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La fabbrica della disperazione

Franco Berardi e il disagio dell’«ipermodernità»

Damiano Palano

V7 post modern con. o. space3 1Il tempo della disperazione

Al termine del Disagio della civiltà, dopo aver mostrato come il processo della civilizzazione fosse il risultato del controllo progressivamente esercitato sul corredo pulsionale degli esseri umani, Freud veniva a contrapporre l’una all’altra le due forze elementari che riteneva di avere scoperto, Eros e Morte. E proprio nelle righe finale, aggiunte nel 1931, segnalava come i pericoli maggiori per il genere umano giungessero dalla pulsione di morte e dalle tendenze aggressive che ne discendevano:

«Il problema fondamentale del destino della specie umana, a me sembra sia questo: se, e fino a che punto, l’evoluzione civile degli uomini riuscirà a dominare i turbamenti della vita collettiva provocati dalla loro pulsione aggressiva e autodistruttrice. In questo aspetto proprio il tempo presente merita forse particolare interesse. Gli uomini adesso hanno esteso talmente il proprio potere sulle forze naturali, che giovandosi di esse sarebbe facile sterminarsi a vicenda, fino all’ultimo uomo. Lo sanno, donde buona parte della loro presente inquietudine, infelicità, apprensione»[1].

È facile riconoscere in quelle parole il riflesso cupo della stagione di barbarie che si avvicinava. L’insieme delle trasformazioni epocali inaugurate dalla prima guerra mondiale aveva d’altronde indotto il padre della psicoanalisi a rivedere sensibilmente il proprio quadro teorico generale. E anche se l’interesse per i temi politici era affiorato già dal grande affresco di Totem e tabù, le dinamiche della società attrassero l’attenzione Freud soprattutto a partire dallo scoppio del conflitto e dopo il crollo dell’Impero, un evento che rappresentò anche per il medico viennese il tramonto del «mondo di ieri» in cui aveva vissuto (e creduto) e l’inizio di un’era di disordine. Il cammino che doveva condurre Freud al Disagio della civiltà e al riconoscimento sconcertante della «pulsione di morte» – col quale prendeva atto che la tendenza aggressiva «rivela nell’uomo una bestia selvaggia, alla quale è estraneo il rispetto per la propria specie»[2] – era anche un percorso intellettuale di disillusione rispetto ai grandi sogni della scienza positiva. L’ambizione di poter guarire gli esseri umani dal loro disagio, portando alla luce le correnti misteriose che si agitavano nel fondo della psiche, si trovava alla fine a urtare contro un ostacolo insuperabile, aprendo le porte a un cupo pessimismo, per molti versi simile a quello che aveva indotto i grandi realisti del passato a descrivere il «legno storto» della «natura umana».

La pista indicata dal Disagio della civiltà e da altri scritti freudiani degli anni Venti, come soprattutto Massenpsychologie und Ich Analyse[3], doveva in seguito essere battuta anche da molte altre indagini, più o meno fedeli rispetto agli insegnamenti del padre del psicoanalisi, tra cui è quasi inevitabile ricordare Massenpsychologie des Faschismus di Wilhelm Reich, Escape from Freedom di Erich Fromm, o Eros and Civilisation di Herbert Marcuse, ma tra cui sarebbe ingiusto dimenticare anche suggestivi testi come Psicanalisi della guerra atomica e Psicoanalisi della guerra di Franco Fornari[4]. E anche negli ultimi anni un sentiero di riflessione di questo tipo è stato seguito, seppur ormai marcando una sostanziale distanza da Freud, per esempio da Massimo Recalcati, che in alcuni suoi interventi giornalistici si è spinto a interpretare fenomeni politici come il terrorismo di matrice islamista, alla ricerca di una spiegazione collocata al livello della «psicologia della massa», ossia delle generali condizioni psicologiche che contrassegnano una determinata società[5]. Per quanto suggestive siano le sollecitazioni che provengono da queste indagini, il crinale su cui esse si muovono – al confine tra l’ambito della psicologia del singolo individuo e la sterminata landa delle condizioni economiche, politiche e culturali di una determinata società – non può che essere sempre estremamente scivoloso, ed è così quasi inevitabile cedere a semplificazioni che finiscono con lo smarrire, al tempo stesso, la specificità delle motivazioni individuali e l’autonomia (oltre che la complessità) dei fenomeni politici. Se infatti la ricostruzione ‘psicologica’ del quadro culturale di una determinata fase storica può offrire formidabili elementi per interpretare fenomeni politici o anche le scelte che un singolo individuo si trova a compiere, una simile impostazione rischia quasi sempre di spingere verso il riduzionismo psicologico. Un riduzionismo in base al quale – saltando ogni anello intermedio – non solo fenomeni politici e culturali complessi vengono ricondotti a determinanti psicologiche, ma secondo cui persino la stessa condizione del singolo appare riducibile alle dinamiche della psicologia di massa, proprio secondo quello schema che tracciava Freud al termine del Disagio della civiltà, quando scriveva che la consapevolezza degli esseri umani del potere raggiunto sulle forze naturali spiegava «buona parte della loro presente inquietudine, infelicità, apprensione».

È proprio questo scivoloso crinale, affollato di insidie, che decide di percorrere Franco Berardi nel volume Heroes. Suicidio e omicidi di massa, il suo libro probabilmente più inquietante – se non altro per le storie individuali che vengono considerate come ‘esemplari’ – ma in cui giunge anche a completa maturazione un pessimismo dalle radici profonde[6].

Nel libro di Berardi vengono infatti ripercorse le storie personali di folli criminali che utilizzano armi micidiali per sterminare decine di innocenti, prima di togliersi la vita, ma queste vicende sono assunte come spie di un disagio generale, che non coincide solo con la patologia di casi estremi, perché riflette piuttosto la diffusione di massa di comportamenti patologici. Non è neppure necessario sottolineare come nella lettura che sorregge Heroes si annidino molteplici rischi, che non sono solo quelli di semplificare fenomeni inevitabilmente complessi. E non va neppure mai dimenticato che le ipotesi di Berardi sul disagio dell’«ipermodernità» non hanno – né pretendono di avere – un valore sul piano clinico (un valore che d’altronde non avevano neppure le ipotesi freudiane sul fondamento e sul destino della civiltà), e vanno piuttosto a collocarsi sul terreno di un’interpretazione ‘culturale’ del presente, dalla quale non sono peraltro mai assenti le preoccupazioni più strettamente ‘politiche’ sulle possibili modalità di azione in un contesto tanto fortemente segnato dalla «mutazione»[7]. A dispetto di tutte queste cautele, il pessimismo di Berardi non può essere probabilmente archiviato in modo frettoloso, e non se possono liquidare le estremizzazioni come il semplice vezzo intellettuale di un ‘provocatore’ culturale aduso all’iperbole. Perché a ben guardare, al netto delle estremizzazioni e delle provocazioni (che certo ci sono), il ritratto che Berardi ha delineato, investigando da vicino la mutazione tecnologica degli ultimi due decenni, coglie davvero alcuni aspetti cruciali. E vale dunque senz’altro la pena prendere sul serio le sue ipotesi, evitando di ricondurre le sequenze del suo itinerario all’interno della griglia interpretativa del «post-operaismo» italiano (che almeno nel suo caso appare oggi molto simile a una gabbia distorcente), e rendendo il dovuto merito a uno sguardo che – non da oggi – si è rivelato capace di cogliere tutte le insidie della trasformazione.

L’effige di Franco Berardi – con quel soprannome «Bifo», con cui ancora alle scuole medie cominciò a firmare le proprie opere – rimane per molti versi incastonata, come un tassello insostituibile, nel mosaico di quella «rive gauche in minore» che fu la Bologna degli anni Settanta. Una Bologna forse persino immaginaria, ma non per questo meno nitida nei suoi contorni, in cui stanno le ballate malinconiche di Francesco Guccini, gli esperimenti di Roberto Roversi e Lucio Dalla, il poliziotto Antonio Sarti e l’extraparlamentare eternamente fuoricorso Rosas, il «mediattivismo» goliardico di Radio Alice, il mao-dadaismo di «A/traverso», il Settantasette e il convegno sulla repressione, i dolori sentimentali di Boccalone e le performance di Roberto «Freak» Antoni, e in cui un posto d’onore non può che essere occupato proprio da Franco Berardi, che del movimento bolognese – politico, ma anche culturale e artistico – fu più che un semplice animatore. Ma proprio il fatto che l’immaginario collettivo lo abbia rivestito degli abiti (peraltro tutt’altro che adatti alla sua personalità) del ‘reduce’, insieme probabilmente alle doti istrioniche che lo rendono ancora oggi un formidabile affabulatore, ha finito col precludere la possibilità che in Italia si sviluppasse intorno alla sua riflessione e alle sue ipotesi un dibattito serio, come invece accade da anni all’estero, dove i libri di «Bifo» sono tradotti e discussi. Confrontandosi con la riflessione di Berardi, le pagine che seguono tentano invece di cogliere gli elementi più preziosi dell’indagine sul disagio dell’«ipermodernità» che l’intellettuale bolognese ha avuto modo di condurre nel corso degli ultimi decenni. Ma, al tempo stesso, cercano anche di portare alla luce un rischio che si annida nella sua prospettiva. Un rischio che affonda le radici nella stessa logica di un percorso ormai lungo quasi mezzo secolo, e il cui esito – paradossalmente – tende a configurare una sorta di ‘rimozione’ del conflitto dallo spazio dalla teoria.

 

Il mondo insensibile

Non è certo sorprendente che Franco Berardi definisca Heroes come un libro «orribile» (H 211). Per gli squarci che apre sul disagio di un’umanità tanto sofferente quanto colpevole di violenze efferate, il volume in molti passaggi risulta davvero urtante, sgradevole, doloroso. Gli assassini di cui il libro si occupa – tracciando gli schizzi biografici di personaggi come James Holmes, autore di una strage in un cinema del Colorado durante la prima del Cavaliere oscuro, come Pekka Auvinen, diciottenne che nel novembre del 2007 uccise nove coetanei in una scuola finlandese, come Seung-Hui Cho, studente di origine coreana colpevole del massacro di trentadue persone in un’università della Virginia, e come Andres Breivik, che il 22 luglio 2011 sterminò settantasette persone, a Oslo e nell’isola di Utoya, dove era in corso il raduno estivo dell’organizzazione giovanile del Partito laburista – non sono comunque considerati tanto nella loro specificità, ma piuttosto come segnali di un processo più ampio. «Non sono episodi marginali», scrive infatti Berardi, «dovremmo leggerli come il sintomo estremo di una sofferenza che dilaga al cuore della società contemporanea, perché il capitalismo finanziario è la fabbrica dell’infelicità, è un buco nero che inghiotte i beni comuni, il prodotto del lavoro, e soprattutto inghiotte la gioia, la speranza, e la possibilità stessa di vivere la vita» (H 12).

La scelta chiaramente provocatoria, spiazzante, di partire da casi tanto estremi per ricostruire un clima emotivo non può che calare sul libro un’ipoteca formidabile, suscettibile agli occhi di molti persino di squalificare l’intera operazione, perché quella scelta può apparire come una scorciatoia che dalle azioni di alcuni individui (i cui tratti sono peraltro desunti solo da informazioni giornalistiche) conduce sino alla società e a una condizione psicologica generale. A dispetto di tutte queste forzature, e delle provocazioni culturali, l’ipotesi che guida l’interpretazione di Berardi offre senz’altro degli elementi di riflessione tutt’altro che secondari, nella direzione di una ‘fenomenologia’ del presente, o persino di una «fenomenologia della fine», come recita il titolo di uno degli ultimi libri dell’intellettuale bolognese[8]. «Non credo che il suicidio si possa ridurre a un’unica causa, data la complessità psicologica della scelta di rinunciare alla vita», scrive Berardi, prevenendo le critiche di eccessiva semplificazione, ma, al tempo stesso, osserva che «quando i numeri sono così incredibilmente alti, quando il suicidio diviene un fenomeno di massa qualche motivazione comune deve esserci» (H 183). E la chiave del ragionamento, la spiegazione della dimensione di massa che assume il suicidio, sta – più che nei ritratti criminali, inevitabilmente grotteschi, un po’ come i ritratti della vecchia criminologia fin de siècle – nel titolo del volume, Heroes: un titolo il cui significato, però, si presta facilmente a essere frainteso, se non del tutto distorto. Il titolo si richiama infatti a un disco di David Bowie pubblicato nel 1977, nel quale l’artista britannico coglieva una trasformazione radicale nella figura dell’eroe: un eroe che non è più un soggetto, ma solo un oggetto, una cosa, un feticcio, riproducibile costantemente, all’interno di un quadro in cui dunque la realtà viene sostituita dalla simulazione e da simulacri. Come scrive Berardi nelle pagine introduttive: «La forma epica dell’eroismo è scomparsa verso la fine della modernità, quando la complessità e la velocità degli eventi umani hanno soverchiato la forza e la volontà. Quando il caos prevale l’eroismo epico è sostituito da grandi macchine di simulazione. Lo spazio del discorso epico viene occupato dalle corporazioni semiotiche, apparati che emanano illusioni largamente condivise. Questi giochi di simulazione spesso prendono forma di identità, come accade nelle sottoculture popolari, come il rock, il punk, la cybercultura e così via. Le origini della forma più moderna di tragedia stanno qui: sulla soglia le illusioni sono scambiate per realtà, e le identità sono percepite come un’autentica forma di appartenenza» (H 16-17). E proprio a partire dal fatidico 1977 – un anno per Berardi non solo simbolicamente cruciale – «il mondo trasmigrò dalla sfera dell’evoluzione umana alla sfera della de-evoluzione, o de-civilizzazione», gli eroi «si trasferirono in un’altra dimensione: si dissolsero, e divennero fantasmi», mentre «la razza umana, inseguendo finti eroi fatti di illusoria sostanza elettromagnetica, perse fede nella realtà della vita e dei suoi piaceri e cominciò a credere solo nell’infinita proliferazione delle immagini» (H 17). La trasformazione in simulacro della realtà – cui allude, un po’ cripticamente, il titolo del volume – è infatti per Berardi l’elemento cruciale della trasformazione che abbiamo vissuto nel corso dell’ultimo quarantennio, oltre che «la caratteristica quintessenziale del semiocapitalismo, il regime contemporaneo nel quale la valorizzazione del capitale è basata sulla costante emanazione di un’enorme quantità di informazione» (H 35).

Se nella lettura del «semiocapitalismo» proposta da Berardi un posto importante è occupato dalla «de-materializzazione» della produzione, ciò su cui attira soprattutto l’attenzione sono gli effetti che la trasformazione produce sugli individui, e cioè «la mutazione cognitiva e psichica che l’immersione prolungata in un ambiente digitale può produrre»: un’immersione che, al di là dei contenuti che vengono effettivamente proposti all’attenzione dei singoli, tende a produrre, soprattutto in virtù dell’iperstimolazione, «un effetto di desensibilizzazione all’esperienza corporea della sofferenza e del piacere» (H 59). E i terribili crimini di massa compiuti dagli individui considerati in Heroes costituiscono così «una manifestazione eccezionale di una tendenza generale di mutazione della reattività mentale» (H 59). A produrre la «desensibilizzazione» sono naturalmente molti processi, ma Berardi ne individua in particolare due, e cioè, da un lato, «la dissociazione dell’apprendimento linguistico dall’esperienza affettiva corporea», e, dall’altro, «la virtualizzazione dell’esperienza» (H 60). Nel quadro proposto da Berardi non può però mancare un riferimento alla dimensione più specificamente economica, e cioè non tanto al ruolo che le ‘macchine’ vengono a svolgere nell’interazione con gli individui, quanto all’utilizzo specifico che ne viene fatto all’interno del «semiocapitalismo», e dunque sulle conseguenze che da tale utilizzo derivano. «Il semiocapitalismo», scrive per esempio Berardi, «si fonda sullo sfruttamento delle energie mentali: l’attenzione è sotto assedio, sia nello spazio della produzione che in quello del consumo», e una simile iper-stimolazione dell’attenzione «implica un investimento costante di energia nervosa, […] molto più difficile da gestire e molto più imprevedibile di quanto lo fosse la forza muscolare che era al lavoro nella catena di montaggio industriale» (H 147). Quando evoca l’iper-stimolazione dell’attenzione, Berardi si riferisce a tutti quegli aspetti che vengono spesso ricondotti alle caratteristiche di ciò che è spesso definito «capitalismo cognitivo», «biocapitalismo» o «bioeconomia», ossia a una trasformazione – indagata a lungo dal post-operaismo, non senza qualche semplificazione e un’enfasi talvolta persino esasperata sulla tendenza[9] – che rende sempre più labili i confini tra vita e lavoro, e che viene invece a trasformare tutto il nostro tempo di vita in tempo di lavoro, grazie per esempio alla connessione costante in rete e alla telefonia mobile. In un contesto di questo tipo, molti degli strumenti tradizionalmente utilizzati dai lavoratori per negoziare il prezzo del proprio tempo di lavoro risultano del tutto inadeguati. «Il tempo di lavoro», scrive Berardi, «è frattalizzato, ridotto a frammenti minimi che possono essere riassemblati, e la frattalizzazione rende possibile per il capitale trovare continuamente le condizioni per il ridurre al minimo il salario» (H 150); inoltre, senza prossimità spaziale e continuità temporale, i singoli lavoratori non sembrano in grado di opporre alcuna significativa resistenza[10]. E anche perché non incontra alcuna resistenza reale, la stimolazione dell’attenzione che contrassegna il «semiocapitalismo» tende a innescare una vera e propria «mutazione». «L’organismo conscio e sensibile è sottoposto a una pressione competitiva crescente, a un’accelerazione degli stimoli, a uno stress costante dell’attenzione», tanto che – e qui si colloca un passaggio cruciale – «l’infosfera in cui la mente si forma ed entra in relazione con altre menti, diviene un’atmosfera psicopatogena» (H 151).

Naturalmente la connessione tra la formazione dell’«atmosfera patogena» e i casi estremi ricostruiti da Berardi nel volume non può che risultare labile, e in questo sta forse l’aspetto più provocatorio del volume. Un legame invece più forte appare quando lo sguardo si sposta su altri fenomeni di suicidio, in cui le dimensioni non possono far trascurare il peso delle influenze ambientali. In questo caso, Berardi si riferisce per esempio al suicidio cui ricorsero gli amerindiani dopo la colonizzazione spagnola, per sottrarsi alla condizione di schiavitù, o al Paputan balinese, esperienze che sono dolorosamente tornate alla mente in occasione per esempio della lunga catena di suicidi di dipendenti altamente qualificati di France Télécom[11], oppure al gesto estremo di quei giovani operai cinesi, che per protesta contro le terribili condizioni di lavoro negli impianti Foxconn, si sono tolti la vita gettandosi dal tetto delle fabbriche dormitorio in cui erano occupati, o alle migliaia di contadini indiani che dal 1997 si sono uccisi, schiacciati dai debiti contratti con la Monasanto per acquistare le sementi[12]. Questo tipo di suicidio, compiuto quasi sempre sul posto di lavoro, si avvicina infatti davvero molto – e probabilmente molto di più dei casi estremi e terrificanti degli stragisti cui è dedicata la prima parte di Heroes – a un comportamento in cui il suicidio diventa «la reazione degli esseri umani quando essi si trovano di fronte alla distruzione dei propri riferimenti culturali, e all’umiliazione della loro dignità», ossia proprio quella reazione che induce Berardi a riconoscere che «il suicidio segna così profondamente la scena del nostro tempo» (H 169). Ed è proprio il caso dei suicidi dei dipendenti di France Télécom a offrire la più nitida illustrazione di una logica terribile, che investe in modo specifico i lavoratori «cognitivi». Come scrive Berardi, «i lavoratori cognitivi sono stati costretti nella trappola della creatività: le loro aspettative sono sottomesse al ricatto produttivo, poiché sono obbligati a identificare la propria anima (la parte linguistica ed emozionale delle loro attività) con il proprio lavoro»; e dunque «i conflitti sociali e l’insoddisfazione sono percepiti come fallimenti psicologici, il cui effetto è la distruzione dell’autostima» (H 177). Gli strumenti adottati dalla direzione aziendale per aumentare la produttività – la meritocrazia, la competizione, l’individualismo – rompono la solidarietà fra colleghi, col risultato di lasciare solo il lavoratore dinanzi ai compiti crescenti richiesti, che vengono comunque accettati nonostante siano impossibili da svolgere. «Perché gli impiegati accettano questi compiti impossibili che gli vengono affidati?» si chiede Berardi, e la risposta che fornisce è centrata proprio sull’assenza di solidarietà fra colleghi: «perché la solidarietà è stata rotta, e ogni lavoratore è solo di fronte al ricatto del merito, e all’umiliazione della valutazione individuale che sta nelle mani di una gerarchia di mascalzoni», e ciò che segue «è un sentimento di colpevolezza, ansietà, risentimento reciproco per la percezione dell’incapacità di aiutarsi l’un l’altro e di creare solidarietà» (H 180). La «depressione condivisa» appare dunque, in questa prospettiva, come l’esito ricercato di una determinata strategia aziendale, «rivolta a esaurire le persone fino al punto in cui perdono ogni autonomia, ogni senso di solidarietà, così da diventare del tutto dipendenti dagli automatismi dello sfruttamento» (H 181).

La cifra distintiva, che definisce il contesto culturale e sociale in cui matura la diffusione di massa del suicidio, è dunque data dalla combinazione tra la «precarietà lavorativa» (intesa come «la cancellazione delle regole che sono state create nella relazione tra operai e capitale, e particolarmente la cancellazione del contratto che garantisce la continuità e la regolarità» H 215) e i due processi della diffusione delle tecnologie informatiche e della creazione della rete digitale: processi che hanno reso possibile la precarizzazione, nella misura in cui hanno consentito di ricombinare azioni produttive svolte in assenza di qualsiasi prossimità spaziale[13]. La convergenza di questi processi conduce però a un dato ulteriore, che Berardi identifica come la disgregazione dei due pilastri etici su cui si fondava la società moderna: per un verso, la responsabilità del borghese («davanti a Dio e di fronte alla comunità territoriale»), per l’altro la solidarietà tra lavoratori, in virtù della quale ogni singolo «era legato ai suoi compagni di lavoro dalla coscienza di condividere i medesimi interessi» (H 215). Oggi la situazione si profila invece come radicalmente opposta su entrambi i fronti. «Il capitalista post-borghese non si sente responsabile della comunità e del territorio, perché il capitalismo finanziario è totalmente deterritorializzato e non ha alcun interesse nel benessere futuro della comunità», mentre «il lavoratore post-fordista non ha più lo stesso interesse dei suoi colleghi, ma al contrario deve ogni giorno competere per il lavoro e il salario sul mercato deregolamentato e precario» (H 215-216).

L’obiettivo del libro di Berardi non consiste però solo nella denuncia del carattere ‘nichilista’ del capitalismo cognitivo, perché l’ambizione è anche quella di delineare – o forse solo prefigurare – una strategia capace di rispondere alla «partita del futuro»: una partita che si giocherà nei prossimi decenni tra le alternative di una «definitiva automazione del cervello collettivo» e l’«autonomia consapevole dell’intelletto generale» (H 216), tra la «sottomissione della mente alle regole della neuro-macchina globale secondo il principio competitivo dell’economia capitalista» e «l’emancipazione della potenza autonoma dell’intelletto generale» (H 219). L’ambizione è cioè quella di individuare «un metodo etico di sottrazione alla barbarie presente», oltre che di elaborare «il modo di interpretare i nuovi valori etici che la barbarie porta con sé» (H 220). E il fatto che venga evocato un «metodo etico», come possibile percorso di fuoriuscita dalla «barbarie», non è certo casuale, perché Berardi ritiene che il terreno della tradizionale azione politica sia, più che concretamente impraticabile, sostanzialmente incapace di incidere sulla realtà del mutamento.

La soluzione che viene profilata non può però non apparire deludente, o quantomeno ben poca cosa dinanzi alla capacità soverchiante del cupo panorama descritto nell’intero volume. Di fronte allo «spasmo» contemporaneo – «effetto della penetrazione violenta dello sfruttamento capitalista nel campo delle info-tecnologie, che coinvolge la sfera della cognizione, della sensibilità e dell’inconscio» – Berardi evoca infatti la «caosmosi» teorizzata da Felix Guattari nel suo ultimo libro, ossia «il passaggio osmotico da uno stato di caos a un nuovo ordine», inteso però solo nei termini di un’«armonia tra la mente e l’ambiente semiotico, e anche come condivisione simpatetica di un comune ambiente mentale» (H 232). In sostanza, dal momento che «la coscienza è troppo lenta per elaborare l’informazione che proviene dal mondo in accelerazione», e che dunque «il mondo non può essere tradotto in un cosmo, ordine mentale, sintonia e simpatia», «abbiamo bisogno di una trasformazione, il salto a un nuovo ritornello, a un nuovo ritmo: la caosmosi è il passaggio da un ritmo di elaborazione cosciente (ritornello) a un altro ritmo, che sia adatto a elaborare quel che il ritmo precedente non poteva elaborare», «un salto nella velocità della coscienza elaboratrice, e di conseguenza la creazione di un differente ordine di elaborazione mentale» (H 233-234). E sempre utilizzando la terminologia di Guattari, la strada che conduce alla «caosmosi» passa per la costruzione di un «caoide»: «un decodificatore vivente del caos», «una sorta di de-moltiplicatore, un agente di re-sintonizzazione, un agente linguistico che si liberi dal ritornello spasmico», «una forma di enunciazione (artistica, poetica, politica, scientifica) che riesce ad aprire i flussi linguistici a ritmi e cornici interpretative diverse» (H 234-235). Ma, in realtà, il «caoide» evocato nelle pagine finali rimane senza un volto, che non sia quello di una sottrazione rispetto alla politica e alla partecipazione politica, o quello di un’ironica presa di distanza da ogni profezia che riguardi il destino (più o meno catastrofico) dell’umanità[14]. E proprio per questo l’incubo totalitario dipinto in Heroes sembra in fondo destinato a non incontrare alcuna seria resistenza.

Il pessimismo che trasuda quasi da ogni pagina di Heroes, come d’altronde dagli altri libri recenti di Franco Berardi, può risultare sorprendente a chi non abbia seguito l’itinerario teorico compiuto negli ultimi anni dall’intellettuale bolognese, e forse soprattutto a quanti ricordino «Bifo» solo come il ‘profeta’ di quella «generazione dell’anno Nove» che, ormai quasi quarant’anni fa, privilegiava «una pratica della scrittura ‘trasversale’», si proponeva di «liberare il desiderio» e intendeva il linguaggio come una «pratica di sovversione permanente» capace di «far saltare la dittatura del significato» e «la dittatura del politico»[15]. A dispetto di questa immagine, il pessimismo di Heroes ha però radici molto profonde, che in qualche modo affondano proprio negli anni Settanta. Innanzitutto perché Heroes può essere letto come il provvisorio punto di approdo di un percorso di ricerca sulle trasformazioni del lavoro avviato più di quarant’anni fa, quando Berardi seppe cogliere – con indiscutibile lungimiranza – il ruolo che avrebbe avuto il lavoro intellettuale e intravedere la logica delle sue metamorfosi successive. Ma, in secondo luogo, anche perché il pessimismo che trapela da tutte le pagine di Heroes rappresenta per molti versi la conseguenza – forse imprevista – di quella «critica della politica» intrapresa negli anni Settanta, che ancora oggi – seppur in forme mutate – continua a contrassegnare la prospettiva di Berardi.

 

Le contraddizioni dell’«infosfera»

Nella ricca produzione teorico-politica di Berardi, Heroes è in effetti solo il capitolo più recente, nel quale è peraltro agevole ritrovare molti – se non tutti – i fili che tengono insieme la riflessione dell’intellettuale bolognese da più di trentacinque anni. Già all’inizio degli anni Settanta, Berardi cominciò infatti a interrogarsi sul significato politico che la creazione artistica poteva assumere nel nuovo contesto sociale e produttivo, e dunque a delineare il quadro in cui avrebbero preso forma le sperimentazioni ‘mao-dadaiste’ di «A/traverso»[16]. Contemporaneamente, iniziò però anche a indagare trasformazioni del lavoro e in particolare i processi che venivano a coinvolgere il lavoro intellettuale. Nelle pagine di Scrittura e movimento, riflettendo all’indomani della grande ondata di mobilitazioni che aveva investito nel 1973 il ciclo dell’auto in tutta Europa (e naturalmente a Torino), sosteneva che quel movimento aveva rappresentato per molti versi l’apice della parabola dell’operaio massa, e che proprio la vittoria di questa figura faceva prevedere l’inizio di una nuova fase e dunque la definizione di una differente configurazione. «In questa nuova composizione di classe», scriveva infatti, «il lavoro intellettuale e tecnico, l’intelligenza produttiva (la wissenschaft-technische-Intelligenz) tende a diventare determinante» (SM 8). E questo processo poneva una serie di problemi inediti, che riguardavano innanzitutto il tipo di organizzazione adottato dai diversi gruppi dell’estrema sinistra, inadeguato alle modificazioni in atto, ma anche la crisi della figura dell’intellettuale, il quale, pur assumendo ormai i tratti di «produttore di informazioni produttive», scriveva Berardi, non aveva fino a quel momento «saputo assumere coscientemente questo nuovo ruolo», continuando invece «ad agire entro la cultura come istituzione, a considerare separatamente la sua collocazione materiale dalla sua pratica testuale, dalla sua operatività cosciente» (SM 24). Le sperimentazioni comunicative di «A/traverso» e poi di Radio Alice costituivano in gran parte il tentativo di adottare uno stile comunicativo adeguato alla centralità del lavoro intellettuale e, al tempo stesso, un modo per prefigurare una nuova forma di azione politica[17]. E in questo senso, il ruolo ambivalente del processo di «massificazione della forza-lavoro intellettuale e tecnico-scientifica» era un elemento quasi fondativo nella riflessione di «A/traverso». Come si leggeva sulla rivista nell’ottobre del 1975: «L’intelligenza tecnico-scientifica è prodotta dentro il conflitto operai-capitale», ma, dal momento che «l’informatizzazione del processo lavorativo massifica e proletarizza uno strato sociale di lavoratori intellettuali, e questi si incontrano con la forza-lavoro scolarizzata e politicizzata che si è formata negli anni ‘60-’70, si apre una nuova decisiva contraddizione»[18]. In altre parole, «nel momento in cui il lavoro intellettuale si proletarizza, questo strato diviene portatore dei bisogni più avanzati, ma anche – come detentore del sapere sociale accumulato – diviene portatore della possibilità materiale di trasformazione operaia del meccanismo produttivo, da strumento di intensificazione dello sfruttamento a strumento di liberazione dal lavoro»[19]

Proprio nello spazio in cui i linguaggi delle avanguardie artistiche dei primi decenni del Novecento parevano diventare patrimonio di un critica di massa, andavano a collocarsi anche gli episodi principali della riflessione teorica condotta da Berardi negli anni Settanta. Al di là dell’efficacia di questi strumenti e dell’originalità dell’intera riflessione, lo scenario sociale doveva sensibilmente modificarsi alla svolta degli anni Ottanta, quando il mutamento del quadro politico faceva emergere le prime tracce di quel pessimismo radicale che oggi si ritrova nelle pagine di Berardi. Nel giugno del 1981, «A/traverso» per esempio scriveva che era cominciato «il tempo del dopo», un dopo che si presentava «come un deserto di cui non vediamo la fine»[20]. Ma ciò cui si riferiva questo testo non era il clima segnato dalla repressione e dalla spirale della violenza, seguita al rapimento di Aldo Moro, e neppure il «riflusso» che aveva spinto molti militanti ad allontanarsi dall’impegno politico. Il «deserto» cui alludeva «A/traverso» era piuttosto l’orizzonte della mutazione antropologica che si profilava ormai nitidamente. Una mutazione differente da quella di cui Pier Paolo Pasolini aveva intravisto i contorni qualche anno prima, nei famosi editoriali apparsi sul «Corriere della Sera»[21], ma i cui effetti non erano meno dirompenti. Citando McLuhan, «A/traverso» prevedeva infatti l’emergere di un processo di ‘ritribalizzazione’, innescato dalle nuove tecnologie, e in questa diagnosi affioravano già molti degli elementi che si riconoscono anche oggi nell’interpretazione di Berardi:

«oggi l’ambiente in cui viviamo è costituito non più di oggetti, ma di segnali la cui anima è il potere comunicativo e informativo di cui sono stati dotati. Viviamo in un ambiente definibile come infosfera, universo animato nel quale pulsano messaggi che qualcuno ha inviato perché altri possa riceverli, se vuole, o talvolta anche se non vuole. Una seconda caratteristica delle ritribalizzazioni delle facoltà intellettive è la rimitizzazione della memoria, con tutti gli effetti (spesso sconvolgenti) che questa può produrre. L’informatizzazione, l’immagazzinamento della conoscenza e della memoria e la loro automatizzazione, tendono a ridurre e cristallizzare la memoria viva, individuale del passato e del vissuto. La memoria tende ad essere sempre meno memoria umana, e sempre più memoria informatica. Questo produce effetti che oggi possiamo cominciare solo ad intravvedere. Il passato viene percepito come tempo senza profondità, come tempo non vissuto, come mera configurazione ottica. Alla percezione del vissuto e della sua pluralità si sostituisce la piattezza di una percezione tutta contemporaneizzata, senza dinamicità e senza diacronia. La fine della ragione critica è probabilmente inscritta inevitabilmente in questa de-memorizzazione. Ma al tempo stesso sono tutte da scoprire le potenzialità di rimitizzazione dell’universo»[22].

In quella fase, lo sguardo di Berardi non rinunciava a ritrovare, dentro la mutazione, delle potenzialità notevoli. In un frammento del gennaio 1980, poi pubblicato nel volume Presagi, scriveva per esempio che, «nella sincronizzazione senza sintesi e senza soggetto della percezione», era necessario «far funzionare nuovi punti di intersezione», «cercare e produrre i suoni capaci di attraversare e trasformare il ritmo della nostra epoca», «traversare il deserto fatto di segno che non si traducono in un unico linguaggio comprensibile»[23]. In altri termini, il nuovo nomadismo – ossia «la mobilità territoriale delle tribù videoelettronica» – poteva essere concepito anche come una realtà che consentiva «di fuggire costantemente dalle condizioni create dalla crisi capitalistica cercando dovunque possibilità di vita residuali»[24]. Un simile ottimismo doveva però mostrare di lì a poco tutta la sua ingenuità, e per questo risultano oggi molto più profetici i versi di Game over, un «poema videoelettronico» firmato da Berardi insieme a Enzo Crosio e apparso su «A/traverso» nell’ottobre 1981: «Vince sempre la macchina. La funzione esponenziale della velocità elettronica abbatte l’una dopo l’altra le funzioni della reattività biologica. / E prima o poi perdi»[25].

Anche se Berardi riconobbe negli anni Ottanta, oltre l’«omologazione» e la «superficialità», anche «un arcipelago di esperienze creative autentiche, di opere e di situazioni del tutto indifferenti alla logica del mercato», nel corso del decennio divenne piuttosto chiaro che si era ormai indirizzati verso «una mutazione antropologica, sociale, paradigmatica», verso un mutamento «confuso, e in molti punti inquietante», all’interno del quale si profilava anche «una nuova forma di totalitarismo, disincarnato ed astratto, ma non per ciò tollerabile»[26]. Quasi inevitabilmente, più che verso il futuro, lo sguardo di Berardi – un po’ come l’Angelus novus di Paul Klee – continuava a volgersi però verso il passato, nel tentativo di trovare una spiegazione alla catastrofe politica e esistenziale con cui si erano chiusi gli anni Settanta. Ed era in fondo per questo che, in occasione del decennale dal Settantasette, in Dell’innocenza, tornò a riflettere su quel movimento. Un movimento di cui «Bifo» non nascondeva affatto le ambiguità, che riconduceva alla compresenza di due diverse correnti. La prima «riproduceva il modello classico delle rivoluzioni del ventesimo secolo». La seconda invece «partiva dalla constatazione di un processo: il processo di liberazione del tempo umano dalla necessità del lavoro industriale» (I 37). Questa seconda corrente dunque «concepiva il movimento come consapevolezza pratica di un processo di proporzioni immense e dagli effetti sconvolgenti: il processo di estinzione del lavoro industriale e di generale trasformazione dell’attività umana» (I 38). E proprio in virtù di tale consapevolezza il Settantasette poteva essere considerato come un anno di «premonizione»: un anno in cui cioè, all’interno del movimento, emerse «la percezione (euforica prima e poi disperata) di un processo di mutazione dell’attività umana, dell’aggregazione e della comunicazione sociale, della stessa attività cognitiva e della trasmissione del sapere che oggi si sta dispiegando, e di cui ci manca ancora una comprensione adeguata» (I 38). Il titolo con cui nel giugno 1977 un numero di «Zut-A/traverso» annunciava, non senza qualche dose di provocazione goliardica, «la rivoluzione è finita, abbiamo vinto», stava a indicare così due processi distinti: da un lato, che la concezione moderna della rivoluzione doveva essere abbandonata per sempre, a vantaggio della «creazione di un’area sociale capace di incarnare l’utopia di una comunità che si sveglia e si riorganizza fuori dal modello predominante di scambio economico del lavoro e del salario» (I 49); dall’altro, quasi si trattasse di «una sorta di scongiuro», «l’indicazione di un atteggiamento mentale», il progetto «di creare le condizioni per affrontare in termini di sperimentazione consapevole e collettiva il processo di estinzione del lavoro» (I 50).

Se il Settantasette, secondo Berardi, tentò dunque di «dare una forma soggettiva, politica, riconoscibile e pratica a questo processo individuato astrattamente, in modo puramente teorico», questo sforzo naufragò dinanzi alla realtà di una transizione postindustriale che, di fatto, contrappose l’una all’altra «forza-invenzione» e «forza-lavoro»[27]. Ma la fine della rivoluzione sancita dal Settantasette era comunque, agli occhi di Berardi, un dato irreversibile, che chiudeva anche con la dialettica, nel senso che quella che «al pensiero dialettico appare come sofferta alienazione del lavoro, come dolorosa espropriazione dell’attività, può diventare estraneità gioiosa», e dunque non più «una destinazione finale, una soluzione dialettica, un aldilà storico nel Superamento», bensì «un attivo sottrarsi al lavoro ed una estraneità produttiva, utile» (I 70). Forse proprio qui stava l’eredità ancora preziosa del movimento sconfitto, nella sua «innocenza», ossia nella capacità di concepire «la condizione della rivolta non più come rivolta storica, come volontà di istituire un mondo storico giusto, ma come attivo sottrarsi, come saggezza», oltre che come «adattamento capace di rifiutare la menzogna storica, e dunque di sottrarsi alla dimensione dell’adattamento storico – per misurare direttamente l’esperienza del singolo su un ritmo che non è quello della storia, bensì del fluire del tempo storico» (I 107). E quando oggi, al termine di Heroes, Berardi evoca la necessità dell’ironia e della sottrazione, non fa altro che riproporre in modo solo leggermente diverso la «saggezza innocente» di cui il Settantasette – almeno in una sua componente – si fece portatore.

Nel corso degli anni Ottanta Berardi non cessò però di osservare quanto stava avvenendo al lavoro mentale nel corso della rivoluzione comunicativa. Nel saggio Il paradosso della libertà utilizzò infatti un’idea destinata a tornare molto spesso nei suoi scritti successivi. Riprendendo una formula di Ken Wilber, scrisse che «l’attività mentale è l’attività di un campo formato da flussi di energia e di informazione che si intersecano», e che possono essere visti come «sostanze che si mescolano nel cervello sociale», dando forma a una sorta di «psicochimica del sociale»[28]. E soprattutto chiarì in che termini la sempre più pervasiva rivoluzione comunicativa incidesse su questa «psicochimica»:

«Psicofarmaci, regolatori chimici del cervello […] si sommano in questo processo di produzione del sistema nervoso sociale, che diviene il processo di produzione centrale del sistema postindustriale. È per questo che il sistema potrebbe designarsi come società della produzione immateriale. Il campo mentale è pervaso e permeato da flussi materiali, in quanto materia sono le onde elettromagnetiche, e materia sono le pillole di Valium; ma il loro prodotto è immateriale. Il campo di circolazione di questi flussi possiamo definirlo infosfera. La mente individuale proietta il suo mondo come ecosfera»[29].

Anche se la fenomenologia della mutazione non poteva che essere solo ai capitoli iniziali, Berardi coglieva come la modificazione della «psicochimica sociale» avesse implicazioni dirompenti sul terreno della percezione sociale e sul terreno politico. Il principale effetto della «colonizzazione della mente umana» e della proliferazione dei segnali riguardava infatti la percezione del tempo e dunque la trasmissione della memoria. «Il modello dell’istanteneità comunicativa, la trasmissione di segni sostitutivi dell’evento reale», osservava, «determina una mutazione del meccanismo di base della memorizzazione: è azzerata la percezione stessa della diacronia, dello svolgersi degli eventi nel tempo, della successione degli istanti nel vissuto»[30]. E se tutto questo pareva determinare «una cancellazione della profondità temporale, della percezione stessa della continuità dell’esperienza personale nel passato nel presente verso il futuro»[31], sanciva anche, prevedibilmente, la chiusura definitiva di qualsiasi azione politica indirizzata verso il futuro, e dunque di qualsiasi progetto utopico di trasformazione radicale. Col risultato di rendere la depressione una condizione di massa:

«Quando l’immaginazione utopica ha mostrato segni di disattivazione, nel sistema cognitivo sociale, le antenne delle generazioni culturali che si erano formate nell’epoca di massima espansione di quella facoltà hanno cominciato a non ricevere più segnali. La depressione può essere interpretata come incapacità di decifrare e percepire coscientemente i segnali in arrivo. L’input di senso sembra ridursi a zero… Il narcisismo investito nella ricerca di senso si rovescia quindi in depressione. Il nichilismo spettacolare del sistema planetario militarizzato agisce come una bomba metafisica, come l’innesco di un processo di devitalizzazione di cellule informate secondo uno schema finalizzato, teologizzato, orientato verso il senso, verso l’utopia di un mondo razionale, verso il superamento dialettico. Il cervello sociale della generazione polarizzata sul senso si spappola e diviene incapace di immaginare, cioè di proiettare scenari concreti del futuro. Un disturbo dell’immaginazione è all’origine della depressione: l’immaginazione del futuro non ha più alcuna concretezza, alcuna vitalità. La depolarizzazione depressiva trova una traduzione adeguata ed un equilibrio nel regime psicochimico dell’eroina, assuefazione ossessiva, reazione obbligatoria ad uno stimolo ripetitivo. […] La depressione è azzeramento dell’input informativo, perché i recettori di impulsi, polarizzati sul senso, non riescono a registrare impulsi. Gli impulsi che circolano nell’infosfera videoelettronica funzionano secondo un codice indecifrabile: la ricezione consapevole tende a ridursi a zero, o forse il piano della consapevolezza si sposta. Si ha l’impressione che non accada più nulla, proprio mentre la quantità di informazione diviene infinitamente più alta. Ma in questo circolo può determinarsi una ripolarizzazione selvaggia […] Il mondo senza verità, resosi percepibile ad un cervello sociale privo del filtro del senso, bombarda il sistema nervoso inducendo dinamiche di panico o di conformismo ed omologazione»[32].

Benché il quadro iniziasse senz’altro a tingersi dei toni cupi del pessimismo, nella descrizione che forniva allora Berardi si poteva ravvisare ancora qualche traccia di ambiguità. La contrazione della percezione temporale e l’azzeramento della percezione della diacronia in qualche modo lasciavano ancora qualche elemento di speranza, se non altro perché, a cavallo tra anni Settanta e Ottanta, in tutta Europa i movimenti subculturali giovanili avevano innalzato la bandiera del No-Future, in una chiave non lontana da quella logica di ‘sottrazione’ in cui Berardi indicava in fondo il nucleo portante della «saggezza innocente» del Settantasette. Il moderato ottimismo con cui al principio degli anni Ottanta si poteva guardare a questi movimenti metropolitani, alla fine del decennio non poteva essere però riformulato negli stessi termini, e non a caso Berardi enfatizzava soprattutto gli elementi critici del processo in atto[33]. La fenomenologia della mutazione doveva però procedere ulteriormente, in questa stessa direzione, nel corso del decennio seguente. Se nel volumetto Lavoro zero Berardi riproponeva l’attualità di un programma di riduzione dell’orario di lavoro, come perno di una piattaforma rivendicativa per i nuovi movimenti, in quel testo lambiva anche l’insieme delle trasformazioni che avevano investito il lavoro mentale. E scriveva, per esempio, che «il coinvolgimento dei lavoratori nel processo produttivo diviene essenzialmente coinvolgimento dell’energia nervosa», un coinvolgimento il cui effetto era la nascita di una forma di «psicopatia». «La contraddizione sociale si manifesta sempre più nella forma della sofferenza mentale», notava inoltre in un passaggio per la verità incidentale, e per questo «la sofferenza mentale non è più un margine della vita sociale, non è più un fenomeno limitato e segregabile, ma dilaga nel cuore stesso della vita produttiva, ne diviene il principale prodotto sociale»[34]. Ma l’intero ragionamento, oltre che a sostenere la necessità della riduzione generalizzata dell’orario di lavoro, era finalizzato a mostrare la senescenza della logica economica di misurazione dell’attività intellettuale in base al tempo individuale di lavoro[35]. E proprio per la scarsa attenzione riservata alla radicalità della svolta in atto, Berardi sarebbe tornato criticamente su questa insufficienza del proprio volumetto, che, come avrebbe scritto in un testo pubblicato nel 1995, aveva dimenticato l’elemento cruciale, ossia l’integrazione fra l’«infoproduzione» e ciò che definiva come «Neuromagma». Un elemento che faceva presagire scenari catastrofici:

«Io vedo due processi dominanti nella nostra epoca, che sono diversi in tutto, ma convergono nel senso della catastrofe implosiva. Il primo processo è quello della deterritorializzazione tecnologica. Frammenti di sapere digitalizzato trasformano la produzione, la comunicazione, l’esperienza quotidiana in un Neuromagma modulare, sottoposto a una ininterrotta ricombinazione. Il ciberspazio si espande illimitatamente e a crescente velocità, mentre il tempo di elaborazione cosciente non può espandersi alla stessa maniera e alla stessa velocità. Quanto più si espande la sfera del conoscibile, tanto più aumenta l’indecidibilità e l’ansia dell’attore umano. Questo mette in moto un secondo processo, completamente diverso dal primo: il residuo di fisicità che la digitalizzazione non ha potuto eliminare dalla scena sociale reagisce con un movimento disperato di riterritorializzazione. Il cervello incapace di elaborare una infosfera troppo ampia, troppo veloce, troppo densa, si abbarbica alle (illusorie) certezze fondamentali: le certezze dell’identità, della terra, del sangue, del popolo, della fede» (N 25-26).

Negli anni Novanta, la mutazione appariva però a Berardi ancora ambivalente, nelle sue potenzialità. Certo per un verso si presentava come «un processo di irreversibile mutamento biologico e genetico dell’organismo», ma al tempo stesso, Berardi osservava: «Il processo di riorientamento non è certamente lineare né consapevole, ma segue percorsi difficili da comprendere, anche perché chi cerca di analizzare questo processo è coinvolto a sua volta», e perché in questo quadro «si sviluppano nuove competenze, e queste nuove competenze si trasmettono da un organismo a un altro come per via di un contagio virale» (MC 18-19). Se da un lato segnalava le conseguenze distruttive del panico, della depressione, del sovraccarico, dell’anestesia (MC 53), dall’altro non pareva escludere l’eventualità che si trattasse degli effetti legati a una transizione, e che – come voleva d’altronde l’utopia cyberpunk – esistessero i margini per una sorta di ‘riappropriazione’ della tecnologia. Così, seppur marginalmente, evocava la «sorpresa» del «riapparire improvviso di un ritmo singolare nella trama della realtà che pretende all’identico», la «sorpresa» dell’«attualizzarsi dell’evento». Una sorpresa che naturalmente comprendeva l’irruzione dei movimenti: «Anche i movimenti», scriveva infatti, «appartengono a questa categoria di condivisione di sogni, di creazione di mondi», perché il movimento si configurava ai suoi occhi come uno «spostamento del luogo che porta gli individui nella condizione di vedere in comune un nuovo orizzonte, un orizzonte che non si vede che da quel luogo deterritorializzato» (MC 172-173).

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