ovvia­mente, da un altro prin­ci­pio: è il lavoro che crea la ric­chezza. L’idea potrebbe sem­brare desueta. Ma indica una ten­sione irri­solta del capi­ta­li­smo: che ha biso­gno della forza lavoro e al tempo stesso cerca di farne a meno. I lavo­ra­tori sono neces­sari alla sua espan­sione, ma se ne sba­razza per ridurre i costi, per esem­pio auto­ma­tiz­zando la pro­du­zione. Marx stu­dia a lungo il modo in cui il capi­ta­li­smo genera una popo­la­zione ope­raia ecce­dente rela­tiva. Que­sto pro­cesso rive­ste due forme fon­da­men­tali: o si licen­ziano lavo­ra­tori, o si smette di incor­po­rarne di nuovi. Di con­se­guenza, il capi­ta­li­smo pro­duce dipen­denti eli­mi­na­bili o un eser­cito di riserva di disoc­cu­pati. Paral­le­la­mente all’aumentare del capi­tale e della ric­chezza, cre­scono sot­toc­cu­pa­zione e disoccupazione.

Cen­ti­naia di eco­no­mi­sti hanno ten­tato di cor­reg­gere o con­fu­tare que­ste ana­lisi, ma l’idea di un aumento della forza di lavoro ecce­dente sem­bra con­fer­mata: dall’Egitto al Sal­va­dor e dall’Europa agli Stati uniti, la mag­gior parte dei paesi sof­fre di livelli ele­vati o cri­tici di sot­toc­cu­pa­zione e disoc­cu­pa­zione. In altri ter­mini, la pro­dut­ti­vità capi­ta­li­sta eclissa il con­sumo capi­ta­li­sta. Per quanto spen­dac­cioni pos­sano essere, i ven­ti­cin­que gestori di hedge fund non arri­ve­ranno mai a con­su­mare i loro 21 miliardi di dol­lari di remu­ne­ra­zione annuale. Il capi­ta­li­smo è gra­vato da quel che Marx chiama i mostri della sovrap­pro­du­zione, sovrap­po­po­la­zione e iper­con­sumo. Da sola, la Cina può senza dub­bio pro­durre abba­stanza merci per ali­men­tare i mer­cati euro­peo, sta­tu­ni­tense e afri­cano. Ma che acca­drà alla forza lavoro nel resto del mondo? Le espor­ta­zioni cinesi di tes­sili e mobili verso l’Africa sub­sa­ha­riana si tra­du­cono in una ridu­zione di posti di lavoro per gli afri­cani. Dal punto di vista del capi­ta­li­smo, abbiamo un eser­cito in espan­sione, for­mato da lavo­ra­tori sot­toc­cu­pati e da disoc­cu­pati per­ma­nenti, incar­na­zione delle disu­gua­glianze contemporanee.

Poi­ché Marx e Piketty vanno in dire­zioni diverse, è logico che pro­pon­gano solu­zioni diverse. Piketty, pre­oc­cu­pato di ridurre le disu­gua­glianze e miglio­rare la distri­bu­zione, pro­pone un’imposta mon­diale e pro­gres­siva sul capi­tale, per evi­tare una diver­genza illi­mi­tata delle disu­gua­glianze patri­mo­niali. Egli rico­no­sce che quest’idea è uto­pica, ma la ritiene utile e neces­sa­ria: Molti respin­ge­ranno l’imposta sul capi­tale come una peri­co­losa illu­sione, pro­prio come poco più di un secolo fa acca­deva all’imposta sul red­dito. Quanto a Marx, non pro­pone nes­suna solu­zione vera e pro­pria: il penul­timo capi­tolo del Capi­tale allude alle forze e alle pas­sioni che nascono per tra­sfor­mare il capi­ta­li­smo. La classe ope­raia inau­gu­rerà una nuova era nella quale regne­ranno la coo­pe­ra­zione e la pro­prietà comune della terra e dei mezzi di pro­du­zione. Nel 2014, anche que­sta pro­po­sta è uto­pica o redi­bi­to­ria, a seconda di come si valuta l’esperienza sovietica.

Non si tratta di sce­gliere fra Piketty e Marx. Per par­lare come il primo, si trat­te­rebbe piut­to­sto di chia­rire le dif­fe­renze. L’utopismo di Piketty, ed è uno dei suoi punti di forza, rive­ste una dimen­sione pra­tica, nella misura in cui egli parla il lin­guag­gio fami­liare delle impo­ste e della rego­la­zione. Egli si affida a una coo­pe­ra­zione mon­diale, e anche a un governo mon­diale, per l’applicazione di un’imposta anch’essa mon­diale che evi­terà una spi­rale di disu­gua­glianze senza fine. Pro­pone una solu­zione con­creta: un capi­ta­li­smo alla sve­dese, che ha dato prova di sé riu­scendo a eli­mi­nare le dispa­rità eco­no­mi­che estreme. Non si sof­ferma né sul lavoro ecce­dente, né sul lavoro alie­nante, né sul fatto che la società ha per moventi il denaro e il pro­fitto; al con­tra­rio, li accetta, e vor­rebbe che noi faces­simo lo stesso. In cam­bio, ci dà una cosa che cono­sciamo già: il capi­ta­li­smo, con tutti i suoi van­taggi e meno inconvenienti.
 
 
La catena d’oro e il fiore vivente

In fondo, Piketty è un eco­no­mi­sta ben più con­ven­zio­nale di quanto si pensi. Il suo ele­mento natu­rale sono le sta­ti­sti­che rela­tive ai livelli di red­dito, i pro­getti di tas­sa­zione, le com­mis­sioni inca­ri­cate di esa­mi­nare tali que­stioni. Le sue rac­co­man­da­zioni per ridurre le disu­gua­glianze si rias­su­mono in poli­ti­che fiscali impo­ste dall’alto. Si mostra per­fet­ta­mente indif­fe­rente ai movi­menti sociali che, nel pas­sato, hanno potuto met­tere in discus­sione le disu­gua­glianze e potreb­bero nuo­va­mente gio­care que­sto ruolo. Sem­bra anche più pre­oc­cu­pato dell’incapacità da parte dello Stato di ridurre le disu­gua­glianze, che delle disu­gua­glianze pro­pria­mente dette. E, ben­ché egli evo­chi sovente, a giu­sto titolo, alcuni roman­zieri del XIX secolo come Honoré de Bal­zac e Jane Austen, la sua defi­ni­zione di capi­tale rimane troppo eco­no­mica e ridut­tiva. Egli non si occupa del capi­tale sociale, delle risorse cul­tu­rali e del saper fare cumu­lati, di cui bene­fi­ciano i più agiati e i loro discen­denti. Un capi­tale sociale limi­tato con­danna all’esclusione quanto un conto in banca vuoto. Ma anche su que­sto punto, Piketty non ha niente da dirci.

Marx ci dà al tempo stesso di più e di meno. La sua invet­tiva, ben­ché più pro­fonda e più vasta, non offre alcuna solu­zione pra­tica. Lo si potrebbe defi­nire un uto­pi­sta anti-utopista. Nella post­fa­zione alla seconda edi­zione tede­sca del Capi­tale, egli rim­pro­vera quelli che vogliono scri­vere delle ricette per le bet­tole del futuro. E, ben­ché dai suoi scritti eco­no­mici si deli­nei una visione, essa non ha grandi rap­porti con l’egualitarismo. Marx ha sem­pre com­bat­tuto l’uguaglianza pri­mi­ti­vi­sta, che si tra­duce in povertà per tutti e medio­crità gene­rale. Se rico­no­sce la capa­cità del capi­ta­li­smo di pro­durre ric­chezza, ne rifiuta il carat­tere anta­go­ni­sta, che subor­dina l’insieme del lavoro e della società alla ricerca del pro­fitto. Più egua­li­ta­ri­smo non farebbe che demo­cra­tiz­zare que­sto male.

Marx cono­sceva la forza della catena d’oro, ma rite­neva che fosse pos­si­bile spez­zarla. Che cosa sarebbe suc­cesso in que­sto caso? Impos­si­bile dirlo. La migliore rispo­sta che Marx ci abbia offerto si trova forse in un testo gio­va­nile dove egli se la prende con la reli­gione e, già allora, con la catena coperta da fiori imma­gi­nari: La cri­tica ha fatto cadere i fiori imma­gi­nari che ornano la catena, non per­ché l’uomo porti una catena senza sogno né con­so­la­zione, ma per­ché se la scrolli di dosso e rac­colga il fiore vivente.

* Rus­sell Jacoby è docente di sto­ria all’università di Cali­for­nia a Los Ange­les. Autore, in par­ti­co­lare, di The Last Intel­lec­tuals (1987), The End of Uto­pia (1999) e, più recen­te­mente, del sag­gio Les Res­sorts de la vio­lence. Peur de l’autre ou peur du sem­bla­ble?, Bel­fond, Parigi, 2014.
Tra­du­zione di Mari­nella Correggia

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