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Quando il futuro determina il presente

Riflessioni sul panico da complessità

di Pierluigi Fagan

viaggi spazio temporaliFacendo alcuni esperimenti in riferimento alla teoria della meccanica quantistica, alcuni dati sembrano dire che il futuro pre-determini il presente, cioè il passato. In questi giorni imperversa in rete i risultati di uno di questi esperimenti, fatto sulla la cosiddetta “scelta ritardata” di J. A. Wheeler. La cosa affascina come affascinano molte cose di questo luna park quantistico in cui fisica e metafisca collassano l’una nell’altra creando a ripetizione punti interrogativi di cui la nostra logica non trova soluzione. La dissonanza logico-cognitiva della mq è piacevole ma vi sono forme di dissonanza cognitiva meno piacevoli anche se basate sullo stesso principio del futuro come causa del presente. Anche qui ci sono “scelte ritardate” ma al punto da non scegliere più o scegliere di non scegliere.

L’Espresso annuncia una nuova epidemia comportamentale, che ha un brand esotico: hikikomori. Un made in Japan per il fenomeno di giovani che rifiutano la socialità e si chiudono in una stanza, defezionano dal presente probabilmente perché vengono atterriti dalla visione o dall’impedimento ad una visione, del futuro. La cecità della speranza, l’occlusione del futuro, retroagisce sul presente ed i portatori di questa posizione esistenziale, reagiscono alla privazione di futuro auto-privandosi del presente. Scelgono di non scegliere.

Nulla meglio di questi 3:27 minuti per capire di cosa parliamo (qui). Il fenomeno nasce (o nasce la sua osservazione) in Giappone ma comincia a diffondersi un consenso tra sociologi e psicologi occidentali sul fatto che il fenomeno esiste anche qui da noi e si sta diffondendo rapidamente1.

Il problema, preso più in generale e prima ancora della sua specifica definizione giapponese, venne trattato in un bel libro di M. Benasayag e G. Schmit, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano, 20042. Secondo i due autori, già una decina di anni fa, era chiaro che «la nostra epoca sarebbe passata dal mito dell’onnipotenza dell’uomo costruttore della storia ad un altro mito simmetrico e speculare, quello della sua totale impotenza di fronte alla complessità del mondo» (p. 23). La posizione dunque è: possiamo fare qualsiasi cosa ma non abbiamo la più pallida idea di cosa fare.

Torna qui anche il problema  “norma – devianza”. Se connotato come deviante,  il comportamento del ritirato sociale, verrà gravato dal giudizio che, di fatto, nega le ragioni del suo comportamento. La situazione esistenziale del portatore del problema, già gravata da varie e personali ragioni psico-esistenziali, riceverà il carico insopportabile dello stigma della riprovazione sociale –sei proprio e solo tu ad esser strano e fatto male-. Questa secondo carico retroagisce sul primo, fino alle estreme conseguenze alle quali non si arriverebbe solo in base al carico delle prime. In un certo senso, il recluso sociale è il risultato di una apparente scelta personale che però anticipa, dando un qualche senso di residua autonomia, una decisione sociale di ostracismo.

Ad aggravare il quadro, si può notare che per la mia generazione (sono del ’58) e stante che il contesto del problema era in parte diverso3, si creò una solidarietà anagrafica e si pose il “problema” all’interno della generazione adulta che quindi divenne il bersaglio critico ed il modello negativo sul quale far convergere il disprezzo. Oggi, invece, la frattura corre interna alle generazioni. Ci sono élite giovanili che amano l’esibizionismo tecnologico e sessuale, esercitano bullismo, si conformano quieti e felici ai dogmi insensati della società priva di senso e tiranneggiano su i perplessi, creando un circuito di emarginazione – auto-emarginazione che aumenta la solitudine del stante in disparte. Inoltre, è prerogativa del nostro sistema risolvere problemi creandone altri poiché da ogni transazione il sistema trae linfa riproduttiva. Ogni soluzione apparente di problemi è una transazione economica che sia la parcella dello psicologo, il medicinale, l’ultimo modello di gadget elettronico, il social che ti farà sembrare più social mentre sei disperatamente e fisicamente solo. L’intero sviluppo dell’elettronica da intrattenimento e il paradossale trasferimento della socialità concreta nel virtuale, non fanno che fornire al ritirato sociale altrettanti buoni motivi per ritirarsi abbracciato al suo conforto elettronico. Ma, se si è in vena di ricerca di cause prime, così come gli eroinomani non erano tali perché l’eroina è ottimo anestetico psico-fisico, i ritirati sociali non sono tali perché c’è facebook.

La diffusione poi del disastro famigliare, che siano genitori troppo impegnati al lavoro per curare normali interrelazioni genitoriali o mancanza di un genitore nelle coppie separate o divorziate o incomprensione profonda intergenerazionale, certo non aiuta. Tra l’altro, anche il genitore è un individuo stritolato dal disadattamento alla complessità per cui cede la sua funzione di modello, anche quella di modello negativo perché non è un modello in senso forte ma è un “altrettanto debole”. Non aiuta anche l’ansia del genitore del recluso se non a farlo recludere ancor di più e non aiuta l’indisponibilità di fondo del o dei genitori a sentirsi parti delle cause, scaricando implicitamente la responsabilità dello strano comportamento sul soggetto che a questo punto entra anche in loop da senso di colpa.

Gli esiti incerti degli sforzi di definizione e pesatura sociale del fenomeno indicano un imbarazzo categoriale e dove c’è un imbarazzo categoriale, in genere, vuol dire che il nostro oggetto ha caratteristiche molto più “nuove” dei principi su cui si sono formate le categorie in uso . Sono solo giovani  o anche meno giovani? Sono solo maschi o anche femmine? Il fenomeno si manifesta solo nella maniera più estrema o va considerato anche nella sua forma lieve, quella in cui si mantiene una socialità di facciata ed una apparentemente efficiente integrazione nelle routine di una vita cosiddetta “normale”? Ha sovrapposizione o no con la depressione? con la dipendenza da Internet? con la compulsione dei giochi elettronici con o senza scommessa in denaro? con il rifiuto all’impegno sociale e politico che caratterizzò altre generazioni? con l’ostinata permanenza a casa sono a tarda età? Questo futuro occluso è tale per il Giappone che ha una disoccupazione giovanile quasi inesistente, non ha immigrazione ed una vasta autonomia culturale così come lo è per l’Italia, la Francia o addirittura il centro dell’Impero, gli USA? La questione è di sfondo anche alla decisione implicita di contenersi nella riproduzione così come indica la gara alla decrescita demografica che vede Giappone, Germania ed Italia in prima fila e la Francia e la Gran Bretagna appena più prolifiche state le alte percentuali di migranti di cui è composta la loro popolazione?

Tutto questo ci porta alla Grande Rimozione collettiva della crisi epocale del nostro tipo di società, la società occidentale.  Questa Grande Rimozione, rimozione proprio del carattere”epocale”, cioè straordinario,  opera in vari modi ed a vari livelli. Può esser  interessante sottolineare non l’atteggiamento degli interni al sistema il cui negazionismo e il cui circuito inganno-autoinganno è normale sia ben attivo ed in piena opera ma dei critici del sistema. Prendiamo ad esempio il problema della crisi economica. La narrazione principale che spiega criticamente la crisi è che l’economia finanziaria e monetaria ha preso il posto di quella produttiva. Il perché però non è chiaro. C’è chi vede un destino già scritto nella logica del capitale, una sorta di evoluzione pre-determinata tipica di certo neo-positivismo economicista e c’è chi vede un improvviso acuirsi dell’elitismo, della bramosia di potere e di denaro, la cospirazione dei Pochi contro i Molti. Quale che sia il giudizio che diamo di queste attribuzioni di causa, quello che queste spiegazioni hanno in comune è una sorta di sotterraneo, implicito, convincimento della reversibilità del processo. Così come il processo si è svolto sarà pur possibile riavvolgerlo e tornare al lavoro, produzione, democrazia e speranza. Alternativamente, a questo punto, si pongono quei decrescisti che di nuovo, sottendono una alternativa di scelta e propongono la via della decrescita volontaria. Alcuni, credendo di far un servizio utile all’opinione sulla decrescita, premettono che la decrescita non è riduzione del Pil ma… (seguono vari tipi di affabulazioni poco chiare e molto poco concrete). Liberisti crescisti, nostalgici keynesiani, i nuovi folgorati dal potere della moneta, decrescisti obiettori della crescita ma anche socialisti onestamente democratici e forse anche gli “ultimi comunisti” si muovono alternativamente l’uno rispetto all’altro ma tutti in accordo al presupposto che il sistema di vita occidentale, la società ordinata dalla produzione e scambio, che ha due/tre secoli di vita, ne ha altrettanti se non di più davanti a sé, magari cambiando questo o cambiando quello, inclusa una sua più intelligente e volontaria moderazione. Il problema è che alcuni cominciano a “sentire” che non è così4, non c’è alcuna alternativa di modo, c’è solo da pensare all’alternativa della sostanza. Questa è l’epocalità e questa è rimossa.

L’assedio del Resto del mondo all’Occidente, che sia economico, finanziario, basato sull’export o fatto di migranti, quando non da fondamentalisti religiosi o da sorridenti formichine cinesi che s’impossessano silenziosamente di interi quartieri il cui arredo urbano mostra, ad un tratto, lo stesso look dei bassi di Shanghai, dice il contrario. La frequenza ed intensità del disordine ambientale dice il contrario. Dice il contrario il fatto che la crisi non era minimamente aspettata, è stata ed è tutt’ora mal diagnosticata, nessuno ha idee concrete su come farvi fronte e giorno per giorno registriamo effetti sempre più pervasivi e picchi di disagio sempre più alti.  E dice il contrario l’apparente irresponsabilità ed irrazionalità delle élite che continuano a fare quello stesso fare che ha portato a questa crisi. Anche il tracollo dell’etica manda segnali. E dice il contrario anche l’accoppiata tra lo strapotere intellettuale di una élite occidentale la cui inconsistenza è palese (e già il fatto che gente ed idee così scombinate abbiano un potere così assoluto è un sintomo esplicito della decadenza dei tempi) in abbinata al salmodiare dell’intellettualità critica-critica che ripete stancamente le litanie della mistica del conflitto5, predicato ed evocato, senza che in realtà si accenda la benché minima scintilla di ribellione concreta. Anche con la coscienza del fatto che dobbiamo scappare da un modo di essere nel mondo, non abbiamo alcun piano sul dove andare e senza meta, nessun viaggio ha il suo inizio anche se nel dove restiamo fermi, la situazione peggiora di giorno in giorno. Come l’evoluzione animale insegna, se si è relativamente forti si combatte, se si hanno ancora forze e qualche chance si scappa, se invece si è alla “che dio me la mandi buona” ci si freeza, ci si congela sperando che il caso ci veda male e ci passi oltre.

Lo stesso concetto di società umana nasce per opporre al cambiamento costante delle condizioni di natura, un sistema asincrono che trasformasse l’imprevedibilità continua in routine, alleggerisse stress e carico cognitivo richiedendo di contro qualche sacrificio di conformazione, disagio da convivenza di eccessiva prossimità, sacrificio di piccole libertà individualistiche. Oggi è proprio questo sistema nato per intermediare il divenire caotico e perenne ad essere soggetto a caos e cambiamento perenne, è come se piovesse in casa e visto che la casa nasce proprio per proteggerci dalla pioggia, ecco che  il problema diventa “fondamentale”.

Se accendiamo i nostri neuroni specchio e proviamo a  fare esercizio di astrazione ed al contempo di immedesimazione nella condizione del giovane con la sua strumentazione cognitiva quasi vergine ed ancora in formazione e le sacche della memoria quasi vuote e ci poniamo così aperti e vogliosi di futuro davanti allo stream informativo, non possiamo che convenire il senso di profondo straniamento. Ci sono minacce nucleari per non ben chiari e giustificati motivi, ci sono minacce ecologiche catastrofiche rinforzate da percezioni presenti di fenomeni fuori scala, saremmo invasi da zingari e neri, tagliatori di teste intabarrati di nero ed asiatici, non c’è e non ci sarà lavoro ma ci sarà sempre più la competizione aggressiva e sempre meno ordinata per contendersi il poco per i molti. Se vogliamo coltivare ambizioni ci tocca migrare. Il potere degli adulti dice che così già è, sarà, dovrà essere ed a noi sta solo adeguarci o soccombere. Siamo indebitati prima ancora di aver usufruito del benché minimo vantaggio di esserlo e lo siamo a livelli superiori ad ogni forma logica e razionale di possibile estinzione del debito. Così come non avrai un lavoro stabile non avrai probabilmente una pensione e nonostante si allunghi la vita media nessuna sa dirti come vivrai da vecchio.  Non ci sono più eroi, non c’è riscatto, non c’è la speranza di una utopia, qualcosa, qualcuno che ci traghetti sull’altra sponda del Mar Rosso, non c’è più dio e non c’è Provvidenza. La famiglia personale non è porto sicuro, la famiglia amicale è di incerta costituzione (lo è di natura), la famiglia nazionale permette tutto tranne che l’identificazione, la famiglia occidentale è sempre più matrigna cattiva. Non ci sono più i “buoni”.  Nessuno sa più cosa fare e infatti nessuno fa niente. Corrotti, bugiardi, ingannatori, violenti, egoisti, falsi, interessati, contradditori, avidi, ipocriti, irresponsabili, gli adulti al potere, riflettono la condizione vincente e le condizioni necessarie per ottenerla, davvero poco attraenti, davvero poco ispiranti, loro come modello ed il loro status come possibile ambizione.   Non si tratta quindi solo di un futuro difficile, scarso e problematico ma anche della perdita della sua desiderabilità perché a queste condizioni, alle condizioni del tipo di vita futura che si tratteggia davanti alle aspettative, alle condizioni delle regole del gioco vigente, ciò che è scarso è anche non attraente.  Nessuno si mobilita davanti ad una promessa così povera e contraddittoria6.

L’occlusione del futuro, per via della sua scarsità e della sua bruttezza prospettica,  funziona cognitivamente come una piccola morte che viene anticipata ritirandosi dalla vita. La negazione generalizzata di uno stato di crisi ontologico-sociale, lascia l’individuo solo nella dissonanza “se non gioco a questo gioco non avrò un futuro” vs “io a questo gioco non voglio giocare”.

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Durkheim pensava che il suicidio fosse il risultato di una mancanza di norme (anomia) ma anche una dissonanza cognitiva tra aspettative normative e vita vissuta. R.K.Merton vi aggiungeva un elemento di contraddizione tra scopi esistenziali e mezzi messi a disposizione per raggiungerli. Ma queste, sono state pensate come teorie sulle routine, cioè valide in periodi in cui il cambiamento di quadro e la definizione dei fini  sono meno decisive e radicali di quanto avviene al trapasso di una forma di civilizzazione. Quello che oggi possiamo constatare è che il cambiamento di quadro si è fatto permanente, tali cambiamenti sono potentemente strutturali, si manifestano con fenomeni negativi in sé, scompare una qualsivoglia presenza di promessa (i fini) e l’attrezzatura cognitiva per far fronte alla situazione è inesistente non qui o lì ma in generale (i mezzi). Inoltre, la negazione diffusa e consapevole della gravità del problema, lascia l’individuo solo con la sua irrisolvibile dissonanza. Ha più parte in causa la solitudine che il problema e la solitudine può essere sia fisica che cognitiva.

L’adattamento all’era complessa è un problema che dovrebbe riguardare l’intera civilizzazione occidentale, poi le specifiche società in cui questa si articola, poi la mentalità ovvero l’immagine di mondo e l’impianto cognitivo, poi i gruppi sociali tra cui intellettuali presi oggi da una specie di epidemia di vigliaccheria cognitiva ed infine gli individui. Andrebbe affrontata come un cantiere generale, come un alacre impresa di costruzione di una nuova gigantesca cattedrale, di un’arca che salvi i più dal diluvio dei cambiamenti. Fintanto che al suo posto si avrà l’indaffaramento dei piccoli egoismi individuali, il business as usual, la negazione sottostimante il problema, la reiterazione degli schemi consueti -tanto in coloro che tifano per lo status quo, quanto in coloro che tifano per una sua diversa versione-, non si produrrà neanche il primo livello, la pre-condizione di possibilità, per farvi fronte: la consapevolezza condivisa.

Gli hikikomori, i depressi, i ritirati sociali sono le cassandre inconsce che ci dicono che continuando con questo presente, il futuro è una nebbia il cui grigiore diventa sempre più intenso, in cui l’oscuro diventa scuro e l’unica casa in cui nascondersi è noi stessi.

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Note
1 Alcuni link: la trattazione di Wikipedia; una trattazione fatta dalla principale ricercatrice italiana sul fenomeno; un’altra anticipata da un blog interessante.
2 Se ne occupò, tra gli altri, U. Galimberti (qui). Tra l’altro, si può notare l’inversione copernicana tra lo statement mobilitante del dopoguerra “pane e lavoro” e l’attuale situazione di “panico e disoccupazione”.
3 “Solo in parte” sta a significare che poiché alcuni analisi datano proprio al passaggio ’60-’70 la manifestazione concreta dei primi segnali di crisi strutturale che, lungamente negata ed alacremente avversata con vari placebo tra cui l’innovazione tecnologica e quella finanziaria, si è poi manifestata solo in tempi più recenti, si potrebbe collegare la diffusa ribellione giovanile di quei tempi come una anticipazione inconscia, un “sentire” che s’andava a schiantarci. Il giudizio sul ’68 ha passato l’intero arco delle possibili attribuzioni di giudizio, dalla mitologizzazione, alla decostruzione più aspramente critica ed auto-critica, proprio da parte di molti che vi presero parte. Tolta la fenomenologia più contraddittoria ed ingenua, però, sono sempre stato meravigliato dal fatto che molti oggi dicono quello che dicevano ad esempio Marcuse o Baudrillard e molti altri, ma con l’aria di chi ha scoperto l’acqua calda. La vera differenza con allora è che allora si poteva avere la premonizione del disastro, oggi ci siamo davanti, se non dentro.
4 Nelle parole della ricercatrice italiana all’Università di Tokio la cui intervista trovate nel secondo link della nota 1: “A causa di questo, molti giovani giapponesi iniziano a sospettare che il sistema posto in essere per i loro padri e nonni non funzioni più”. Questo “non funziona più” è il rimosso. Che la società, l’economia, l’assetto geopolitico, l’impianto culturale, il nostro modo di stare al mondo vadano male, malino o malissimo è opinione abbastanza diffusa, che tutto ciò sia il segnale che l’intera nostra forme di civilizzazione non funzioni più, è il rimosso. Si rimuove l’epocalità, l’irreversibilità del fatto perché questa constatazione priva un po’ tutti della possibilità di usare le consuete categorie e modi del pensiero. La cosa si nota anche nel linguaggio concettuale dove siamo in piena inflazione di “neo” e “post”. Si dilata l’estensione concettuale del passato nel presente perché questo non porta con sé la sua visibile proiezione nel futuro, i concetti del pensiero come il pensiero stesso, non sono “nuovi” veramente, ma sono solo un restyling di qualcosa che già esiste. Nell’abuso invece degli annunci di morte (fine della storia, della filosofia, della democrazia etc.) si proietta la sensazione di morte che la frattura epocale porta con sé.
5 Anche la “mistica del conflitto”, portato della logica hegeliana, fa parte del modo di pensare tradizionale sebbene sia coltivata da coloro che s’intendono alternativi al modo tradizionale di pensare. Il problema è che i cambiamenti d’epoca de-posizionano sincronicamente tutti i i sistemi, quelli dominanti e quelli antagonisti. Questo non significa sottostimare l’esistenza e financo l’importanza del conflitto che è essenza già nella biologia, significa solo indebolire la concezione fideistica che crede che sia l’antitesi a creare il nuovo in una forma di legge fondamentale della fisica sociale. Ma bisognerà parlarne meglio altrove…
6 Nelle parole dei due autori di L’epoca delle passioni tristi, il passaggio dal futuro-promessa al futuro-minaccia:
E siccome la psiche è sana quando è aperta al futuro (a differenza della psiche depressa tutta raccolta nel passato, e della psiche maniacale tutta concentrata sul presente) quando il futuro chiude le sue porte o, se le apre, è solo per offrirsi come incertezza, precarietà, insicurezza, inquietudine, allora «il terribile è già accaduto», perché le iniziative si spengono, le speranze appaiono vuote, la demotivazione cresce, l’ energia vitale implode.”

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