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consecutiorerum

L’immaginario neoliberale

André Tosel

Reminiscenza archeologica dellAngelus di Millet1.  Le due vie dell’immaginario neoliberale e la loro tensione

La questione dell’immaginario neoliberale si è fatta urgente: se non mancano le analisi critiche del neoliberalismo definito come teoria economica propria della fase attuale del capitalismo mondializzato, resta inesplorata la misurazione dell’efficacia di questa teoria sulle attitudini, le rappresentazioni, le pratiche delle masse dominate e sfruttate che avrebbero «interesse» al cambiamento della loro situazione e che nonostante ciò mantengono gli schemi di pensiero e i modelli di condotta prodotti da questo capitalismo e teorizzati dal neoliberalismo. La ragione è qui paralizzata da una «ragione» opposta che sa rendersi sensibile e farsi desiderare o accettare a dispetto di tutto. Il pensiero neoliberale ha investito l’immaginario e paralizzato in tal modo il pensiero critico togliendogli i mezzi di una sensibilizzazione immaginativa. È difficile far vivere l’idea che un altro mondo in questo mondo sia possibile e ancor più difficile è produrre immagini matrici di questo mondo possibile e sperato. La potenza dell’utopia sembra prosciugata e resa impossibile. In cosa consiste questa efficacia? Quali forme prende questo immaginario? Quali prospettive concrete sono aperte a una critica che ha come criterio l’aumento della potenza di pensare e d’agire di ciascuno considerato allo stesso tempo nella sua singolarità e nei rapporti che lo legano a dei «comuni»?

In ogni modo, è innanzitutto fondamentale definire la categoria di immaginario. Il concetto di immaginario può innanzitutto formularsi a partire dall’idea gramsciana della concezione del mondo. Gramsci muove dalla nozione marxiana di «forme ideologiche» che permettono agli uomini di «concepire e combattere i conflitti economici e politici». Una concezione del mondo rinvia a dei gruppi sociali organici, capaci di dirigere la produzione e di fare blocco con le specifiche forme culturali e politiche. Le concezioni organiche del mondo sono quelle che organizzano le masse convincendole, o almeno persuadendole, ad accettare certe forme di vita e certi orizzonti di significazione. Esse si articolano in «dispositivi egemonici» che uniscono lo Stato e la società civile «formando lo strato più intimo». L’immaginario si fa religione della vita quotidiana e genera un mondo di senso, un orizzonte di pratiche, sotto le quali si costituisce l’egemonia di un gruppo sociale capace dell’universalizzazione dei suoi obiettivi. Questo immaginario è dominante solo in rapporto a dei gruppi dominati che non hanno la potenza di opporvisi e di elaborare a pieno la loro concezione del mondo. Più avanti specificheremo questa nozione riferendoci alla revisione della psicanalisi di Freud compiuta da Jacques Lacan. L’immaginario allora si inscrive in un complesso relazionale di identificazione del soggetto che lo costituiscono articolandolo al Simbolico e al Reale. Noi pensiamo solamente che ogni rapporto umano implichi dei soggetti, ciascuno capace di identificarsi narcisisticamente come io (rapporto intra-soggettivo) e che questo rapporto intra-soggettivo sia strutturalmente correlato a una relazione intersoggettiva tramite cui l’io si costituisce identificandosi all’immagine del suo simile che lo cattura. Questa identificazione immaginaria implica un’illusione irriducibile che può tuttavia essere compresa solo se il soggetto si rintraccia nel riferimento a un Altro, un Terzo che è fondamentalmente strutturato come un linguaggio e che inscrive la relazione duale illusoria in una struttura che definisce un ordine sotto una Legge. L’immaginario neoliberale si manifesta allora in quanto concezione del mondo che pretende di porsi come Legge senza Legge e che richiama l’identificazione degli individui alle sue prescrizioni e alle sue norme che suppone definiscano il reale. Si nega come immaginario e vuole imporsi come dizione unica del reale storico.

 

2. Le due vie dell’immaginario neoliberale e il loro grande scarto.

La pretesa di scientificità conduce il neoliberalismo a costituirsi come razionalità che esclude qualsiasi immaginario. Il neoliberalismo si presenta come la radicalizzazione dell’illuminismo liberale, in quanto si pone il compito prioritario di ripiegare la dimensione emancipatrice di questo illuminismo sull’unico senso della libertà d’impresa. L’immaginario del neoliberalismo è quello del modello che esso si dà. È un immaginario di una razionalità supposta e fittizia, ma efficace. Questa libertà si pone come immagine unica ed esclusiva della socializzazione che opera tramite il gioco della concorrenza sul mercato delle imprese e si dà uno Stato conforme. Essa si pensa come razionalità esclusiva che resta il giudice di ogni razionalità alternativa. L’uguale libertà si definisce esclusivamente nel campo della proprietà privata imprenditoriale e nega strutturalmente ogni fondamento razionale alla fratellanza repubblicana e alla competenza democratica degli incompetenti. Essa introduce una rottura irreversibile rispetto alla libertà etico-politica del liberalismo. La volontà di dar seguito al liberalismo si fa riforma, revisione e relegazione di quest’ultimo. Niente saprebbe ostacolare, in effetti, l’istituzione permanente di questa libertà divenuta autoreferenziale, senza altro limite che la sua larga riproduzione e il suo successo. Il neoliberalismo si pone come decostruzione dei valori ancora trascendentali che si presuppone limitino e definiscano la libertà; si presenta come una volontà di anti-metafisica e soprattutto prende la direzione del movimento che caratterizza la plasticità umana. Si vuole come auto-fondazione autoreferenziale che rifiuta qualsiasi altro fondamento che se stesso, che si tratti di dio, del diritto naturale antico o anche del diritto naturale moderno, se quest’ultimo si riferisce a una volontà collettiva contrattuale regolata oppure all’istituzione della repubblica. La libertà d’impresa sarebbe un ideale razionale in corso di realizzazione.

Questo immaginario appare come quello che nasce dalla logica e dalla storia del capitale inteso come elemento autoreferenziale: non può bastare a se stesso malgrado la sua pretesa. Questo immaginario può esistere solo legandosi a un’altra logica e ad altre storie, quelle delle differenziazioni antropologiche, nazioni e Stati, religioni ed etnie, che sono sostenute da altri immaginari. In effetti, bisogna distinguere due logiche storiche del capitale che si intrecciano senza confondersi e sono necessariamente una legata all’altra, come mostrato dal sociologo indiano Dipesh Chakrabarty in Provincialiser l’Europe. La pensée politique postcoloniale et la différence historique.

La prima è una Storia e una Logica del capitale che si isola, come se il capitalismo potesse esistere allo stato puro, senza manifestazioni concrete. È la storia-logica pura, quella che il neoliberalismo pretende di inglobare e la cui teoria è di fatto l’immaginario. La seconda è la Storia e la Logica del capitale di un universale del neoliberalismo che può esistere solo concretizzato in differenziazioni antropologiche, in gruppi sociali singolari inscritti nella natura e che la modificano, nazioni, regioni, Stati, religioni, costumi, lingue. L’universale del capitale può essere considerato come un genere astratto che ricopre l’Umanità, ma che per esistere ha bisogno di essere riempito di storie specifiche, come quelle delle società occidentali e delle società non occidentali. Queste costituiscono la stessa varietà di una specie naturale; si legano tramite rapporti di interdipendenza o sono attivate da rapporti di dominazione e di cooperazione. Questa logica e questa storia pure sono sempre innanzitutto un processo di produzione tramite distruzione, come aveva compreso Marx, e dopo di lui Schumpeter, teorico del capitalismo come processo infinito della distruzione creatrice.

 

3. Il neoliberalismo come immaginario del capitale pensato allo stato puro

L’immaginario neoliberale appare allora come il mito pseudo scientifico di una illimitata libertà-desiderio di godimento, di un apeiron che ingoia ogni ordine che opponga resistenza. È il mito di un ordine che è dis-ordine e che si legittima mediante creazione di ricchezze, di poteri di consumazione, di capacità cognitive; ordine nuovo che si appaga del prezzo dello spostamento e del toglimento di tutti i limiti, siano essi morali o politici, del disprezzo di ogni ipotesi di cooperazione pacifica, di ogni uguaglianza reale, di ogni solidarietà, in breve di ogni legame comunitario e sociale, fatta eccezione di quello del mercato generalizzato e della concorrenza. Questa libertà vuole sostituire l’ordine simbolico e pretende di regolare i processi di soggettivazione individuale. Il soggetto diviene un individuo che liberamente si fa oggetto del governo di sé; questo governo è la mimesis della gestione imprenditoriale e si identifica agli imperativi di questa gestione. Il neoliberalismo si vorrebbe quindi una religione totale della vita quotidiana in un mondo ridotto a un’azienda retta dai soli imperativi che svincolano da ogni comunità e che ignorano qualsiasi ordine simbolico a vantaggio di una Legge senza Legge, quella di un ordine simbolico desimbolizzante. Esso apre le porte a un immaginario che trasforma l’uomo che è il soggetto-oggetto – che si produce in un mondo oggettivo – riducendolo allo statuto di oggetto-oggetto catturato nella macchina che mette in movimento una pluralità di oggetti-oggetti. Si impongono delle relazioni duali, distruttrici di ogni rapporto a l’Altro, al Terzo simbolico, e a fortiori di ogni rapporto a un Terzo razionale.

Un immaginario del genere fa della sua finzione un fatto efficace, una realtà. Esso supera i tre limiti storicamente imposti alla governance capitalista: limite religioso (il ricorso a un Dio di carità), limite etico e filosofico (l’imperativo categorico kantiano e il diritto naturale), limite politico (il contrattualismo sociale e i solidarismi). L’ideale dell’accumulazione e del godimento illimitato deve ormai normalizzare e distruggere ogni desiderio, ogni immagine dell’Io. Si ha qui un fantasma di potere assoluto che si fonda sulla plasticità indeterminata dell’umano di cui il neocapitalismo si è impossessato, catturandolo a suo profitto, presentandosi come la sola versione legittima del progresso, un tempo diretto dai pensieri delle forze progressiste dell’Illuminismo e dei socialismi. Queste forze sono ormai ridotte a occupare la funzione di forze conservatrici in quanto si oppongono all’espansione di questo potere assoluto per conservare ciò che sembra definire l’umano a titolo di condizione trascendentale, di ordine simbolico. Numerosi studi hanno attirato l’attenzione su questa distorsione della plasticità umana, come Jean-Claude Michéa, Dany-Robert Dufour, Bernard Stiegler, Zygmunt Bauman, Bertrand Ogilvie, nonostante il disaccordo sulla portata di tale fatto. Ogilvie sottolinea a giusto titolo la riconquista di questa plasticità compiuta dalle forze non neoliberali (cfr. Ogilvie 2012). L’immaginario neoliberale riserva l’accumulazione del capitale e del godimento a una minoranza che ha successo sul mercato e che di fatto si avvale di un’altra corrente ideologica ben nota, quella del darwinismo sociale. La possibilità di gestire la concorrenza illimitata mantiene l’ideale prometeico di dominio della natura per mezzo delle tecnologie sociali, ma implica allo stesso tempo la formalizzazione di un diritto di vivere che è concesso solo ai vincitori, mentre i vinti sono quasi abbandonati alla morte, se questa si rivela economicamente indispensabile, o alla sopravvivenza elementare, tutto ciò sul fondo di una credenza nella capacità degli individui «responsabili» a uscirne se accettano di auto-governarsi seguendo le regole del sistema.

Prende tutta la sua portata la critica marxiana del feticismo delle merci, di quello dei fattori produttivi – la terra, il lavoro, il capitale – della formula trinitaria. Questi feticismi sono inscritti in una tecnologia culturale che generalizza norme di comportamento, schemi di pensiero che progettano un mondo al di là delle imitazioni classiche del vecchio liberalismo. Gli individui sono portati a desiderare la cattura del loro desiderio d’essere e d’agire in funzione della perversione dell’illimitatezza della produzione e del consumo a beneficio di qualcuno. Essi sono ridotti ad accettare la loro impotenza e a compensarla mediante comportamenti che essi pensano possano realizzare un grado di potenza in quanto riducono ogni soggetto che inizialmente è un soggetto-oggetto allo statuto di oggetto-oggetto.

La logica del capitale promuove una anti-rivoluzione culturale che fa del mercato una istituzione totale centrata sull’ipostasi della concorrenza, della riduzione permanente della forza di lavoro a una variabile di aggiustamento. La cattura del desiderio d’essere e di pensare devia gli individui verso comportamenti detti anti-metafisici ma che si rivelano essere nichilisti, poiché di fatto negano i valori di civilizzazione considerati come acquisiti. Una città perversa prende il posto del mondo dell’essere in comune e dei beni comuni. Dany-Robert Dufour ha così potuto redigere il nuovo decalogo di questa città che è all’orizzonte della logica del capitale divenuta immaginario neoliberale. In Le divin marché, egli mostra come l’immaginario neoliberale abbia sconvolto tutte le dimensione della pratica umana, dei modi plastici di esistenza dell’umano. Tutti i rapporti trascendentali ne sono interessati e sono invitati a conformarsi al desiderio per come esso è catturato dalla logica del capitale in regime di neodarwinismo sociale generalizzabile. Così il rapporto a sé è governato da un narcisismo che diventa egoismo facendo di ciascuno un elemento gregario di un gregge obbediente al comandamento: «Ti lascerai guidare dall’egoismo», e dunque lascerai il tuo cervello disponibile a non pensare, ma sprecherai i tuoi soldi in funzione della tua identità ridotta alla tua carta di credito. Rispetto agli altri umani, il comandamento dice: «Utilizzerai l’altro come mezzo per raggiungere i tuoi fini»; e questo comandamento implica la manipolazione della sessualità. Rispetto all’Altro o terzo simbolico, il comandamento prescrive: «Potrai venerare tutti gli idoli della tua scelta purché tu adori il Dio supremo, il Mercato». Questo comandamento ha due corollari.

Da una parte, questo comandamento modifica il rapporto alla Legge poiché bisogna enunciare la seguente versione: «Violerai la Legge tutte le volte che tu non potrai farti prendere». Dall’altra esso instaura un rapporto all’Inconscio che elimina la rimozione formulando un altro comandamento: «Libererai le tua pulsioni e cercherai un godimento senza limite». Hayek con Sade in qualche modo…Ne segue che il rapporto alla politica si concentra nella subordinazione irreversibile di una società civile negata nella sua struttura di classi e ridotta alla ricerca della produzione-distruzione e del consumo-consumazione. Lo Stato è un mezzo di regolazione che contribuisce a eliminare ogni logica dell’istituzione del comune. «Esalterai il buon governo e combatterai ogni governo».

Si possono considerare unilaterali queste analisi. Esse possiedono al loro limite delle tendenze in corso che non hanno finito di dispiegare la loro potenza terrificante di barbarizzazione. Ci basterà evocare il legame straordinariamente potente stabilito tra neoliberalismo e pornografia, già studiato da Dany-Robert Dufour in La cité perverse e analizzato indipendentemente da Chris Hedges in L’empire del l’ilusion. La mort de la culture et le triomphe du spectacle. Il capitolo 2 «L’illusione della sessualità», è a suo modo edificante. Egli scopre che 40 milioni di Americani visitano regolarmente il cyberspazio pornografico e i suoi 4,2 milioni di siti pornografici, che in tal modo arricchiscono numerose aziende che formano un’industria fiorente. Questi visitatori e voyeurs possono godere, masturbandosi, di spettacoli che uniscono crudeltà, tortura e pratiche sessuali violente liberamente consentite dalle vittime che ne fanno il loro mestiere. Così il programma intitolato 65-Guy Cream Pie, disponibile su Internet, consiste in questo: 65 partners dispongono di una solo donna praticando sesso orale, penetrazioni vaginali e anali, doppie penetrazioni vaginali e anali. Operazioni dolorose vaginali e anali le costringono a drogarsi per sopportare lo choc. Hedges conclude giustamente: «La pornografia è degenerata in un amalgama esplicita di sesso e di brutalità fisica nei confronti delle donne; una violenza estrema e atti tanto degradanti quanto orribili danno tono a un erotismo sempre più perverso. La pornografia ha sempre avuto come fondamento l’erotizzazione di un potere maschile illimitato, ma, ai giorni nostri, essa lo esprime tramite violenza, se non tramite tortura. Essa riflette la crudeltà endemica di una società che resta indifferente al massacro di certi civili innocenti a Gaza, in Iraq e Afghanistan compiuto dagli Stati Uniti e dai loro alleati, di una società che getta per strada persone colpita da malattia mentale, che conta più di due milioni di detenuti, che rifiuta di fornire cure mediche a decine di milioni di poveri, che valorizza le armi condannando il loro controllo e che esalta un ultranazionalismo infetto cantando le lodi del capitalismo selvaggio. La violenza, la crudeltà e la depravazione messe in scena da questa pornografia sono espressione di una società che ha perduto ogni senso d’empatia» (Hedges 2012, 98-99).

Ma bisogna andare oltre questi modelli d’esistenza estremi dell’immaginario neoliberale. Occorre soprattutto analizzare le ragioni della loro efficacia secondo la logica pura del capitale, della libertà del desiderio di fare tutto ciò che è possibile. Come sottolinea Bertrand Ogilvie, nel suo bel libro La seconde nature du politique. Essais d’anthropologie negative, l’efficacia neoliberale poggia su una straordinaria inversione dei ruoli tra quelli che si dicono progressisti di sinistra e quelli che si dicono conservatori di destra. Infatti, sono quelli che si dicono conservatori che prendono tutte le iniziative, che attualizzano senza riserva la libertà umana e sperimentano la plasticità antropologica della natura umana. L’essere umano è per natura sempre incompleto, preso nell’auto-trasformazione, in quanto è nato senza disporre di un fondo istintuale non modificabile; egli è definito da questa neotenia che lo caratterizza rispetto alle altre specie animali. Ma i «progressisti» non dirigono questo processo. Sono rimpiazzati da quelli che essi chiamano a torto e anacronisticamente conservatori. Il neocapitalismo ha sfruttato a proprio vantaggio la trasformazione delle specie, che è egemonizzata dalle forze dirigenti neoliberali. Queste forze sono a loro modo il partito del movimento e della contro-rivoluzione permanente fondata in parte sull’innovazione tecnologica. I progressisti sono costretti a resistere in nome della decenza ordinaria. Questa corrente si ispira ai luddisti inglesi che distruggevano le macchine divoratrici di operai e ha come referente moderno la teoria della «decenza ordinaria» dello scrittore George Orwell. Jean-Claude Michéa ne è il maggiore rappresentante. Questa posizione ha le sue ragioni, ma su di essa grava la tentazione di immobilizzare la plasticità umana e fissarla una volta per tutte.

Non si tratta tanto di bloccare, di fermare questa plasticità a una vecchia figura, ma di riprenderne il controllo e di riorientarla tenendo conto di tutto ciò che non riguarda l’utile per come esso è inteso dal neoliberalismo. Si tratta di conservare e di promuovere in tal modo ciò che si è acquisito come utile all’uomo e che bisogna patrimonializzare. Questa azione diviene urgente se negata nella sua necessità, come mostra il legame neoliberale stabilito tra libertà-desiderio, sessualità, pornografia, mercificazione, violenza strumentale contro le donne divenute oggetti-oggetti. Filosoficamente, questa cattura della plasticità umana al fine di fare «liberamente» qualsiasi cosa impedisce di articolare la storicità con la dialettica dell’uguale libertà. Questa cattura porta alla liquidazione di qualsivoglia finalità immanente della persona umana, della sua dignità, e alla critica radicale di ogni questione dell’emancipazione fondata sulla conoscenza dell’alienazione del soggetto che è irreversibilmente privato dei suoi oggetti o ridotto a essi. È questo immaginario che prende il posto del reale e definisce il reale come fantasma. Il soddisfacimento del desiderio senza Legge si compie nella produzione del consumo di massa. Essa ha il limite nella solvibilità dei soggetti e le crisi strutturali rivelano il carattere implacabile di questa condizione. Il soggetto è ridotto a l’impasse del desiderio insolvibile di consumare il desiderio di consumare. Il rifiuto di questa condizione allora implicherebbe la volontà di farsi soggetto che si impegna nella sua insurrezione, si risolleva, fa alla fine ritorno riflessivamente a se e si rivolta. Tuttavia l’immaginario liberale rende difficile questa riflessività. Riconoscendo al soggetto la libertà, lo porta a farsi responsabile dei suoi fallimenti, della sua incapacità di essere solvibile e gli ordina di accettare la sua pena come legittima. Questa pena è il rinvio del soggetto nel non-essere sociale ed esistenziale. Se l’operazione di soggettivazione dell’insolvibilità del soggetto operata da lui stesso fallisce e se il soggetto accetta la sanzione come modo «normale» dell’individuazione, qualsiasi rivolta è resa inutile. Il soggetto resta assoggettato e si soggettiva come tale.

L’immaginario neoliberale ha infine la caratteristica teorica di rifiutare ogni progetto fondato sulla richiesta di essere in comune, dato che per lui la socialità è solo quella della connessione disconnettente della concorrenza. Questa lo conduce a vivere un’esperienza di pietrificazione dell’immaginazione. La violenza di questo rifiuto prodotto costituisce come «irrappresentabile» tutto ciò che non può essere esperito in prima persona. Proprio come la richiesta di dignità non poteva essere né ascoltata né emessa nella pornografia che sovradetermina la sessualità, il soggetto indebitato e privato delle condizioni d’esistenza non può più conoscere causalmente la situazione che subisce. È come pietrificato davanti l’impensabile. Il neoliberalismo come produzione di una finzione desiderante neutralizza le menti; le istupidisce e impedisce al desiderio di farsi desiderio di sapere veramente, di sapere le condizioni di un’esistenza che non è la semplice vita secondo il desiderio solvibile di consumare il desiderio di consumare. È precluso il desiderio di verità nei confronti del sé, degli altri, del mondo. Il soggetto non può riferirsi a nessun Terzo razionale, dato che solo questa referenza apre alla questione del pensiero: «Quale mondo sono portato ad abitare con gli altri se tutti gli altri sono o dei concorrenti o degli oggetti di un godimento senza freni?», «A quali condizione l’Altro è mio eguale?», «Quale “noi” possiamo formare, in quanto si tratta di noi tutti?». O ancora: «Se dovessi subire il destino di colui che occupa il posto del soggetto di desiderio infinito e insolvibile o del soggetto inutile e “usa e getta”, accetterei a mia volta ciò che egli accetta, avendo sentito che queste posizioni sono dei risultati storici trasformabili e non assegnamenti a residenza eterna?». Non ponendosi queste questioni il soggetto neoliberale perde la capacità di prendere in considerazione il vero. Peggio ancora, il soggetto del desiderio si pone come soggetto del desiderio di non sapere niente; non vuole sapere niente. Egli accette con stupore ciò che gli accade.

Gli individui sono disappropriati della capacità di appropriarsi di uno spazio comune di singolarizzazione. Essi sono in definitiva disappropriati della politica, dell’attività collettiva che ha per oggetto l’istituzione della società come tale. A essi è impedito di immaginare. La forza di questo immaginario senza immaginazione è di limitare l’impatto delle critiche che lo riguardano riducendole a delle denunce che pur giustificate che siano sono ridotte a resistenza senza prospettiva, senza presa. La decostruzione è separata da qualsiasi operazione di ricostruzione che implichi l’esercizio di una produzione di immaginario alternativo. L’immaginario neoliberale sterilizza l’esercizio di un altro immaginario, l’attuazione di un altro processo psichico e collettivo. L’immaginario neoliberale riposa su un assioma di chiusura che si vuole realista e che è una finzione che rende incapaci. Esso si riassume nella formula di Margareth Thatcher: TINA [NdT: There Is No Alternative], «Non c’è nessuna alternativa». L’immaginario espropria la produzione di un immaginario alternativo poiché ciò che dovrebbe costituire questo immaginario alternativo è una somma di rifiuti, di resistenze. Ciò che può accadere a TINA è una X, ancora sconosciuta, inimmaginabile.

 

4. L’immaginario neoliberale e l’integrazione-tensione delle differenze antropologiche

Non abbiamo fatto che la metà del lavoro: l’immaginario neoliberale non può declinarsi solamente secondo la storia del capitalismo “puro” e delle sue logiche. Questa storia e questa logica sono tuttora influenzate dalle condizioni concrete della loro realizzazione storica, le quali sono sempre singolari. Il neoliberalismo come teoria della governamentalità rinvia a un universale astratto che si può ridurre al disegno più alto del complesso manageriale e del debito (sui quali ritorneremo in fine). Questo si compie necessariamente nell’esame delle configurazioni singolari dove si formano, sopraggiungono, anzi scompaiono, gli attori collettivi, i quali sono essi stessi costituiti di attori individuali: nazioni, stati, classi diverse e gruppi, comunità religiose, linguistiche, etnie, centri e periferie dell’economia-mondo. È solo quando l’universale astratto del neoliberalismo come concezione del mondo di un capitalismo supposto puro è compreso come investito nelle circostanze particolari che esso diviene concreto e rivela delle contraddizioni che non possono risolversi a causa della successione delle crisi che si rinviano l’una all’altra, senza soluzione finale. Occorre quindi introdurre la differenziazione antropologica e analizzare la dizione dell’immaginario neoliberale quando esso è messo a confronto con la realtà delle nazioni e delle loro strutture sociali, etniche, religiose, con quella delle associazioni nazionalitarie o regionali discriminate, delle comunità religiose stesse quando queste sovraimpongono un universalismo proprio all’universalismo neoliberale.

Innanzitutto, la logica neoliberale – centrata sull’impresa e il suo management, sullo Stato liberale e sui suoi mercati – non può evitare di lasciarsi influenzare da una differenza antropologica in seno al processo di lavoro, nella misura in cui i lavoratori sono definiti da due coppie di determinazioni, una rinviante al genere, e l’altra alla filiazione generazionale. I lavoratori chiamati a farsi manager di loro stessi, tutti formalmente equivalenti, ma ineguali per le loro proprietà e le loro posizioni, sono differenziati in uomini e donne, in adulti e giovani. L’immaginario neoliberale è obbligato ad affermare contemporaneamente l’universalità dell’homo economicus, che implica l’uguaglianza degli uomini e delle donne come ugualmente manager di loro stessi, e la legittimità delle ineguaglianze sottese a queste differenziazioni. È portato a completarsi ricorrendo a ricordi passati e alle appartenenze sociali della forza lavoro. Ciò può condurlo a delle alleanze contraddittorie con le ideologie conservatrici più tradizionali, come quelle della Chiesa in nome della famiglia. Contraddittorie, perché la concezione neoliberale della libertà scommette sulla plasticità infinita dell’umano e questa non si lascia rinchiudere in rappresentazioni limitanti. Essa stessa è aperta alle trasformazioni del modo biopolitico dell’essere umano, come dimostrano l’ingegneria genetica e il suo divenire produttore.

Si opera un ritorno dei termini differenziatori all’interno del pensiero del flusso neoliberale e delle tecnologie sociali. Intervengono inevitabili riferimenti alle appartenenze comunitarie di cui lo Stato-nazione costituisce ancora la più pregnante, sebbene lo Stato neoliberale si riproduca producendo una de-nazionalizzazione pericolosa, sebbene questa si possa legittimare come critica del nazionalismo. Se il management delle imprese sui mercati industriali e finanziari ha per orizzonte un’indipendenza transnazionale eccedente la sfera dello Stato-nazione, resta il fatto che la sfera statale, anche se destabilizzata e trasformata, è necessaria alla costituzione e alla protezione dei mercati e del finanziamento di impresa, foss’anche trasnsnazionale. Infatti, l’economia-mondo capitalista esiste sotto forma della gerarchia degli Stati-nazione che contano sul piano geopolitico e che sono candidati all’egemonia. L’immaginario neoliberale fortifica il suo universalismo, che si vorrebbe cosmopolitico, con un nazionalismo particolarista fondato sul riconoscimento della differenziazione antropologica che costituisce la differenza nazionale. Ciò che è presunto essere un limite e un ostacolo da eliminare è determinato simultaneamente come mezzo e condizione di realizzazione. Questa politica è contraddittoria, poiché lo Stato rende difficile il mantenimento della nazione, mentre conserva il monopolio del nazionalismo. Gli Stati-nazione che contano sono quelli che dispongono di imprese internazionali dotate di un ancoraggio nazionale. I soggetti dell’auto-management si determinano, certamente, come aventi scelto liberamente di lasciarsi porre come oggetti-oggetti, ma essi sono contemporaneamente posti come cittadini e connazionali di uno Stato-nazione che può essere candidato all’egemonia. La contraddizione fra nazionalismo e particolarismo si risolve nella misura in cui l’universale trova storicamente un rappresentante particolare, un agente dell’universale storico. Questo neoliberalismo reinveste allora l’immaginario nazionalista del popolo eletto e della nazione eletta per consentire il Progresso, la Civilizzazione, l’Umanità. Si ha così un nazional-neoliberalismo che si dice secondo una una pluralità di accenti. Viene sacrificato ciò che Gramsci chiamava un modo di vita «nazional-popolare», un patriottismo non esclusivo, antinazionalista e internazionalista, non cosmopolita.

Questa logica di integrazione apparentemente contraddittoria si estende in tre direzioni: verso l’alto, nel senso di un riferimento a delle totalità più comprensive, verso il basso, in direzione di comunità più ridotte, e lateralmente, o trasversalmente, in riferimento a delle comunità transnazionali a loro modo universali.

  1. Il primo caso è quello in cui i soggetti si identificano come dei cittadini di diritto e rifiutano gli stranieri giudicati indesiderabili e concorrenti; questi si comportano allora come una maggioranza potenzialmente predatoria nei confronti di minoranze straniere immaginate come minacciose. Da qui si spiega l’ascesa, nei diversi Stati-nazione europei, di un razzismo nazionalista compatibile con il neoliberalismo o a questo associato.
  2. Il secondo caso è rappresentato dalla presenza di alcuni di questi stranieri non cittadini che esprimono rivendicazioni nazionalitarie in seno a una nazione già costituita e invitata a riformarsi. Da qui le comunità straniere, magrebine o nere, che chiedono non solo i diritti di cittadinanza, ma anche il riconoscimento di un diritto differente da quello in vigore. È questo il caso delle varie comunità diverse in Inghilterra.
  3. Il terzo caso è la rivendicazione dei cittadini nazionali che desiderano rompere il legame nazionale e cercano di fondare sullo stesso territorio un’altra associazione politica su basi regionali ed etniche e mirano a ottenere riconoscimento, autonomia culturale e persino politica. Questa situazione si è presentata nella gloriosa Europa dirittumanista e liberale dell’inizio del 1989 con la guerra civile dei Balcani che ha prodotto lo smembramento nazionalitario della Yugoslavia, il cui statuto era tuttavia quello di una pacifica confederazione effettiva. Rientrano in questo scenario le lotte autonomiste regionali in Belgio (Fiandre), Italia (Padania), Spagna (paesi baschi, Catalogna) che non rimettono in discussione l’immaginario neoliberale sul piano dell’organizzazione economica e politica.

Così questa integrazione a mezzo di tensioni e di conflitti identitari, lungi dal designare ostacoli provenienti da un passato antico, pre-moderno e pre-liberale, appare come una condizione necessaria dell’immagine neoliberale. L’incapacità prima di questo immaginario di concepire qualcosa di emancipatore fuori dai quadri pseudoscientifici della finzione virtuale e la sterilizzazione che esso ingenera in qualsiasi altro immaginario trovano una compensazione nello sviluppo di immaginari provenienti dalle diverse differenziazioni antropologiche. Questa integrazione perturba la pretesa teleologica del neoliberalismo a porsi come filosofia della storia vittoriosa. Queste differenze non sono da concepire come elementi che impongono un ritardo, secondo la tesi dello sviluppo ineguale. L’integrazione necessaria smentisce la pretesa dell’immaginario all’autoreferenza e introduce una pluralità di storie singolari che non si lasciano flettere sotto una logica e una storia «pure». Anche se introducono dei rischi mortali per l’intero progetto emancipatore con il risorgere dei conflitti identitari sostenuti dai nazionalismi, dai razzismi e dagli etnicismi, queste storie singolari liberano delle potenzialità trasformatrici, criticando qualsiasi universalismo astratto o imperiale, e sfidano il cosmopolitismo ponendogli la questione del suo divenire universale concreto.

 

5. Il rovesciamento e l’immaginario della catastrofe: il debito e la sua soggettivazione

Questa perturbazione operata dalle storie degli individui e delle comunità di vita, di lavoro e di fede offre, in effetti, un’occasione per abbandonare lo sbalordimento e lo stupore provocato dall’immaginario neoliberale (e il suo perpetuo TINA). Questa offre al pensiero un’occasione unica perché possa ricomporsi ed esplorare le nuove vie che le lotte indicano. Queste vie non possono più essere quelle della resistenza, così necessaria nell’immediato, così vana nel lungo termine. Allora, nell’ambito di queste differenziazioni antropologiche, si deve aver cura di distinguere quelle che non possono che sfociare in violenze improduttive, compatibili con la riproduzione dell’immaginario neoliberale, e quelle che ne permettono una critica unendo il concetto e un nuovo immaginario internazionalista e nazional-popolare.

Una prospettiva possibilmente si sta aprendo ed è quella costituita dall’apparizione di una nuova figura del capitalismo che obbliga a pensare il management neoliberale come produzione di una economia contraddittoria del debito e dalla forma di soggettivazione dell’uomo indebitato, intollerabile per tutti gli individui coinvolti. La crisi strutturale del debito apre una crisi di civiltà e dei possibili storici al contempo. A questo riguardo Maurizio Lazzarato ha scritto un notevole studio al quale noi rinviamo, La fabrique de l’homme endetté. Essai sur la condition néolibérale (2011). Egli mostra che l’universale antropologico del neoliberalismo ha modificato il modello dell’imprenditore di se stesso, il manager di sé, facendone potenzialmente l’uomo indebitato. Il capitalismo ha reso impossibile la distinzione tra capitalismo industriale e capitalismo finanziario. Le differenze antropologiche sono rivestite di questa figura, che a loro volta complicano e surdeterminano. poiché una donna senza lavoro, araba o africana, musulmana, povera, è altrimenti sottomessa all’indebitamento, al supporre chi gli presti i soldi, piuttosto che una donna dirigente, bianca, francese e (ancora) proprietaria di un piccolo patrimonio. Ma si verifica davvero un’universalizzazione della figura dell’indebitamento, che può essere la condizione di una lotta e di una contestazione unificatrice di quelli che sono definiti da questi diversi giochi di differenze antropologiche. «Indebitati di tutti i paesi, di tutte le razze, di tutte le religioni, unitevi!» Il capitalismo gestisce, in effetti, ai livelli mondiale e locale le popolazioni e le economie nazionali attraverso il debito i cui beneficiari sono le banche, gli apparati politici che lo consacrano e lo garantiscono e il branco di ideologi ufficiali che ne sono i cantori (giornalisti, economisti universitari e saggisti prezzolati). Il rapporto sociale capitalista non è più fondato solamente sullo scambio ineguale dei partners, né sul solo sfruttamento dei lavoratori e sul loro annullamento sociale per la disoccupazione. È con forza sostenuto da una nuova cesura che oppone il creditore e il debitore. Il debito instaura un rapporto di   dominio strutturale entro questi due poli della società, un differenziale di potenza. Dal debito privato al consumo divenuto spesso insolvibile (i mutui subprime del mercato immobiliare), dal debito pubblico degli Stati creditori e debitori sui mercati finanziari, dal debito sociale necessario per far funzionare ciò che resta dei servizi pubblici e sociale di fronte alla privatizzazione, il debito è diventato l’arma del blocco costituito dalle banche private, le banche centrali, gli Stati, le imprese e il sistema politico dominante. Esso finisce apparentemente di ridurre alla passività impaurita le masse di sedicenti manager individuali che hanno liberamente fallito assumendo dei rischi che devono responsabilmente e colpevolmente pagare.

Il neocapitalismo neoliberale è un capitalismo del debito che ha una funzione altrettanto ben oggettiva quanto soggettiva. Sul piano oggettivo, i mercati e i loro attori (banche, agenzie di rating, investitori, compagnie di assicurazione, in accordo con lo Stato neoliberale) condizionano le politiche di deflazione sociale, di riduzione, di privatizzazione dei servizi pubblici e sociali, di drastiche amputazioni dei salari e delle pensioni, le delocalizzazioni delle imprese. Essi esercitano un potere dittatoriale, totalitario, e creano rapporti differenziali fondati sull’opposizione tra creditore e debitore. Il dramma che vive la Grecia è una catastrofe che funge da modello e da laboratorio imponendo un ricatto ai popoli, terrorizzandoli e rendendoli insolventi fino alla morte (sociale o fisica). Come dice Lazzarato, ispirandosi ai lavori di André Orléan e di Michel Aglietta (cfr. Aglietta e Orléan 2002), la «governance» neoliberale passa non tanto attraverso il management universale quanto piuttosto per la fabbricazione del debito universale e per la produzione volontaria di disgrazia dei «deboli». Finanza e produzione non sono più disaccoppiate come fanno credere gli ideologi del neoliberalismo attraverso la costituzione di un sogno bugiardo di un ritorno virtuoso a un capitalismo industriale disgiunto dal capitalismo finanziario. «Queste esprimono una relazione di potere tra creditori e debitori» la quale è «il cuore strategico delle politiche neoliberali» (Lazzarato 2011, 24-27). Il debito è diventato il fondamento del sociale neoliberale.

Questo fondamento è anche soggettivo. Il credito o il debito e la relazione tra creditore e debitore costituiscono un rapporto di potere in sé, uno dei più importanti e universali del capitalismo contemporaneo. «Essi costituiscono un rapporto di potere specifico che implica le modalità specifiche di produzione e di controllo della soggettività (una forma particolare di homo aeconomicus, “l’uomo indebitato”). La relazione del creditore con il debitore si sovrappone alle relazioni del capitale con il lavoro, dello Stato con gli utenti depoliticizzati, dell’impresa con il consumatore e le attraversa costituendo gli utenti, i lavoratori e i consumatori in “debitori”» (Lazzarato 2011, 27).

Questo rapporto è singolare: trasforma il manager di sé che fallisce in consumatore insolvente e quest’ultimo in debitore. Il soggetto libero del desiderio illimitato di consumare il desiderio di consumare incontra un limite alla sua richiesta di libertà infinita. Esso è paradossalmente affiancato dagli imperativi dell’etica tradizionale da cui poteva credersi esente. Esso ha, in effetti, sottoscritto liberamente un prestito; ha impegnato sul piano etico quanto gli restava in termini di responsabilità e fiducia. Ha accettato di restituire, di rifondere. Esso scopre che la sua indifferenza etica, che gli faceva immaginarsi d’esser manager di sé nella megamacchina economica, è stata eticamente compromessa dalla promessa di restituire sulla base della fiducia che la megamacchina gli accorda. Esso riconosce ciò che credeva di aver congiurato nella sua hybris di manager, la coscienza della colpa. È ormai invitato ad assumersi la colpa dell’insolvenza, a prestare obbedienza ai dispositivi sociali di controllo che esigono che paghi. Deve accettare qualsiasi lavoro anche dequalificato, deve acconsentire ad essere controllato e sanzionato nella sua ricerca di lavoro, pena l’essere considerato dagli organismi sociali come «profittatore», «disoccupato professionale», in breve, colpevole di esistere come «uomo indebitato per propria colpa». Una moralizzazione imprevista e perversa viene a integrare l’immaginario neoliberale che faceva della libertà d’impresa e d’accumulazione un imperativo al di sopra di qualsiasi legge morale. Il debito e la colpa sono gli ingredienti ultimi dell’immaginario neoliberale. La catastrofe della soggettività e del mondo sociale è, allora, all’ordine del giorno. A meno che il soggetto non si ribelli e rivendichi di non vivere più nella colpevolezza e onori il solo debito umanizzante: quello di esistere.


Traduzione da Tosel, A. 2014, Essais pour une culture du futur, Broissieux: Éditions du Croquant, pp.  53-74, a cura di Giacomo Rughetti e Miriam Aiello.

Bibliografia
Aglietta, M., Orléan, A. (2002), La Monnaie: entre violence et confiance, Paris : Odile Jacob.
Chakrabarty, D. (2009), Provincialiser l’Europe. La pensée politique postcoloniale et la différence historique, Paris: Éditions Amsterdam.
Dufour, D.R. (2007), Le divin marché. La révolution culturelle libérale, Paris: Danoёl.
Dufour, D.R. (2009), La cité perverse. Libéralisme et pornographie, Paris: Danoёl.
Hedges, C. (2012), L’empire de l’ilusion. La mort de la culture et le triomphe du spectacle, Montréal: Lux Éditeur.
Lazzarato, M. (2012), La fabrique de l’homme endetté. Essai sur la condition néolibérale, Paris: Éditions Amsterdam.
Losurdo, D. (2007), Le péché originel du XXe siècle, Bruxelles: Éditions Aden.
Ogilvie, B. (2012), La seconde nature du politique. Essais d’anthropologie negative, Paris: L’Harmattan.
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