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Bifo, Negri e l'algoritmo del finanzismo

di Sebastiano Isaia

sisifo vecellioScrive Franco Berardi Bifo: «Non so come andranno a finire le elezioni francesi. Quel che so è che il Front National è la sola forza politica capace di interpretare i sentimenti prevalenti nel popolo francese: odio nazionalista riemergente contro l’arroganza tedesca, e ribellione sociale contro la violenza finanziaria. Un mix inquietante ma potente, che cancella la distinzione tra destra e sinistra». Esatto. Ma come dobbiamo spiegare questa cancellazione?

Se si vuole dire che difficilmente il disagio sociale e la rabbia delle classi subalterne si trasformano spontaneamente (meccanicamente) in un’autentica lotta di classe potenzialmente rivoluzionaria; e che anzi la crisi sociale non raramente (anzi!) avvantaggia le soluzioni borghesi più reazionarie, perché il vuoto della rivoluzione è presto coperto dalla controrivoluzione (il più delle volte preventiva), se si vuole dire questo non posso che dichiararmi d’accordo. È la storia del “secolo breve” che ci ammonisce in tal senso: dal fascismo al nazismo, dallo stalinismo ai Fronti Popolari, dal populismo di “destra” a quello di “sinistra” la lezione è infatti univoca. Come il proletariato possa farsi classe per sé e dunque trasformarsi nel partito rivoluzionario immaginato a suo tempo da Marx, ebbene questo problema, ineludibile per chi intende affermare una posizione radicalmente anticapitalista, aspetta ancora, non dico una corretta soluzione ma un’adeguata impostazione. Perché esso va naturalmente riformulato alla luce del secolo e mezzo di acqua passata sotto i ponti del Capitalismo mondiale dai tempi in cui il rivoluzionario di Treviri scriveva il Manifesto del Partito Comunista insieme al noto amico di merende. Questo almeno all’avviso di chi scrive.

Ma il post di Bifo insinua nella mia testa una diversa lettura circa il venir meno della distinzione destra-sinistra nell’attuale congiuntura europea. A mio avviso la cosa va spiegata come segue: “destra” e “sinistra” condividono la stessa dimensione politico-ideologica, sintetizzabile nel concetto borghese di Nazione, o Patria, o Paese, o Bene Comune e via declinando con le parole chiamate a nominare il vigente Dominio sociale. È lo stesso Bifo che legittima questa (settaria?) interpretazione, visto che per lui la “destra” francese ha difeso una posizione sovranista contro la globalizzazione capitalistica (schierandosi per il NO al referendum del 2005 sulla Costituzione europea), mentre la “sinistra” francese si è all’opposto appiattita su una posizione antisovranista e schiettamente europeista.  «Dani Cohn Bendit e Toni Negri insieme si pronunciarono a favore del “sì” per il superamento dello Stato-nazione. Questa scelta sanciva l’irrilevanza della cultura di origine sessantottina (e della cultura in generale) rispetto ai destini dell’Unione, ma soprattutto dimostrava che non avevamo capito cosa fosse l’Unione europea. Il discorso anti-sovranista si riduceva a un’affermazione puramente formale: opporsi alla cessione di sovranità è regressivo. È vero, ma a chi si stava cedendo sovranità? Non a una forma politica democratica post nazionale, bensì a un organismo intergovernativo che aveva e ha la sola funzione di imporre gli interessi dell’accumulazione di capitale finanziario, e di ridurre in completa soggezione il lavoro».  Si capisce qui che la sostanza della cosa, ossia la natura capitalistica tanto della dimensione nazionale quanto della dimensione sovranazionale è completamente lasciata da parte, mentre tutta l’attenzione è orientata verso la cosiddetta “sovrastruttura politica”.

Che senso ha, dal punto di vista autenticamente anticapitalista, sostenere che «opporsi alla cessione di sovranità è regressivo»? Nessun senso. Come nessun senso, sempre in relazione a quel bizzarro punto di vista, ha la tesi opposta: «opporsi al mantenimento della sovranità è regressivo». Entrambe le tesi mantengono fermo, come dato naturale immodificabile, il confine sociale all’interno del quale operare le scelte – sovraniste o sovranazionaliste che siano. Dalla prospettiva immaginata da chi scrive, evidentemente non praticata né da Toni Negri né da Bifo, appare «regressivo» (o ultrareazionario, secondo il rozzo linguaggio che preferisco) qualsiasi sforzo che non metta radicalmente in questione i vigenti rapporti sociali. Dalle critiche di Bifo si capisce che il solo “internazionalismo” che taluni intellettuali di “estrema sinistra” sanno concepire e opporre ai sovranisti d’ogni tendenza politica è quello sintetizzabile nello slogan che segue: Un’altra Unione Europea è possibile! Certo, un’Unione «democratica e post nazionale», sperabilmente più “equa e solidale”, ma pur sempre un’Unione confinata nella dimensione capitalistica (perché di questo si tratta anche nell’argomentare del compagno Bifo, al netto di certo gergo “radicale-postmoderno”), magari non più dominata dalla demoniaca e dittatoriale economia finanziaria e sottoposta al primato della politica, secondo i tradizionali auspici degli antiliberisti di “destra” e di “sinistra”.

Bifo può considerare «un errore» la scelta di Negri del 2005 perché egli si muove sostanzialmente sullo stesso terreno dell’intellettuale padovano. Personalmente non attacco «Il discorso anti-sovranista» di Negri e compagni perché «si riduce a un’affermazione puramente formale», come scrive Bifo: lo faccio perché ritengo che quel formalismo sia tutto interno all’ordine capitalistico delle cose, perché esso si inquadra perfettamente nel dibattito borghese, nazionale e internazionale, intorno ai destini della società europea.

Ora, volere una vera Unione Europea, ossia uno spazio sociale (economico, politico, istituzionale, ecc.) capitalistico che superi la vecchia dimensione degli Stati nazionali nel Vecchio Continente, e non volere la germanizzazione di quella stessa Unione a me pare sommamente contraddittorio, almeno se ci si misura con la realtà del processo storico-sociale e non con l’irrealtà dell’ideologia, “regressiva” o “progressiva” che sia. Ecco perché mi metto a ridere quando leggo passi come questi: «Martin Wolf del Financial Times ha osservato che l’eurozona è stata fatta per essere un’unione tra democrazie, non un impero. La Merkel e Schäuble dovrebbero ricordarselo» (Philippe Legrain, Voci dall’estero). Qualcuno pensa di farglielo “ricordare” ricorrendo alle maniere forti, perché com’è noto i tedeschi comprendono solo il linguaggio della forza…

Come sanno i lettori che hanno la bontà di leggere le mie modeste cose, io mi batto contro l’alternativa del Demonio (o del Dominio) che invita a scegliere fra Sovranismo e Sovranazionalismo, ritorno alle monete nazionali e difesa della moneta unica europea, protezionismo economico e integrazione economica europea. Insomma, sono per l’uscita dal Capitalismo (in ogni sua forma politico-istituzionale e configurazione geopolitica), non dall’Unione o dall’Euro. Già sento la legittima domanda/obiezione: «Vasto e bel programma, certo, ma come linea politica tattica, cosa consigli?» La lotta di classe senza alcun riguardo per gli interessi nazionali e sovranazionali, dalla Germania alla Grecia. Anche per ciò che concerne il “programma minimo” so di non proporre qualcosa di immediatamente fattibile né di facile implementazione. Ma come dice quello: «È quest’acqua qua!», e vi giura che io non ne ho colpa.

Scrive Bifo, dopo aver elogiato la «prevedibilmente» perdente strada greca «verso una riduzione umanitaria [sic!] del rigore finanziario»: «Naturalmente tutti sanno che la Germania è mutata profondamente nella seconda parte del ventesimo secolo, eppure la sfiducia e il disgusto che il contribuente tedesco prova di fronte ai Greci contemporanei (sfiducia e disgusto che il gruppo dirigente tedesco alimenta con il suo stile arrogante) sembrano ripropongono talora i sentimenti che la “belva bionda” provava davanti all’ebreo. La belva bionda si è democratizzata negli ultimi decenni, questo è noto. Ha sostituito l’uniforme militare con le mezze maniche del ragioniere. Ma l’incrollabilità della fede è la stessa». Modestamente propongo al lettore una chiave di lettura centrata non sull’esperienza nazista, ma su quella leghista; non sulla «belva bionda» (ancora a questo siamo!) ma sulla «camicia verde». Anche l’esperienza dell’ex Jugoslavia va bene. Scrivevo nel post Fermentazione greca: «La polemica tedesca sulla cicala meridionale ricorda molto da vicino la polemica antimeridionale leghista degli anni Novanta, ma anche la lotta politica antiserba della Croazia e della Slovenia ai tempi della ex Jugoslavia. Al netto della schiuma ideologica, che tanto disturba anche l’analisi di molti “materialisti storici”, le questioni dirimenti si aggrovigliano sempre intorno alla scottante questione della generazione e distribuzione della ricchezza sociale. I Paesi “nordici” lo sanno e ci tengono a ribadirlo sempre di nuovo; i Paesi “meridionali” lo sanno ma fanno finta di non saperlo, per non pagar dazio, come si dice volgarmente. La tragedia, per me, è che dentro questo “dibattito” capitalistico i nullatenenti non hanno una posizione autonoma, ma si accodano alle “formiche” piuttosto che alle “cicale”, mentre si tratterebbe di mandare a quel paese entrambe le bestie». A quanto pare Bifo prende le parti delle “cicale”, magari in attesa dei soliti e mai meglio chiariti “equilibri sociali più avanzati”. Per come la vedo io, uno studio serio sulla struttura capitalistica della Grecia degli ultimi venti anni (quantomeno) aiuterebbe a capire i termini reali della crisi profonda che affligge quel Paese, al di là di vittimismi e risentimenti nazionali oggi cavalcati anche da Syriza. Non a caso e non per “errore”. So bene che affermare questo basta e avanza per venir bollati da taluni come oggettivi servi sciocchi della Germania e della Troika (nonché degli Stati Uniti e di Israele: ma sì, abbondiamo!); ma chi se ne frega!

«Non penso che Tsipras e Varoufakis siano dei traditori»: almeno su questo punto la pensiamo allo stesso modo*, sebbene muovendo da posizioni completamente diverse. «Penso», continua Bifo, «che abbiano tentato di fare qualcosa che non si può fare: hanno tentato di opporre la democrazia alla matematica finanziaria. Prevedibilmente la matematica ha vinto. Hanno tentato di rovesciare l’irreversibile, di evitare l’inevitabile. Prevedibilmente non ce l’hanno fatta». Una lettura piuttosto scontata, banale, oltre che del tutto sbagliata di quanto accade in Europa. La dimensione sistemica, ossia profondamente sociale, dello scontro oggi in atto nel Vecchio Continente, come parte di un conflitto sistemico più grande che investe l’intero pianeta (vedi alle voci competizione capitalistica e contesa interimperialistica), è completamente obliterata, a vantaggio del problema rubricato da più parti come La fine della democrazia nel Finanzcapitalismo. Naturalmente il problema dei limiti della politica nell’epoca della sussunzione totalitaria del mondo al Capitale (tout court) è reale, ma occorre impostarlo correttamente, cosa che a mio avviso include anche, oltre che l’abbandono di certi miti intorno alla forza del Politico nei “formidabili” anni Settanta, una critica radicale della democrazia borghese come forma politico-ideologica di controllo e di dominio. Perché allora non usciamo più dalla falsa alternativa democrazia-fascismo – ma anche primato della politica-primato dell’economia. «Piantiamola con la retorica della democrazia. Democrazia è una parola ripugnante e ipocrita», scrive lo stesso Bifo. Come già aveva capito il giovane Marx della Questione ebraica, lo Stato di diritto borghese è, al contempo, la sfera della falsa (illusoria) universalità e lo strumento di dominio di una classe sulle altre. Funzione ideologica (l’uguaglianza formale di tutti i cittadini dinanzi alla Legge) e funzione politico-istituzionale sono le due facce della stessa cattiva (disumana) medaglia.

Insomma, dobbiamo iniziare a prendere molto sul serio la matematica del Dominio capitalistico considerato in tutti i suoi aspetti (economici, politici, culturali, psicologici, ecc.), magari abbandonando certe infondate suggestioni intorno all’algoritmo finanziario che «non può comprendere la sensibilità» né «l’imperfezione umana», così da rendere alla fine inevitabile la guerra chiamata «a ristabilire aggressivamente i diritti del corpo contro il dominio arbitrario dell’astratto». Senza un’analisi storicamente e socialmente fondata – in termini anticapitalistici, beninteso – dell’attuale guerra sistemica europea la chiave di lettura biopolitica produce certamente un suono gradevole all’orecchio dell’intellettuale avvezzo ai concetti chiamati a dar conto del “Capitalismo cognitivo”, ma non apre alla comprensione nessuna porta. Ecco perché quando Bifo sostiene che, a differenza dei «bravi scolaretti Rajoy, Hollande e Renzi [che] hanno penosamente provato a fare i compiti a casa», «i greci hanno invece deciso di non piegarsi ulteriormente all’umiliazione e alla rapina finanziaria», egli aderisce a un punto di vista squisitamente borghese, nell’accezione squisitamente storico-sociale del termine. E qui ritorniamo alla crisi sociale che «cancella la distinzione tra destra e sinistra». Appunto.

* Scriveva Massimo Panarari (La Stampa) qualche giorno fa: «Stando ai rumors, Yanis Varoufakis è ormai un po’ caduto in disgrazia, cosa che spiegherebbe parzialmente quella che potrebbe anche essere un’aggressiva strategia di immagine volta a mostrare il volto umano (troppo umano…) del castigamatti della Trojka [che nel frattempo ha cambiato nome: Le Istituzioni]. Con un quesito che rimane, però, insoluto: cosa c’entra un marxista (auto) dichiarato e titolare del dicastero più delicato per un Paese prostrato dall’austerità con la life politics e la politica pop? Alla popolazione ellenica, che si sta infatti scatenando furibonda sui social, l’ardua sentenza…». Ecco in azione il solito moralismo dei populisti d’accatto! Da Berlusconi a Varoufakis a rovistar nella popò. Chi di populismo ferisce di populismo perisce? Può darsi. Ma oggi mi sento di dover spezzare una lancia a difesa del compagno Ministro. Non prendertela, Yanis, è tutta invidia sociale che cola!

«”Tutto quello che chiediamo è: date una possibilità alla Grecia”. Comincia così l’editoriale dei vertici economici del governo Tsipras sul Financial Times, secondo cui “il Paese è in una posizione come quella di Sisifo, un uomo condannato a trascinare un macigno in cima a una collina solo per vederlo rotolare ogni volta”» (ANSA, 17 marzo 2015). Qualcuno potrebbe chiedere con qualche maligna ironia: «Ma dov’è finito il radicalismo antiausterity di Syriza?». Qualcuno, non io.

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