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La lanterna di Wallerstein: introduzione ai sistemi mondo

di Francesco Scanni

galileoTINA (There is no alternative). Con questo slogan, Margaret Thatcher tentò di instillare, nell’immaginario collettivo, la convinzione che non ci fosse reale alternativa alla globalizzazione neoliberista. Una valutazione storica sul come e sul quanto questa convinzione abbia fatto breccia, non potrebbe che partire dalla forza con la quale, il termine globalizzazione, si sia imposto nel senso comune. La modernizzazione neoliberista delle strutture statali (rigorosamente) è stata caldeggiata da una panglossiana epopea, la quale prefigurava un mondo perfetto nell’avvenire, in cui il mercato avrebbe dispiegato la sua hybris sostenendo la crescita di ogni Paese che avrebbe investito.

Molti studiosi criticarono questa prospettiva, con chiavi di lettura differenti. I pionieri dell’analisi dei sistemi-mondo sottolineavano, ad esempio, che nonostante l’enfasi posta sugli Stati-nazionali come attori primi e principali del processo di globalizzazione, essi sono sempre inseriti in un contesto specifico, al cui interno esistono: altri Stati, istituzioni, regole e strutture ben precise. Un tale sistema storico va sotto il nome di sistema-mondo.

Questo approccio si innesta nel solco del costruzionismo sociale anche se in maniera del tutto originale, poiché promuove una visione olistica della società, portando in dote una concezione monista che rifiuta la frammentazione tra le diverse discipline che caratterizza il sapere moderno. La critica primaria che questi studiosi muovono nei confronti dell’ideologia liberale riguarda la frammentazione del sapere che essa ha incentivato. Il divorzio tra discipline scientifiche ed umanistiche è un portato del sistema-mondo moderno e si basa su assunti di natura epistemologica. I sostenitori del sapere scientifico si fecero persuasi dell’idea che l’unica via per giungere alla verità fosse la conoscenza empirica, l’unica verificabile e riproducibile, ed allo stesso tempo considerarono quello filosofico un sapere astratto, specialistico e metafisico: in sostanza non verificabile.

Ben presto, le discipline sociali, la sociologia, l’economia e la scienza politica, abbracciarono la causa degli scientisti. Queste nuove branche del sapere avevano assunto una particolare rilevanza con la rivoluzione francese, in seguito alla quale si accrebbe l’interesse degli studiosi per i movimenti sociali e politici. Al crocevia tra un sapere definito empirico ed un approccio di tipo umanistico si situarono gli storici, i quali erano persuasi dal fatto che le dinamiche sociali fossero ben diverse dai fenomeni fisici e che, per tale ragione, ogni avvenimento andasse analizzato nella sua specifica storicità. Essi rigettavano le posizioni speculative tanto quanto i tentativi di generalizzazione scientifica su larga scala. L’ideologia liberale oramai egemone, avallò la necessità di una differenziazione delle tre discipline sociali, coerentemente con la sua concezione di società moderna divisa in tre sfere: il Mercato, lo Stato, la società civile. La logica soggiacente era semplice: se nessun potere può invadere l’altrui campo, neppure i rami del sapere possono essere interconnessi. Allo stesso tempo, ciascuna di queste discipline coltivava la convinzione che le rispettive sfere d’analisi fossero governate da leggi, potessero cioè essere individuate attraverso l’analisi empirica e la generalizzazione. La ricerca di un sapere oggettivo, alla stregua delle scienze naturali, e nomotetico (rivolto alla ricerca di leggi scientifiche per studiare i fenomeni sociali) era diventato il principale proposito dei futuri scienziati sociali.

Un problema concreto sorse ben presto e scosse questo impianto teorico. Gli studiosi delle scienze sociali si occupavano principalmente dei 5 Paesi dell’Occidente capitalistico, e quando dovettero approcciarsi a realtà differenti, osservare sistemi non equiparabili a quelli sino ad allora studiati, si videro costretti a relativizzare il proprio sapere. Un chiaro esempio è rappresentato dagli scritti di Karl Marx sul modo di produzione asiatico, o dal lavoro di E. Sayd dal titolo Orientalismo. Videro così la luce gli “area studies”. Ma come era possibile combinare un approccio essenzialmente idiografico con canoni oggettivi e nomotetici? la soluzione venne rintracciata nel concetto di sviluppo. Questa idea assumeva che i singoli Stati si sviluppassero tutti fondamentalmente allo stesso modo (esigenza nomotetica) ma con ritmi differenti (riconoscendo le differenze tra gli Stati).

All’interno di tale prospettiva, anche se da un punto di vista critico, si inserisce lo studio di Immanuel Wallerstein. Wallerstein è un sociologo ed economista statunitense, nato nel 1930. Come Eisenstadt, egli si è occupato dei rapporti di potere tra le diverse parti del mondo, ma critica la prospettiva occidento-centrica proposta da molti studiosi. Un’altra fondamentale differenza che corre tra i due studiosi è basata sul valore: Wallerstein non utilizza un approccio a-valutativo, ma è essenzialmente un marxista eterodosso. Wallerstein riprende l’approccio storico-metodologico braudeliano, che si incentra sullo studio dei processi di lunga durata anziché sui singoli avvenimenti, e la visione economica già valorizzata dallo studio di Karl Polanyi. L’originalità dell’impianto teorico di Wallerstein consiste nel pensare il capitalismo non tanto (e non solo) come sistema di sfruttamento, ma come sistema aperto, nella sua dimensione commerciale. Non a caso, diversi detrattori mossero accuse nei riguardi della teoria di Wallerstein, incentrata, a detta loro, su una visione più smithiana che ricardiana sul tema del valore. Il profitto nasce nei grandi commerci, da rapporti sbilanciati tra periferie e centri, nell’ambito dei quali si trasferisce plusvalore dalle zone più ricche alle zone più povere. I prodotti delle periferie, per via del minore costo della manodopera rispetto al centro, sono più carichi di pluslavoro, quindi di plusvalore. Per tale ragione, lo scambio tra centro e periferia è sempre sbilanciato a favore del centro.

La falsa convinzione di uno sviluppo uniforme ed omogeneo viene così divelta. Persino la teoria ricardiana dei vantaggi comparati è in discussione, proprio a partire dalla concezione che Ricardo stesso aveva del valore, la cui misura consiste nella quantità di lavoro: per lavoro non si intende mai esclusivamente l’astratta attività storica, ma sempre il lavoro salariato, rapporti di potere e mezzi di produzione compresi. Inoltre, al centro vengono garantiti grandi profitti da un’altra caratteristica specifica: il regime oligopolistico o di semi-monopolio in esso presente. Grazie al primato tecnologico, questo permette di scambiare prodotti finiti con manodopera non specializzata e materie prime. Nella modernità, quindi, non tutti gli stati sono uguali, sistemicamente.

L’approccio di Wallerstein è sistemico e non esclusivamente comparativo: prendiamo ad esempio il caso italiano con il dualismo Nord-Sud. L’approccio sistemico consente di comprendere le reali relazioni di potere che esistono tra due realtà, quello comparativo invece si limita ad illustrare le differenze tra esse. Non vi è più una sola modernità, ma molteplici e diverse, e non può esistere convergenza poiché i centri traggono sempre più vantaggio dalle periferie. Si presenterà da qui, nel palcoscenico delle scienze sociali, il tema delle modernità multiple.

La visione del mondo presente nella teoria di Wallerstein, che viene introdotta dalla divisione centro-periferia ha però comportato un ampio dibattito al proprio interno rispetto ai metodi da utilizzare per riuscire a correggere le storture dello scambio ineguale. La prima prospettiva, quella sviluppistico-deterministica, riteneva che la soluzione fosse naturalmente contenuta nello sviluppo stesso. L’arretratezza dei diversi sistemi economici era il portato di una fase embrionale dello sviluppo capitalistico in alcuni Paesi. Questi, non avendo ancora completato il passaggio dal feudalesimo alla borghesia, risentivano della impostazione economica ancora prevalentemente agraria. Diversi partiti comunisti, specie in America Latina, credettero che una tale circostanza richiamasse alla necessità di un impegno fattivo per sospingere ed aiutare la rivoluzione borghese, dalla quale sarebbe poi sorto il proletariato di fabbrica, soggetto principale del futuro avvento del socialismo. La seconda visione, che per comodità analitica definiremo costruttivista, riteneva che alcuni sistemi considerati ancora pre-capitalistici fossero in realtà pienamente capitalisti e parte integrante di un sistema-mondo e dell’economia-mondo capitalistica. Al contrario del marxismo ortodosso, questa prospettiva riteneva possibile il superamento di tale sistema solo attraverso una rivoluzione politica ed economica.

Anche in campo economico il dibattito ebbe degli strascichi, specie sul tema della transizione dal feudalesimo al capitalismo (viatico teorico per affrontare la discussione successiva sul superamento del sistema capitalistico). I protagonisti di questo dibattito tutto interno al panorama marxista furono Maurice Dobb, economista marxista inglese e Paul Sweezy, economista marxista americano. Mentre Dobb riteneva fondamentale soffermarsi sui fattori interni della produzione (rapporti di produzione e contraddizione tra rapporti di produttivi e mezzi della produzione) per spiegare la transizione al capitalismo, Sweezy poneva invece l’accento principalmente sui flussi commerciali e sulle aree in cui questi si realizzavano. Lo studioso americano spiegava ad esempio che, l’ascesa dell’Islam nell’area euro-mediterranea aveva comportato un’interruzione delle rotte commerciali con l’area euro-occidentale, e che ciò avrebbe determinato una stagnazione economica. Sulla scia delle argomentazioni di Sweezy si iniziò a parlare espressamente di sistemi-mondo, come tentativo di ricostruire un’unità d’analisi che la frammentazione delle discipline aveva dissipata. Vi era quindi una zona, e non semplicemente dei singoli Stati, considerata capitalista, la quale conformava un sistema-mondo calato all’interno dell’economia –mondo moderna che è economia–mondo capitalista (quella che Polanyi identifica con il termine Mercato). Le caratteristiche dello studio dei sistemi –mondo sono sintetizzabili in tre punti:

  1. La divisione assiale del lavoro tra processi produttivi centrali e periferici. Nei primi i processi di produzione sono relativamente monopolizzati, mentre i secondi sono caratterizzati dal libero mercato. L’influenza di Braudel, nel distinguere tra la sfera dei monopoli e quella del libero mercato all’interno del Capitalismo, è stata cruciale.

  2. La messa in discussione della teoria illuministica dell’inevitabilità del progresso, sposata sia dal liberalismo che dal marxismo

  3. L’unificazione analitica tra le diverse scienze sociali.

Ma che cosa si intende precisamente per economia –mondo e sistema – mondo?

L’economia- mondo secondo Wallerstein è un’estesa area geografica al cui interno esiste una divisione assiale del lavoro ed un significativo scambio di prodotti. Essa non è delimitata da una struttura politica unitaria (quello che viene definito un impero-mondo), anzi al suo interno sono presenti molteplici unità politiche con diversi ruoli e potere. Come abbiamo accennato, l’economia –mondo moderna è capitalistica, poiché il sistema accorda priorità all’incessante accumulazione di capitali. Ma allo stesso tempo un sistema capitalistico non può esistere se non nel contesto di un’economia-mondo, poiché esige una relazione specifica tra produttori economici e detentori del potere politico. I capitalisti necessitano di un ampio mercato ma anche di molti Stati. Il legame tra Stati e mercato riguarda la divisione assiale del lavoro e la posizione occupata da ogni singola unità. Gli Stati centrali in un primo momento riescono a produrre in regime di semi-monopolio finché, Stati semi–periferici, non raggiungono un livello di sviluppo tale da fare concorrenza ai cosiddetti prodotti-guida. Man mano che un numero sempre maggiore di imprese entra nel mercato di quello che un tempo era un semi–monopolio, si verificherà una “crisi di sovrapproduzione”, ossia produzione in eccesso rispetto alla domanda effettiva (caratteristica tipica del sistema capitalistico in cui l’offerta precede la domanda), dunque una competizione sui prezzi ed una diminuzione dei saggi di profitto. Entrano ora in gioco i cicli di Kondratieff di espansione e stagnazione. Le risposte che il capitale offre possono essere due:

  1. investire in zone non sindacalizzate per riuscire a far risalire i profitti attraverso l’abbassamento dei costi di produzione
  2. investire in nuovi prodotti- guida.

Oltre ai cicli esistono le crisi del capitalismo. Queste sono delle situazioni che non possono essere risolte nel quadro della configurazione precedente del sistema, ma superate soltanto modificandola, andando oltre ad essa. Il sistema capitalistico non è dunque statico ma dinamico ed esso fino ad oggi è riuscito ad egemonizzare sia il “come stare nella crisi” che il “come uscire da essa”. Ciò è reso possibile dai suoi meccanismi di funzionamento, che non sono solamente quelli storicamente presi per buoni ma anche altri, che è necessario conoscere. Per questo obbiettivo Wallerstein, può insieme ad altri autori, può rappresentare un ottimo punto di riferimento.

Comments

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Francesco Zucconi
Wednesday, 04 May 2016 00:08
concordo pienamente. Mi sono avvicinato a Wallerstein tramite la lettura dei lavori di Giovanni Arrighi. Sarebbe interessante immettere il TTP e la costruzione europea in un modello teorico di sistema-mondo in crisi il cui centro e' dato da alcune aree USA, rintracciare, poi, eventuali analogie storiche in altri sistemi mondo scomparsi, e, infine, congetturare eventuali predizioni a partire dal modello.u
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