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Il paradosso del demos (tra legittimità democratica e legittimazione storica)

di Edoardo Greblo

Fin dalla sua nascita la teoria democratica si è confrontata con un grave paradosso: la democrazia non riesce a permeare di sé il processo stesso della sua costituzione. Tuttavia, solo recentemente, in connessione con l'emergere della globalizzazione e l'esplosione del fenomeno migratorio, tale paradosso si è venuto ponendo come una questione cruciale per la riflessione normativa

demos 499La sovranità democratica implica un demos unificato che agisce per governare se stesso su un territorio delimitato. E “l’autogoverno implica l’autocostituzione”.[1] Ma in che modo il demos si è autocostituito e in base a quale autorità? Si tratta di un paradosso che la teoria democratica ha riconosciuto sin dai tempi di Rousseau: infatti, affinché il popolo sia legittimo, “bisognerebbe che l’effetto potesse divenire causa, che lo spirito sociale che deve essere il frutto dell’istituzione, presiedesse all’istituzione stessa e che gli uomini fossero prima delle leggi ciò che devono diventare per opera loro”.[2] Eppure, abbastanza sorprendentemente, la teoria democratica mainstream vi ha prestato ben poca attenzione. Come ha scritto Robert Dahl, il problema di decidere su “chi legittimamente costituisce ‘il popolo’ […] e ha perciò il diritto di governare se stesso […] è stato quasi totalmente trascurato da tutti i grandi filosofi politici che hanno scritto sulla democrazia”.[3] L’avvento dell’“era delle migrazioni”[4] ha però contribuito a modificare in modo sostanziale i termini della questione e a rendere il problema – al quale sono state attribuite diverse denominazioni: il problema dell’unità,[5] il problema dei fondatori,[6] il paradosso democratico,[7] il paradosso della sovranità popolare,[8] il paradosso della legittimità democratica,[9] il paradosso della politica,[10] il problema della costituzione del demos[11]– quanto mai attuale.

La soluzione più lineare del paradosso è stata proposta da Michael Walzer. Quando parliamo di appartenenza e di immigrazione, scrive Walzer, “pensiamo a un gruppo già consolidato e a una popolazione stabile, e così non vediamo la prima e la più importante delle questioni distributive: come si costituisce questo gruppo?”. La domanda sembra suggerire una apertura problematica, smentita però dalla conclusione: “non sto domandando come si è costituito; non m’interessano le origini storiche dei vari gruppi ma le decisioni che prendono, ora su quello che è e sarà il loro gruppo”.[12] Nel momento stesso in cui demanda alla fattualità degli eventi la questione di spiegare come debba essere composta la totalità delle persone impegnate a regolare giuridicamente la loro convivenza, Walzer coglie due risultati in un colpo solo. Da un lato sposta la questione della costituzione del popolo al di là di ogni questione di legittimità, e dall’altro trasforma l’immigrazione, piuttosto che il popolo, nel fenomeno politicamente controverso. Seyla Benhabib procede nello stesso modo. Per appartenenza politica, scrive, “intendo i principi e le pratiche volte a integrare stranieri e forestieri, immigranti e nuovi arrivati, rifugiati e richiedenti asilo, nei sistemi politici esistenti”.[13] Il risultato è che la discussione dell’appartenenza politica si afferma sullo sfondo di un popolo la cui definizione non è passibile di controversia. L’immigrazione è il problema, il popolo è il sé collettivo cui spetta il compito di affrontarlo sulla base della sua cultura politica e dei suoi principi costituzionali.

Ma perché, sino a un passato molto recente, i teorici democratici hanno preferito evitare di discutere “chi legittimamente costituisce ‘il popolo’ e ha perciò il diritto a governare se stesso”, e hanno così rinunciato ad affrontare “il problema del confine”?[14] La risposta è che questo problema mette in luce una circostanza che “non è passibile di soluzione sino a quando si rimane nel quadro della teoria democratica”. Il popolo che dovrebbe stabilire chi ne fa parte e chi ne va escluso si ritrova catturato nel circolo infinito dell’auto-definizione: il demos non può infatti decidere esso stesso della propria composizione.[15] Si tratta di una tesi che riecheggia la critica rivolta da Ivor Jennings al principio di autodeterminazione proposto a suo tempo da Woodrow Wilson per decidere dei confini tra gli Stati europei. In apparenza sembrava ragionevole: lasciate che sia il popolo a decidere. In realtà era assurdo, perché il popolo non può decidere se non vi è qualcuno che decida chi è il popolo.[16] E non a caso i teorici democratici hanno in genere dato per scontata “la legittimità del popolo”, lasciando che la questione del confine venisse risolta dalle forze contingenti della storia. La soluzione prevalente si è perciò generalmente ispirata a una sorta di nazionalismo metodologico: è la nazione intesa in senso pre-politico a costituire il demos in senso proprio e i confini del popolo dovrebbero coincidere con i confini della nazione.[17] È l’ethnos a definire il demos. Altri teorici si sono invece limitati a considerare l’esistenza di una comunità politica delimitata da uno Stato territoriale come un dato fattuale che non abbisogna di giustificazione.[18]

Non può perciò destare sorpresa il fatto che i problemi di legittimazione riguardino unicamente la sostanza normativa dei processi politici. Le norme coperte da sanzioni statali devono godere del consenso dei governati. Ma in che modo stanno le cose per quanto riguarda il popolo? Ha senso parlare di “legittimità” del popolo? Almeno a partire da Locke e Rousseau, ha finito per imporsi non soltanto nella filosofia politica, ma anche nella realtà costituzionale degli Stati occidentali, l’idea che la legittimità di un ordinamento si commisura con la corrispondenza tra direzione politica e volontà popolare. Ma il fatto che sia il popolo a essere “sovrano”, a detenere il potere e a conferire legittimità ai governi non serve a rendere il concetto di “popolo” meno equivoco. Per esempio, è possibile parlare “a nome del popolo” per resistere alla forza dirompente della globalizzazione sia nella prospettiva cosmopolitica di un demos universale sia nella prospettiva nazionalistica di un demos coincidente con l’ethnos. Ma richiamare l’attenzione sul popolo quale fonte di legittimità è una cosa, e interrogarsi sulla sua intrinseca legittimità un’altra.

La strategia più comune per eludere questa difficoltà consiste nell’introdurre una netta linea di demarcazione tra la dimensione empirica della storia e la dimensione normativa della legittimità. L’obiettivo è dimostrare che la questione è concettualmente male impostata e che un’entità come un popolo “legittimo” semplicemente non esiste. Definire l’appartenenza a un demos non è una questione di democrazia, ma di storia.

Il decidersi volontario per una prassi costituente è una finzione giusnaturalistica: nel mondo reale dipende sempre dalla casualità storica e dalla fattualità degli eventi stabilire a chi tocca il potere di tracciare i confini della comunità politica. In linea di massima ciò dipende dall’esito naturalistico di conflitti violenti, di guerre esterne e di guerre civili.[19]

Per comprendere le implicazioni di questa tesi può essere utile proporre una sintetica comparazione, e sostituire la costituzione del popolo con la costituzione del potere politico. Il concetto di potere politico legittimo è un costrutto ideale sorto nella tradizione del contratto sociale. Ma il potere politico non è solo, e neppure principalmente, una costruzione ideale, e i cittadini che vi sono sottoposti sono assoggettati a un ordinamento gerarchico che si è istituzionalizzato al di sopra delle loro teste. Tuttavia, sostenere che in proposito non si possa avanzare alcuna rivendicazione di legittimità e lasciare che i depositari dell’autorità politica vengano plasmati dalle contingenze storiche è un’idea semplicemente antidemocratica. Eppure si tratta proprio della prospettiva che molti teorici democratici tendono a riproporre nel caso del popolo. Perché? Che cosa rende la costituzione del popolo diversa dalla costituzione del potere politico? Perché il potere politico può essere investito da una richiesta di legittimità dalla quale il demos può essere invece esonerato?

Lo scopo delle pagine seguenti è di valutare criticamente la logica che sta alla base di questa linea di demarcazione prendendo in considerazione 1) la ratio che sostiene la necessità di imporre una netta linea di demarcazione tra storia e legittimità collocando 2) la costituzione del popolo nel solco della tradizione contrattualista e dell’idea di legittimità basata sul consenso. La tesi che si intende suggerire è che questa tradizione può ospitare al proprio interno due diversi modelli di legittimazione: uno relativo al potere politico, l’altro relativo al popolo – e che nessuno dei due è privo di tensioni interne. Questa tesi può essere un’occasione per 3) rivisitare la strategia della linea di demarcazione e proporre alcuni interrogativi. Se è infatti possibile sollevare la questione della legittimità sia per il kratos sia per il demos, che cosa accade quando si ritiene che nel primo caso si tratti di un problema essenziale e nel secondo di un problema trascurabile? E quale può essere il significato della differenza tra legittimità democratica e legittimazione storica nel contesto degli attuali dibattiti sulla globalizzazione e sulle migrazioni?

1. Nell’“era delle migrazioni” è diventato sempre più difficile nascondere il problema della costituzione del demos sotto il tappeto del concetto di ethnos. La globalizzazione ha innescato un dibattito sul campo di applicazione della democrazia e l’incremento dei flussi migratori ha imposto l’esigenza di ripensare i criteri dell’appartenenza politica. Il dibattito investe proprio “i confini della comunità politica” e la possibilità di trasformarli, negoziarli o renderli “porosi” di fronte alla crescente interdipendenza dei popoli del pianeta e alle migrazioni transnazionali.[20] Ciò nonostante, si contano sulle dita di una mano i teorici politici che si sono spinti al di là di questa discussione per elaborare l’idea di un popolo legittimo. Ma quali sono, se vi sono, i motivi che possono esentare il demos dall’onere di dimostrare la propria legittimità?

In genere, sono due gli argomenti più diffusi e tutti e due sono radicati nell’idea di consenso. Secondo il primo argomento, la domanda di legittimità, quando si rivolge al demos, si scontra con una impossibilità pratica. L’idea che il popolo sia un’associazione volontaria di individui liberi ed eguali è un ideale politico e non dovrebbe essere intesa in senso letterale.[21] John Rawls è probabilmente l’autore più esplicito in proposito. Già in Una teoria della giustizia traspare la convinzione che le questioni riguardanti la costituzione del demos debbano essere messe tra parentesi. Poiché nessuna società può essere un sistema di cooperazione a cui gli uomini partecipano volontariamente in senso letterale, la filosofia politica non può che considerare la sua esistenza come un puro dato di fatto. Essa deve assumere la società come un “sistema chiuso”,[22] nel senso che “vi si entra solo per nascita e se ne esce solo alla morte”.[23] In Il diritto dei popoli Rawls va ancora oltre e difende questa ipotesi in riferimento alla stabilità politica. Egli sostiene che ogni popolo ha l’interesse a esercitare “il giusto rispetto di sé […] nei confronti di se stesso come popolo”,[24] e per questo “ha quanto meno un diritto condizionato a limitare l’immigrazione sul proprio territorio”.[25] Come Michael Walzer, anche Rawls pensa che la volontarietà dell’appartenenza al sé collettivo non sia un problema di cui la teoria normativa debba occuparsi. È meglio rendere più equi i demoi esistenti, così da evitare che gli esseri umani si vedano costretti ad abbandonare i loro paesi.

La tesi che si possano omettere le questioni di confine dall’ambito della legittimità si è attirata molte critiche. Si è osservato, per esempio, che l’immagine della società come un “sistema chiuso” si limita a riprodurre la dottrina tradizionale, che esige la lealtà degli individui al popolo di cui fanno parte dal momento della nascita. Infatti, “più sottolineiamo che le persone non hanno altra scelta effettiva se non quella di abbracciare la loro appartenenza ereditata, più miniamo la pretesa che la loro adesione si basi su qualcosa di simile a una forma di autentico consenso”. Perciò, anche se il consenso unanime può essere impossibile da realizzare nella pratica, questa non è una buona ragione per escludere “i confini della comunità politica” dagli oneri della legittimazione. E anzi, “se vogliamo difendere “qualcosa di simile a una forma di autentico consenso”, dovremmo fare in modo che “l’appartenenza volontaria si avvicini il più possibile alla realtà”.[26] Allo stesso modo, Benhabib sostiene che tutti i membri di un demos dovrebbero avere il diritto di “autoascrizione volontaria”, così da poter decidere se accettare o meno di protrarre l’adesione alla comunità di origine. Nel caso in cui decidano di rinunciare, devono poter disporre del diritto di uscita ed entrata, oppure l’idea stessa di autoascrizione sarebbe vana.[27]

Sia Smith sia Benhabib considerano ingiustificata la tesi di Rawls, ma nessuno dei due arriva a suggerire l’idea che il popolo debba essere considerato come un’associazione volontaria. E né l’uno né l’altra si spinge sino al punto di opporre alla “chiusura” di Rawls l’apertura indiscriminata dei confini. Secondo Smith, ciò sottoporrebbe a insostenibili pressioni disgregative la tenuta già logora dei legami sociali. È necessario perciò riconoscere che l’appartenenza a un popolo si deve a una combinazione di forza coercitiva e narrazione persuasiva.[28] Benhabib propone confini “porosi” piuttosto che confini aperti, nella convinzione che il demos debba potersi costituire come sovrano su un territorio delimitato da confini politici se si vuole che il sistema della rappresentanza possa continuare a reggersi in piedi, perché è necessario sapere quale entità democratica è responsabile e nei confronti di chi.[29]

L’orientamento di cui Smith e Benhabib sono autorevoli esponenti tende a esonerare il popolo dall’onere della legittimazione in base a considerazioni di natura pratica. Ma per molti teorici politici la nozione di popolo legittimo si scontra piuttosto con una impossibilità concettuale. Se si vuole che gli individui siano membri di un’associazione volontaria, è necessario che tutti acconsentano alla sua costituzione. Ma quali sono le persone il cui consenso è necessario? La tesi, in sintesi, è la seguente: se il problema di chi includere nel demos è politicamente importante, allora, in una democrazia, il popolo dovrebbe poter decidere in proposito esprimendosi liberamente tramite libere votazioni. Se però è necessario sottoporre la delimitazione del demos al vaglio degli elettori, è politicamente essenziale sapere in base a quale criterio ad alcuni si riconosce il diritto di voto e ad altri no. Avremmo allora bisogno di lasciare che sia il popolo a decidere anche a questo proposito. Ma questa decisione sarebbe essa stessa una decisione politica e così via, ad infinitum.[30]

Se il primo argomento si appella a circostanze di natura pratica per dispensare la costituzione del popolo dall’onere della legittimità, il secondo si basa su un ragionamento logico. Se il popolo non può dare il proprio consenso alla costituzione di se stesso, non vi è alcuna richiesta normativa cui debba sottostare.

A complicare le cose vi è però il fatto che l’argomento può essere utilizzato anche a sostegno di un potere politico di tipo autoritario, come in Carl Schmitt. La democrazia, sostiene Schmitt, comporta “l’identità dei dominanti e dei dominati, dei governanti e dei governati, di quelli che comandano e di quelli che ubbidiscono”;[31] ciò che prende il nome di “democrazia” è “una forma di Stato che corrisponde al principio di identità (cioè del popolo concretamente esistente con se stesso in quanto unità politica)”.[32] Dal momento però che questa forma di identificazione si basa su una divisione preliminare, rimane pur sempre uno scarto tra i conflitti che attraversano la società, interpretati come assenza di ordine, e il popolo come identità e omogeneità – scarto che può essere colmato solo da chi è in grado di assumere su di sé l’onere della decisione, ossia di interpretare la volontà politica del popolo e di darvi forma. Non è neppure necessario che il modo in cui i dominanti prendono la decisione osservi la legalità, purché la prendano a nome di tutto il popolo, cioè nella prospettiva della legittimità

In che modo è possibile evitare che il paradosso alla base del demos possa servire da pretesto per una forma di decisionismo autoritario? È questo interrogativo a spingere molti teorici democratici a lasciare che la risposta venga fornita dalla legittimazione storica. Piuttosto che riconoscere il paradosso preferiscono esternalizzarlo. L’argomento consiste nel portare l’impossibilità dell’auto-costituzione alla sua logica conseguenza. Se il demos non può decidere della propria composizione, non resta che piegarsi alle forze contingenti della storia. Per Habermas, la costituzione del demos non è volontaria, ma è determinata dalla casualità storica. Nel corso del tempo, però, la democrazia “si incontra” con la storia. Ciò trasforma retroattivamente la società in una democrazia legittima e costituzionale. Una Costituzione che voglia qualificarsi come democratica “oltre che per la legittimità dei suoi contenuti anche per la legittimità della sua fonte” andrà “intesa come quel progetto che fonda una tradizione a partire da una certa data storica e temporale.” La circolarità dei presupposti legittimanti esprime il carattere orientato al futuro, ovvero l’apertura, della costituzione democratica. Ciò significa che “tutte le generazioni successive devono affrontare il compito di attualizzare l’inesauribile sostanza normativa del ‘sistema dei diritti’ enunciato nel testo costituzionale originario.[33]

Ora, frapporre una rigida linea di demarcazione tra storia e legittimità significa, paradossalmente, rendere la teoria del consenso indistinguibile dalla sua critica conservatrice. In assenza di una legittima soluzione alla costituzione del demos, anche i teorici conservatori liquidano la volontarietà come una finzione, sebbene per motivi diametralmente opposti a quelli dei teorici democratici. Se Schmitt affronta il problema della costituzione per affermare la potenza costituente della dittatura sovrana, i teorici democratici cercano di ridimensionarne il significato escludendolo preventivamente dal contesto normativo della legittimazione. In che modo il popolo si è venuto storicamente a costituire è una cosa, in che modo procedere “a partire da una certa data storica e temporale” è un’altra. I problemi di legittimazione sono come la civetta di Minerva: spiccano il volo quando la polvere della battaglia si è depositata al suolo.

Il tentativo di ridurre la costituzione del demos a un dato storicamente contingente dà tuttavia luogo a tesi contraddittorie. Da un lato, si dovrebbe riconoscere che l’argomento sembra effettivamente corrispondere al modo in cui i popoli si sono storicamente costituiti. Dall’altro lato, tuttavia, nell’“era delle migrazioni” il riferimento alla storia non sembra più sufficiente a esaurire il fabbisogno di legittimazione, e non solo perché le evidenze empiriche non si lasciano facilmente convertire in argomenti normativi. Dovremmo forse accettare la comunità in cui viviamo soltanto perché la lotteria della nascita ha deciso così?[34] E cosa ci impedisce di pensare che i confini che delimitano attualmente un popolo dagli altri privilegino alcuni a scapito di altri? Non si ha allora il diritto, proprio in quanto individui liberi e uguali, di interrogarsi sulla loro legittimità? E questo tanto più se si condivide l’idea che i confini dell’appartenenza politica non siano un semplice dato di fatto, ma una realtà per certi aspetti arbitraria e casuale. Ora, come considerare prospettive così divergenti riguardo alla costituzione del demos? Per affrontare il problema è opportuno gettare uno sguardo più ravvicinato ai principi teorici che stanno alla base della richiesta di legittimazione. Potrà così emergere che il problema della costituzione del popolo, che molti teorici democratici considerano insolubile e che li spinge ad arrendersi alla logica violenta e casuale della storia, è parte integrante della teoria stessa della legittimazione.

2.Nella sua versione canonica, la teoria risale alla tradizione del contratto sociale. La società è un artefatto umano e deve rispondere a una esigenza di legittimazione. Nell’autorappresentazione pattizia della modernità proposta dal contrattualismo giusnaturalistico gli individui si mobilitano per istituire un potere politico legittimo. Si tratta di un aspetto che vale la pena di sottolineare, perché ciò significa che all’accordo virtuale cui si aderisce per legittimare le istituzioni dotate di potere coercitivo non vi sono estranei che partecipino – e gli estranei non possono neppure stipulare un contratto con un potere politico pre-esistente, dal momento che un popolo in grado di agire da controparte non esiste ancora. Il potere politico può essere istituito solo dagli stessi individui che si impegnano nel contratto. Come afferma Rousseau, “solo a coloro che si associano spetta di stabilire le condizioni della società”.[35]

Ora, in questa prospettiva traspare la possibilità che la dinamica associativa destinata a concludersi con la costituzione della società possa essere avviata per dare risposta non a uno, ma a due differenti modelli di legittimazione: il primo per affrontare la costituzione del demos, l’altro per rispondere alla costituzione del potere legittimo razionale. Se il modello associato al potere è stato al centro della moderna tradizione del consenso, il modello associato al demos è rimasto sostanzialmente invisibile all’indagine teorica, perché è stato occultato dall’ipotesi del demos quale datità precostituita. Ma è anche possibile intravedere come ciascun modello comporti una tensione fondamentale al proprio interno, senza la quale non potrebbe sorgere alcuna pretesa di legittimità.

Nella versione più familiare, quella che fa riferimento al potere politico, è prassi comune distinguere fra tre diversi momenti: la postulazione dello stato di natura, i criteri del potere politico legittimo e la forma di governo corrispondente a questi criteri. La nostra attenzione si concentrerà sul secondo momento o, più precisamente, sul passaggio dal carattere illimitato dello stato di natura alla costituzione del potere politico. A quali condizioni gli individui sarebbero disposti a riconoscere legittimità al potere politico? Ovvero: in che modo, a partire da una moltitudine di volontà libere ed eguali e quindi reciprocamente conflittuali, è possibile istituire un potere politico legittimo?

Questa domanda dà luogo al modello di legittimità che si applica alla costituzione del potere politico. La tesi è che se si vuole che il potere sia legittimo, l’autorità politica deve essere al di sopra dei cittadini e identica ai cittadini nello stesso tempo. Da un lato il disaccordo verosimilmente endemico tra gli individui richiede che vi sia al di sopra delle loro teste un’autorità forte e neutrale, in grado di risolvere le controversie e di intervenire nei conflitti senza prendervi parte, oppure la sua legittimità ne sarebbe compromessa. Dall’altro non si può ricorrere a una autorità qualsiasi: se gli individui decidono di instaurare un potere comune, la sua autorità non può essere separata dagli individui vi sono soggetti. Deve essere identica agli individui che si sono contrattualmente impegnati, altrimenti ne minerebbe la libertà e l’eguaglianza. Stando così le cose, la costituzione di un potere politico legittimo si presenta come un’impresa sostanzialmente irrealizzabile. “Ci vorrebbero” infatti, come osserva Rousseau, “degli dèi per dare delle leggi agli uomini”.[36] Non a caso il pensiero politico conservatore ha ritenuto che questa fosse una buona ragione per rinunciare a ogni criterio di legittimazione. Non si tratta, ovviamente, di una conclusione obbligata, a condizione però di riconoscere che la legittimità non può che dipendere da questo rapporto di tensione, poiché senza l’esistenza di un’autorità politica che si innalza al sopra dei cittadini, ma che al contempo non è da essi separati poiché rappresenta l’espressione istituzionalizzata della loro volontà, non sarebbe possibile alcun potere politico legittimo.

Nel Leviatano, per fare riferimento a un modello autorevole, Hobbes si propone di dimostrare che la creazione del Commonwealth risolve ogni potenziale elemento di tensione. Egli cerca di dimostrare che, sebbene la persona artificiale del Leviatano possiede una autorità assoluta nei confronti dei propri sudditi, continua a rimanere tutt’uno con essi. La ragione è che tutti gli individui “designano un uomo o un’assemblea di uomini a sostenere la parte della loro persona”,[37] per cui, anche se il Leviatano si colloca al sopra dei singoli contraenti, non ne compromette la libertà e l’eguaglianza. Gli individui sono essi stessi gli autori di tutto ciò che il Leviatano decide o impone. Egli è “un’unità reale di tutti loro in una sola e medesima persona fatta con il patto di ogni uomo con ogni altro”. [38] Nell’obbedire al Leviatano, sostiene Hobbes, gli individui non obbediscono che alla loro stessa volontà.

Questa interpretazione della legittimità non è certo rimasta incontrastata. Sostenendo che gli individui designano una persona a rappresentarli tutti, Hobbes sposta il Leviatano al di fuori dello spazio politico creato dal contratto tra gli individui. Secondo Locke, non si può invece esonerare una persona dal contratto sociale poiché ciò significa lasciarla in quello stesso stato di natura nel quale si trova, e chi avrebbe il coraggio di riporre la propria fiducia in qualcuno che rimane giudice del suo stesso caso? Questa intuizione porta Locke a immaginare un diverso percorso nella costituzione di un potere legittimo. Invece di designare “un uomo o un’assemblea di uomini a sostenere la parte della loro persona”, Locke definisce il profilo di un potere politico che può essere considerato legittimo anche quando non è basato sul consenso unanime, ma soltanto su quello della maggioranza.[39]

Ma se nessuno può essere sottoposto al potere politico esercitato da un altro senza il suo consenso, a quale titolo la maggioranza può essere autorizzata a parlare a nome di tutti? “Il grande problema della politica”, scrive Rousseau nella famosa lettera del 26 luglio 1767 al Marchese di Mirabeau, è “trovare una forma di governo che ponga la legge al di sopra dell’uomo”. Diversamente dai suoi predecessori, egli però rifiuta di trasferire l’autorità nelle mani di un rappresentante o di una maggioranza, poiché ciò sarebbe in contrasto con la sua ipotesi, secondo la quale chiunque entri in società debba rimanere “libero come prima”. Allo stesso tempo, Rousseau non è disponibile a rendere l’autorità coincidente con gli individui stessi. In che modo, infatti, “una moltitudine cieca, spesso ignara di ciò che vuole, perché di rado sa cosa le giova, potrà attuare da sé un’impresa tanto grande e difficile come un sistema di legislazione?”[40] La sua risposta è che occorra distinguere tra la volontà di tutti e la volontà generale. Perché mentre la prima può sbagliare, cadendo in balia dei propri interessi egoistici, la volontà generale non sbaglia mai. Essa “è sempre retta e tende sempre all'utilità pubblica.[41]

Ciò che Hobbes, Locke e Rousseau hanno in comune è che essi cercano di trovare uno strumento – la persona rappresentativa del Leviatano, il principio della regola di maggioranza e la volontà generale – tramite il quale rendere l’autorità politica superiore e identica al tempo stesso agli individui contraenti. Ovviamente, non sono qui in discussione i vantaggi e gli svantaggi delle rispettive proposte. A interessare in questa sede è piuttosto il fatto nessuna sembra in grado di far quadrare il cerchio dell’autorità legittima. Il campo di tensione presente nella costituzione del potere politico lascia trasparire il fatto che la ricerca del consenso non è meramente ipotetica (qualcosa su cui dovremmo essere d’accordo) o reale (qualcosa su cui siamo d’accordo), ma dispone altresì di una forza produttiva e creativa. In ogni caso, suggerisce l’esigenza di cercare nuove risposte alla domanda relativa a ciò che costituisce un potere legittimo, e in questo modo rende la costituzione di “noi, il popolo” un processo molto più fluido, dinamico e contestabile.

Eppure, se i criteri associati al modello del potere politico rispondono all’esigenza di definire che cosa sia un’autorità legittima, sembrano invece di scarso aiuto nella definizione di che cosa sia un demos legittimo. Quando si discute di questioni controverse come le migrazioni, l’autodeterminazione nazionale o il principio della pertinenza degli interessi occorre sapere qual è il popolo legittimo di cui si sta parlando.[42] Non si tratta solo di prendere in considerazione le forme o i processi che portano gli individui a dare avvio alla costituzione del potere politico, ma anche alla stessa costituzione del demos. Quali sono le persone che, in accordo l’una con l’altra, decidono di procedere alla creazione di un’autorità politica legittima? Perché questa “moltitudine” di individui e non un’altra?

È interessante osservare che, sebbene sia Hobbes sia Locke provvedano a indicare quali siano le ragioni che spingono le persone che vivono nello stato di natura ad associarsi, né l’uno né l’altro si preoccupa di sottoporre l’unità che ne deriva a una domanda di legittimazione. Per questo Hobbes può passare direttamente dallo stato di natura, che non conosce confini, all’idea di una particolare moltitudine senza preoccuparsi più di tanto della delimitazione di una moltitudine da un’altra. La sua prima preoccupazione è di mostrare come una moltitudine di individui liberi e uguali può autorizzare il Leviatano a “sostenere la parte della loro persona”. Chi costituisce legittimamente la moltitudine non rientra nella sua indagine, poiché la sua composizione viene considerata come qualcosa che dipende da altri fattori. Come afferma Hobbes, “la moltitudine sufficiente in cui confidare per la nostra sicurezza” non è determinato dal consenso, ma “dal paragone con il nemico che temiamo”.[43] Si tratta di una tesi ripresa da Schmitt, il quale tende a rendere l’identità del popolo (noi) dipendente dal potere del nemico (loro).[44]

Lo stesso vale per Locke, anche se la sua interpretazione è diversa da quella di Hobbes. La composizione degli individui che si accordano mutuamente i diritti in uno stato di natura privo di confini non viene derivata dal nemico che temiamo, ma dal dato di fatto del contratto stesso. Secondo Locke, l’associarsi che dà origine a una comunità “può essere fatto da un gruppo di uomini poiché non viola la libertà di tutti gli altri, i quali sono lasciati tali e quali nella libertà dello stato di natura”.[45]

Il disinteresse di Hobbes e Locke per la questione della legittimità del popolo è largamente comprensibile, dal momento che all’epoca si trattava di sostituire il potere arbitrario e incontrollabile dei re con un governo basato sul consenso. La rivoluzione spaziale in corso nell’età globale comporta invece il superamento dei confinamenti sovrani dell’autorità nello spazio chiuso degli Stati-nazione, per cui la tesi che gli individui possano creare una nuova comunità senza incidere sulla “libertà di tutti gli altri” è, a dir poco, irrealistica. Le sfide a cui la teoria politica deve oggi rispondere sono ben diverse da quelle con le quali si misuravano Hobbes e Locke. A essere in questione non è la legittimità del governo, ma del popolo stesso. Ciò nonostante, il linguaggio della legittimazione è rimasto sostanzialmente immutato. Proprio come i loro predecessori, gran parte dei teorici democratici ritiene inutile, superflua o impraticabile ogni richiesta di legittimazione rivolta al demos. Ma è proprio così scontato che la legittimità sia un principio normativo predeterminato in funzione del solo potere politico?

Se si affronta la questione in questa prospettiva si può cominciare a intravedere un modello di legittimità che nella moderna tradizione del consenso è spesso rimasto in ombra e che potrebbe gettare una diversa luce sul problema individuato da Rousseau. Si tratta, in buona sostanza, di applicare al demos il modello di legittimità tradizionalmente applicato al kratos. Lo schema di legittimazione rimane immutato: a mutare è l’oggetto cui si applica. La tesi è che, affinché il popolo sia legittimo, l’autorità politica deve essere, nello stesso tempo, preesistente e simultanea ai cittadini. Da una parte, il disaccordo sulla costituzione appropriata del popolo richiede un’autorità che preesista ai cittadini stessi. Al fine di evitare rivendicazioni conflittuali sull’interpretazione del popolo, è necessario che l’autorità sia potente e indipendente abbastanza da indurre una pluralità di individui a unirsi e a costituire un popolo comune. D’altra parte, questa autorità non può preesistere agli individui che si uniscono per costituire il popolo. Per essere legittima, deve essere simultanea ai cittadini stessi. Tutti gli individui devono essere d’accordo – ciascuno con ogni altro – per costituire un popolo comune. Se non hanno avuto modo di esplicitare il loro consenso, non sono più liberi ed eguali, e vanno assimilati a un demos che non abbia riconosciuto legittimità alla propria costituzione.

Questa prospettiva riarticola la questione della legittimità in due diversi modi. In primo luogo sfida l’idea canonica del popolo quale comunità politica territorialmente delimitata e quale fonte di legittimazione. Non è possibile definire preventivamente i confini di chi rientra nel demos organizzato in forma statale e procedere successivamente a ridefinirne le forme di appartenenza in chiave democratica. È invece l’autodefinizione e la composizione del demos a dover soddisfare gli oneri della legittimazione. Inoltre, e di conseguenza, sfida anche l’interpretazione storica del concetto di popolo. Tra i teorici contemporanei prevale la tendenza a considerare il demos come una sorta di datità della quale si tratta semplicemente di prendere atto. Se si concepisce il popolo in questo modo, è inevitabile che prima o poi ci si debba misurare con il vuoto di legittimità che si apre tra gli individui che hanno originariamente costituito il popolo e coloro ai quali è successivamente capitato di farne parte. La ragione è che la costituzione del popolo muta ogni qualvolta la nascita di un essere umano interrompe la catena di avvenimenti introducendo un nuovo inizio nel mondo, oppure qualcuno viene a mancare.[46] E muta, inoltre, per effetto delle migrazioni. Così, anche se si può dare per scontato che la generazione che costituisce il popolo ne faccia parte volontariamente, non si può dire lo stesso anche per le generazioni successive. Esse appartengono a un demos senza avere dato il loro consenso. I teorici politici hanno cercato di disfarsi di questo problema in modi diversi. Secondo Rawls e Habermas, per esempio, si tratta unicamente di mettersi al passo ex post con il momento costituzionale per attualizzarlo e modificarlo in base alle circostanze del momento.

Se però si accettano i criteri cui si è accennato, i termini del problema mutano. Il campo di tensione nella costituzione di un popolo legittimo non può essere colmato con il semplice scorrere del tempo, né si può sostenere che, a tempo debito, il popolo potrà sempre recuperare se stesso. Perché, a differenza di quanto accade con il campo di tensione che può aprirsi tra le diverse generazioni, il campo di tensione che opera nella costituzione di un popolo legittimo non viene risolto dal fatto che la generazione successiva cui spetterà il compito inevitabile di ri-costituire il popolo deciderà per se stessa. Risiede nell’atto stesso dell’autocostituzione. Il punto è che se gli individui trovano modo di dare concordemente avvio alla costituzione del popolo, l’autorità che costituisce il popolo deve essere sia antecedente ai cittadini sia loro contemporanea. È per questo che la fondazione di un popolo legittimo è un evento ricorrente, e non solo perché, grazie alla natalità, i nuovi venuti vengono al mondo co­me (se fossero) stranieri oppure perché sono migranti. È piuttosto perché gli esseri umani si ritengono liberi ed eguali che la costituzione della popolo ha forza produttiva. L’uomo è nato libero, ma ovunque è in catene, scriveva Rousseau, ed è questo, potremmo aggiungere, a spingerlo a superare i confini che delimitano un demos a cui non appartiene.

3. La principale conseguenza della strategia che fissa una netta linea di demarcazione tra storia e legittimità è che il campo di tensione nella costituzione del popolo finisce per apparire come una sorta di punto cieco. E ciò ridà ironicamente fiato alla critica che i pensatori conservatori avevano a suo tempo sollevato contro l’idea stessa di governo legittimo. È possibile illustrare questo aspetto paradossale attraverso un confronto con le obiezioni rivolte dal pensiero conservatore alla sola possibilità di sottoporre il potere politico all’onere della legittimità. L’idea che il potere politico debba poggiare sul consenso dei governati suona oggi banale, ma in passato i difensori del potere regio hanno fatto del loro meglio per confutarla, teorizzandone sia l’impossibilità pratica sia l’impossibilità concettuale.

Le critiche di stampo conservatore presentano aspetti che non si ritrovano nei filosofi politici contemporanei, nessuno dei quali mette in dubbio l’idea che gli ordinamenti in cui l’organizzazione del potere passa attraverso lo Stato abbiano sempre bisogno di essere legittimati. Ma ciò che vale per il kratos non vale per il demos. In questo caso, molti teorici democratici finiscono per assumere la stessa posizione intransigente adottata dai conservatori nei confronti del governo. Come in passato ci si aspettava che il trasferimento di sovranità dal re al popolo minasse la stabilità sociale, così oggi si è riluttanti a sottoporre anche il popolo a una analoga richiesta di legittimazione. L’ipotesi è che se gli individui fossero egualmente liberi rispetto alle delimitazioni confinarie che dividono i popoli l’uno dall’altro, ciò metterebbe in moto un flusso migratorio incontrollabile e tale da minare la stabilità anche delle democrazie più consolidate. Inoltre, l’idea di popolo legittimo viene respinta per ragioni logiche. La tesi è che, poiché il popolo non può decidere da sé della propria composizione – ciò comporta un ragionamento circolare – la nozione di popolo “legittimo” è concettualmente insolubile.

In effetti, la riluttanza a concepire il popolo in termini di legittimità non è poi così incomprensibile. Vi è, dopo tutto, una differenza essenziale tra le condizioni politiche che fanno da sfondo alle riserve degli uni (nei confronti della legittimità del demos)e alle critiche degli altri (nei confronti della legittimità del kratos). La richiesta di legittimità rivolta all’ordinamento del potere politico si misurava con la realtà del governo monarchico e intendeva promuovere istanze profonde di rinnovamento, in quanto richiedeva il consenso degli individui al governo della società. Oggi la situazione è diversa, poiché in democrazia ognuno può (virtualmente) considerare se stesso come il co-autore delle leggi di cui è il destinatario. Detto in estrema sintesi: se i conservatori di ieri rifiutavano l’idea di governo legittimo allo scopo di difendere la monarchia, i teorici odierni respingono l’idea di popolo legittimo allo scopo di difendere la democrazia. Un popolo democratico deve potersi costituire come sovrano su un territorio delimitato da confini politici, dal momento che la rappresentanza deve essere responsabile nei confronti di un demos specifico.

E tuttavia, sottoporre il demos all’onere della legittimazione non sembra affatto mettere in discussione la democrazia: evidenziare il paradosso che impedisce al popolo la possibilità di attribuire a se stesso la legittimità indispensabile per qualificarsi come tale significa piuttosto valorizzarne il significato democratico. Un popolo pienamente legittimo è in effetti un telos da raggiungere piuttosto che una realtà precostituita, e proprio in ciò risiede la sua energia politica: mentre il popolo quale realtà istituita è un’entità omogenea nella quale sono assenti le differenze sociali, culturali e di genere, nel popolo quale realtà in via di costituzione sono proprio le differenze ad assicurarne la vitalità e il dinamismo. Il “popolo” non è una realtà ontologicamente precostituita: il “popolo” è piuttosto un “universale vuoto” che viene occupato e risignificato nella lotta per l’egemonia tra i diversi “populismi”.[47] Se questo punto di vista è abbastanza scontato nel caso del governo, è invece estremamente controverso nel caso del popolo. Assumendo la strategia della linea di demarcazione tra storia e legittimità, i teorici democratici considerano il paradosso implicito nella costituzione del popolo come un aspetto estraneo alla teoria e alla pratica della democrazia, e sostituiscono la legittimità democratica con la legittimazione storica. La differenza non è banale. Infatti, mentre il paradosso della costituzione del popolo può essere, come scrive Laclau, risignificato nella lotta per l’egemonia tra i diversi “populismi”, la resa alla legittimazione storica serve a escludere la natura contingente, produttiva e soprattutto politica, ovvero “antagonistica”, del popolo. Oltretutto, un’idea di popolo resa subalterna alla forze arbitrarie della storia appare problematica per almeno due motivi.

Per cominciare, ha significative implicazioni sul modo di interpretare le sfide che la globalizzazione impone alla democrazia. Vi è oggi scarso consenso riguardo a quale sia la costituzione del popolo più adeguata. Il popolo va pensato su scala locale, nazionale, regionale o cosmopolita? Ignorare la legittimità democratica nella costituzione del popolo porta a ritenere che la sola scelta da compiere consista nel lasciare che la storia segua il suo corso – ponendo fine al conflitto con la forza, il potere o la violenza – cosicché la domanda di legittimità “possa essere sollevata là dove la storia si conclude”.[48] Ma quando si può stabilire che la storia si è conclusa e che la costituzione storica del popolo si è finalmente realizzata? Il problema non è di porre fine alla controversia sulla costituzione del demos, il che è semplicemente impossibile, ma di trovare un meccanismo democratico adeguato attraverso il quale promuovere quella intrinseca apertura al futuro che dovrebbe caratterizzare, oltre che gli Stati, anche i demoi democratici.

Ora, è verosimile che la maggior parte dei teorici discussi in queste pagine non avrebbe particolari obiezioni in proposito, né sul fatto che rendere il concetto di demos permeabile alle contingenze della storia equivalga ad aprirlo al futuro. Oltretutto, sostenere che il popolo è il risultato delle forze storiche – di un accordo che risale al passato, di un processo “retroattivo” di legittimazione oppure di “iterazioni democratiche” – rende possibile liberare la democrazia dal suo rapporto sinora esclusivo con lo Stato-nazione e favorire un’idea di democrazia quale processo di democratizzazione, perpetuamente in corso e necessariamente inconcluso. Ci si potrebbe perciò chiedere: qual è in realtà la differenza tra legittimità democratica e legittimazione storica? Le due prospettive non finiscono in fondo per dire la stessa cosa, che la democrazia è un progetto incompiuto? E questo ci porta al secondo problema, ossia alla presunta fattualità della contingenza storica e al ruolo che rischia giocare nel dibattito in corso sulla democrazia.

Secondo la maggior parte dei teorici democratici, la costituzione del popolo non può che essere subordinata alla storia. Ma questo argomento è esso stesso contingente riguardo al principio di legittimità. È sufficiente richiamarsi alla ratio che sostiene la necessità di imporre una netta linea di demarcazione tra storia e legittimità per illustrarlo. La tesi – ricordata più volte – è che, siccome il popolo non può decidere della propria composizione, non può essere esso stesso parte di una teoria della legittimità. La sua composizione deve essere determinata da altri fattori, come le forze arbitrarie della storia. L’appello alla storia è subordinato all’ordine di legittimità cui cerca di sottrarsi. O, per dirla con altre parole, non è nonostante, ma è proprio perché mantengono i presupposti normativi del consenso che questi teorici sottomettono la costituzione del popolo alle forze arbitrarie della storia. Il fatto di tracciare la linea di demarcazione non può perciò essere considerato come una registrazione neutrale di un fatto storico. È parte esso stesso della contestazione democratica implicata nella costituzione del popolo.

Questa intuizione getta una nuova luce sulla tesi sostenuta dai teorici democratici. Se il demos non è un’entità definita e autosufficiente ma un processo controverso e dinamico e quindi la costituzione di “noi, il popolo” rientra nell’ambito delle realtà politiche da sottoporre all’onere della legittimazione, che cosa significa demandare la costituzione del popolo alle vicende contingenti della storia? Sostanzialmente, a ostacolare l’accesso di nuovi soggetti alla sua costituzione e a rendere complicato e difficile il loro accesso all’area della cittadinanza. I fenomeni migratori possono così essere considerati quali aspetti marginali nella vita dei popoli e nella valutazione della natura delle società liberaldemocratiche, e possono essere giudicati nella prospettiva dei criteri pre-costituiti dell’appartenenza politica. Se invece si sposta l’attenzione dalla dimensione di contingenza della storia alla dimensione di contingenza del demos, il popolo può diventare anche l’oggetto, e non più soltanto la fonte della legittimità. Come la costituzione del potere politico, anche la costituzione del popolo deve accollarsi l’onere di giustificare la propria legittimità. Questo ci aiuta a comprendere un dato spesso trascurato: quando Walzer, Habermas e molti altri teorici democratici rendono il popolo subordinato alla storia – riconoscendo così ai demoi esistenti il ​​privilegio di formulare i criteri dell’appartenenza politica –, non si limitano a prendere atto di un fatto storico. Stanno altresì formulando una tesi normativa relativamente al presente – che però, come ogni altra tesi normativa, può essere falsificata e fatta rientrare nell’ambito critico delle possibili problematizzazioni.

Edoardo Greblo (1954) redattore di “aut aut” dal 1987, è stato docente a contratto presso le Facoltà di lettere e filosofia, Scienze della formazione e Giurisprudenza. Oltre a diverse traduzioni e saggi, ha pubblicato: A misura del mondo (2004), Democrazia (2000), La tradizione del futuro (1989). Ha collaborato alla Enciclopedia del pensiero politico (a cura di R. Esposito e C. Galli, 2000) e al Manuale di storia del pensiero politico (a cura di C. Galli, Bologna 2001). È inoltre coautore, insieme a C. Galli e S. Mezzadra, di Il pensiero politico del Novecento (2005). Collabora con la pagina culturale del quotidiano “Il Piccolo”.

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NOTE
[1] S. Benhabib, I diritti degli altri. Stranieri, residenti, cittadini (2004), Milano, Raffaello Cortina, 2006, p. 15.
[2] J.-J. Rousseau, Il contratto sociale (1762), Roma-Bari, Laterza, 1997, p. 61.
[3] R. Dahl, After the Revolution? Authority in a Good Society (1970), New Haven, Yale University Press, 1990, pp. 60-66.
[4] S. Castles e M.-J. Miller, L’era delle migrazioni (2009), Bologna, Odoya, 2012.
[5] R. Dahl, La democrazia e i suoi critici, Roma, Editori Riuniti, 19972.
[6] H. Arendt, Sulla rivoluzione (1963), Milano, Edizioni di Comunità, 1983, pp. 162-163; W. Connolly, The Ethos of Pluralization, Minneapolis, Minnesota University Press, 1995, pp. 138-39; H. Agné, “Democratic founding: We the people and the others, International Journal of Constitutional Law, 3, 2012, pp. 836-861.
[7] Ch. Mouffe, The Democratic Paradox, London, Verso, 2000.
[8] B. Yack, “Popular Sovereignty and Nationalism”, Political Theory, 4, 2001, pp. 517-536.
[9] S. Benhabib, Another Cosmopolitanism: Hospitality, Sovereignty and Democratic Iterations, Oxford, Oxford University Press, 2006.
[10] B. Honig, “Between Decision and Deliberation: Political Paradox in Democratic Theory”, The American Political Science Review, 1, 2007, pp. 1-18.
[11] R. Goodin, “Enfranchising All Affected Interests and Its Alternatives”, Philosophy and Public Affairs, 1, 2007, pp. 40-68.
[12] M. Walzer, Sfere di giustizia (1983), Milano, Feltrinelli, 1987, p. 41.
[13] S. Benhabib, I diritti degli altri, cit., p. 1.
[14] F. Whelan, “Prologue: Democratic Theory and the Boundary Problem”, in J.R. Pennock e J.W. Chapman, Nomos 25: Liberal Democracy, New York, New York University Press, 1983, pp. 13-47. Robert Dahl (La democrazia e i suoi critici, Editori Riuniti, Roma 19972, p. 168) definisce la questione come il problema di “chi includere nel demo”: “quali persone possono legittimamente rivendicare l’inclusione nel demo?”.
[15] F. G. Whelan, “Prologue: Democratic Theory and the Boundary Problem”, cit., p. 16. Cfr. anche R. Dahl, La democrazia e i suoi critici, cit., p. 273; J. Habermas, “Lo stato democratico di diritto: nesso paradossale di principi contraddittori?”, in Id., Tempo di passaggi (2001), Milano, Feltrinelli, 2004, p. 93; S. Benhabib, I diritti degli altri, cit., pp. 12-15; R. M. Smith, Stories of Peoplehood, Stories of Peoplehood, Cambridge, Cambridge University Press, 2003, p. 154 e p. 158.
[16] I. Jennings, The Approach to Self-Governemnt, Cambridge, CambridgeUniversity Press, 1956, p. 56.
[17] M. Walzer, Sfere di giustizia, cit.; D. Miller, On Nationality, Oxford, Clarendon Press, 1995, pp. 99-100.
[18] J. Rawls, Una teoria della giustizia (1971), Milano, Feltrinelli, 1999.
[19] J. Habermas, “Lo stato-nazione europeo. Passato e futuro della sovranità e della cittadinanza”, in Id. L’inclusione dell’altro (1996), Milano, Feltrinelli, 1998, p. 129.
[20] Cfr. S. Benhabib, I diritti degli altri, cit., pp. 75- 91-92, 95, 168, 177.
[21] Cfr., per esempio, J. Rawls, Una teoria della giustizia, cit., pp. 25-26, e J. Habermas, “Lo stato-nazione europeo. Passato e futuro della sovranità e della cittadinanza”, cit., p. 125.
[22] J. Rawls, Una teoria della giustizia, cit., p. 25.
[23] J. Rawls, Liberalismo politico (1993), Edizioni di Comunità, Milano, 1994, p. 51.
[24] J. Rawls, Il diritto dei popoli (1999), Edizioni di Comunità, Torino, 2001, p. 45.
[25] Ivi, p, 50, n. 48.
[26] R.M. Smith, Stories of Peoplehood, cit., pp. 135-141.
[27] S. Benhabib, La rivendicazione dell’identità culturale (2002), Bologna, Il Mulino, p. 41.
[28] R.M. Smith, Stories of Peoplehood, cit., p. 43 e p. 137.
[29] S. Benhabib, I diritti degli altri, p. 2.
[30] A. Abizadeh, “On the Demos and Its Kin: Nationalism, Democracy, and the Boundary Problem”, American Political Science Review, 4, 2012, p. 874.
[31] C. Schmitt, Dottrina della costituzione (1928), Milano, Giuffrè, 1984, p. 307.
[32] Ivi, p. 293.
[33] J. Habermas, Tempo di passaggi, cit., p. 93. Cfr. anche Id., “Perché l’Europa ha bisogno di una Costituzione?”, in Tempo di passaggi, cit., pp. 70-71.
[34] A. Shachar, The Birthright Lottery: Citizenship and Global Inequality, Cambridge, Mass., Harvard University Press, 2009.
[35] J.-J. Rousseau, Il contratto sociale, cit., p. 55.
[36] J.-J. Rousseau, Il contratto sociale, cit., p. 57.
[37] Th. Hobbes, Leviatano (1652), Firenze, La Nuova Italia, 1976, p. 167.
[38] Ibid.
[39] J. Locke, Il secondo trattato sul governo (1690), Milano, Rizzoli, 1998, p. 191 (§ 97).
[40] J.-J. Rousseau, Il contratto sociale, cit., p. 55.
[41] Ivi, p. 39.
[42] Cfr., tra gli altri, D. Held, “Democratic Accountability and Political Effectiveness from a Cosmopolitan Perspective,” in D. Held e M. Koenig-Archibugi (a cura di), Global Governance and Public Accountability, Oxford, Blackwell, 2005, pp. 249-50; N. Fraser, “Reframing Justice in a Globalizing World,” New Left Review,36, 2005, pp. 69-88, e R. Goodin, “Enfranchising All Affected Interests, and Its Alternatives,” Philosophy and Public Affairs,1, 2007, pp. 40-468.
[43] Th. Hobbes, Leviatano, cit. p. 164.
[44] Cfr. Ch. Mouffe, The Return of the Political, cit., e, per una diversa prospettiva, J. Derrida, Politiche dell’amicizia (1994), Milano, Raffaello Cortina, 1995.
[45] J. Locke, Il secondo tratato sul governo, cit., p. 189 (§ 95).
[46] “Natalità” è il termine scelto da Hannah Arendt per indicare quell’aspetto della condizione umana grazie al quale siamo capaci di introdurre il nuovo, ossia di agire, o meglio ancora di agire in modo differente da quanto previsto. Cfr. H. Arendt, Vita activa. La condizione umana (1958), Milano, Bompiani, p. 164. Si veda anche Ead., “La disobbedienza civile”, in Politica e menzogna, Milano, Sugarco, 1985, pp. 142-143.
[47] E. Laclau, “La struttura, la storia, il politico”, in J. Butler, E. Laclau e S. Žižek, Dialoghi sulla Sinistra. Contingenza, egemonia, universalità, a cura e con una Prefazione all’edizione italiana di L. Bazzicalupo, Roma-Bari, Laterza 2010, p. 209.
[48] R. Dahl, After the Revolution, cit., p. 62.

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