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manifesto

Il brevetto del nuovo capitale

«Appunti per cercare le ragioni a sinistra

Marcello Cini

Nuovo modo di produrre e nuovo ruolo della scienza, In un mondo messo a rischio nella sua esistenza materiale e nella sua ragione morale. Un contributo alla discussione per non rassegnarsi al declino, tra deriva moderata e resistenza testimoniale

Condivido tuttora, nonostante l'attuale diaspora della sinistra, la domanda che Claudio Fava aveva posto a Chianciano con chiarezza: «Abbiamo paura di impegnarci nella costruzione di una sinistra che sappia finalmente elaborare le culture del comunismo e del socialismo per proporne una sintesi originale? Qualcuno di noi è così miope da vivere questa sfida culturale e politica, che forse prenderà il tempo e lo spazio di una generazione, come un tradimento ai sacri luoghi delle nostre identità? O pensiamo davvero che tra dieci o vent'anni ci saranno ancora, in questo paese, una sinistra cosiddetta 'socialdemocratica' e una sinistra cosiddetta 'comunista', ciascuna gelosa custode delle proprie liturgie e della propria storia? Un nuovo soggetto politico di sinistra non soffocato dall'ornamento dei propri aggettivi è solo una favola ce ci raccontiamo o è realmente una sfida che ci mette tutti (tutti!) in discussione?». Penso ancora che il dibattito su come iniziare a costruire gli strumenti che possono contrastare l'offensiva travolgente che il capitalismo del XXI˚ secolo sta portando avanti contro i popoli della Terra dovrebbe avere la priorità.

Temo invece che l'obiettivo della ricostruzione di una sinistra senza aggettivi non sia ancora percepito nella sua urgenza. Certo non si potrà affrontarlo finché ognuno intende presentarsi all'appuntamento con la pretesa di usare la propria cassetta di attrezzi ereditata dal bisnonno. Proverò in questo testo- diviso in due parti - a elencare alcune differenze, secondo me essenziali, tra il capitalismo del XX˚ e quello del XXI˚ secolo sulle quali bisognerebbe costruire questo discorso comune.

Profitto «intangibile»

La prima differenza investe il modo di produzione della ricchezza. Essa è rappresentata dalla tendenza, suffragata da fatti sotto gli occhi di tutti, a fondare sempre più la formazione del profitto nel processo di accumulazione del capitale sulla produzione di merci non tangibili (non solo conoscenza, informazione, saperi, formazione, ma anche comunicazione, intrattenimento e addirittura modelli di vita). Non voglio dire che la produzione di merci materiali sia diventata inessenziale o quantitativamente secondaria, ma insisto che la produzione delle merci necessarie al soddisfacimento dei bisogni crescenti della popolazione umana è sempre più impregnata in ogni suo interstizio e resa concretamente possibile da una sempre maggiore e indispensabile componente non tangibile di conoscenza. L'obiettivo principale del capitalismo odierno è dunque di negare la differenza sostanziale tra la natura dei beni materiali e quella dei beni immateriali, nascondendo la proprietà fondamentale di questi ultimi che, contrariamente a ciò che accade per i beni materiali, è quella di poter essere goduti da parte di un «consumatore» lasciando intatta la possibilità che innumerevoli altri facciano altrettanto. Il «consumatore» dunque in realtà non «consuma» il bene di cui fruisce che può continuare a essere a disposizione di tutti. La differenza non investe soltanto la fase del «consumo», ma anche quella della produzione. Mentre per l'operaio della fabbrica di merci materiali (nelle sue fasi successive dal fordismo al toyotismo) la categoria marxiana di lavoro astratto, misurabile quantitativamente, rappresentava tutto sommato la sostanza del rapporto capitale lavoro (e comunque stava alla base dell'analisi di Sraffa sulla «produzione di merci a mezzo di merci»), per il lavoratore della fabbrica delle parole (folgorante a questo proposito il film di Virzì sulla vita degli operatori dei call-center che vale più di tanti corposi saggi) la categoria della qualità caratterizza inevitabilmente il lavoro di ogni individuo. La differenza é sostanziale. Nel primo caso gli operai si sentivano oggettivamente e soggettivamente uguali, e dunque solidali tra loro. Si contrapponevano al capitale attraverso sindacati e partiti di classe. Nel secondo ogni lavoratore compete con gli altri con tutti i mezzi per sopravvivere. L'individualismo e la solitudine sono la regola. Questo spiega tante cose: in primo luogo la vittoria di Berlusconi. Il discorso andrebbe approfondito, e io non sono in grado di farlo: mi stupisce però che chi dovrebbe saperne più di me non lo faccia.

La Terra al collasso

La seconda differenza fondamentale è la scoperta dei limiti fisici dell'ecosistema terrestre. Sono rimaste inascoltate, e addirittura accusate di terrorismo intellettuale, fino a due o tre anni fa le grida d'allarme (che risalgono agli anni 70) dei primi ambientalisti, intesi a richiamare l'attenzione dell'opinione pubblica mondiale sui sintomi dell'incipiente degrado che avrebbe investito il pianeta, nonostante che esse siano state via via rafforzate per trent'anni da fatti incontrovertibili e da analisi rigorose. Soltanto da un paio d'anni gli scienziati dell'IPCC (l'organismo delle Nazioni Unite per lo studio del cambiamento climatico) sono arrivari alla conclusione - ormai finalmente condivisa dalla maggior parte della comunità scientifica internazionale e fatta propria anche dai maggiori esponenti politici della Comunità Europea - che interventi concreti massicci e urgenti sono necessari per contrastare l'aumento dell'effetto serra e della temperatura globale del pianeta e impedire le sue conseguenze devastanti. Conseguenze del resto previste e quantificate nel notissimo rapporto redatto dal principale consulente economico di Tony Blair, Nicholas Stern, nel quale si prevede che, se si continua a non intraprendere alcuna azione significativa per ridurre l'emissione di CO2 nell'atmosfera, i danni del riscaldamento globale potranno arrivare nel giro di dieci, al massimo venti anni, a un tasso annuo tra il 5% e il 20% del Pil globale. Una cifra da confrontare con una spesa attorno all'uno per cento in misure preventive da iniziare subito. Non insisterei su questo argomento che è ormai ben noto, se non fosse per l'incomprensione da parte della tradizione comunista di questo processo, incomprensione che costituisce purtroppo una pesante palla al piede della sinistra.

La scienza «a servizio»

La terza differenza riguarda la scienza. Nell'immaginario collettivo la scienza ha assunto un peso enorme, carico da un lato di aspettative, e dall'altro di paure. Per capirne l'origine occorre rendersi conto che anch'essa ha subito un profondo mutamento. Esso consiste nel suo passaggio dal modello galileiano e newtoniano di conoscenza delle proprietà e della struttura della materia inerte, fondato sulla ricerca delle leggi generali e immutabili della natura che ne sarebbero la causa prima, al modello di conoscenza delle proprietà della materia vivente e della mente umana fondato sul riconoscimento dell'unicità di ogni processo nel quadro dei principi dell'evoluzione darwiniana e dell'autorganizzazione dei sistemi complessi. Non c'è più dunque una scala gerarchica di attività separate e distinte che vede al vertice una scienza «pura» come scoperta disinteressata e autonoma delle leggi generali della natura, dalla quale nasce una tecnologia che ne applica i risultati per creare oggetti destinati a fini utili, e a sua volta li consegna all'economia perché investa le risorse necessarie a immetterli nel modo più efficiente e profittevole sul mercato. Queste tre fasi si intrecciano strettamente tra loro. Molti scienziati seri e disinteressati, impegnati in un lavoro di ricerca «di base», che non si pone l'obiettivo immediato di ottenere risultati da immettere sul mercato, negano che questa svolta sia così radicale e sostanziale, e auspicano comunque che la barriera tra scienza e tecnologia venga ripristinata e rafforzata. Secondo me si tratta di una illusoria aspirazione a tornare ai bei tempi passati, che ignora il carattere irreversibile della trasformazione che ha investito il tessuto sociale negli ultimi due o tre decenni. Una trasformazione che non solo deriva dalla differenza epistemologica tra la scienza delle leggi e le scienze dei processi alla quale ho appena accennato, ma che ha anche una causa precisa: la deliberazione della Corte suprema degli Stati uniti del 1980 sulla brevettabilità degli organismi geneticamente modificati. Da quel momento in poi si brevetta tutto: qualsiasi pezzo di materia vivente e qualunque idea venga partorita da una mente umana.

«Lecito» e «illecito»

Oltre alla differenza sul piano epistemologico che abbiamo appena discusso, si è prodotta con il passaggio dalle scienze della materia inerte a quelle della vita e della mente una differenza radicale sul piano dell'etica professionale degli scienziati, e più in generale dell'etica pubblica. Una cosa è infatti manipolare, controllare, forgiare un oggetto fatto di materia inerte e altra cosa è compiere le stesse operazioni su un organismo vivente o addirittura sull'uomo. Lo sgretolamento della barriera tra fatti e valori sta accendendo un conflitto per l'egemonia nella società fra chi ritiene che soltanto perseguendo un crescente dominio razionale sui fatti e sulle relazioni che li connettono sia possibile affrontare i problemi della vita umana e della convivenza sociale e chi pretende di essere depositario e amministratore di valori assoluti di origine trascendente in grado di regolamentare ogni aspetto dei comportamenti umani. Ma la scoperta che inevitabilmente la scienza si trova ad avere a che fare con giudizi di valore porta la religione ad appropriarsi del diritto di decidere in merito con la scusa che la religione ha il monopolio della morale. Sappiamo tutti che questa è la pretesa del papa Benedetto XVI. E' una intrusione indebita, come hanno ampiamente dimostrato pensatori come Jurgen Habermas, Hans Jonas, e giuristi come Gustavo Zagrebelski. Deve essere tuttavia ben chiaro che la battaglia per l'autonomia della scienza contro l'ingerenza dei dogmi religiosi non può essere condotta in nome di una astratta scienza galileiana che ignora l'intreccio tra conoscenza e valori che caratterizza oggi le scienze della vita e della mente. Se si pretende che in tre secoli la scienza non sia cambiata si perde in partenza. Se invece si riconosce che l'intreccio fra conoscenza e valori è nelle cose, diventa legittimo, anzi necessario, rifiutarsi di «ritagliarne» i temi, come si dice oggi, «eticamente sensibili» per cederne la competenza a un unico soggetto esterno, per di più autoritario per natura, come il capo della Chiesa cattolica. La formazione del consenso sul lecito e l'illecito deve invece coinvolgere, nelle forme da costruire insieme, una molteplicità di soggetti, aperti al dialogo e al confronto reciproco, portatori di tradizioni culturali, istanze sociali, esperienze del passato e progetti per il futuro in grado di presentare punti di vista diversi diffusi, ma ignorati dai meccanismi di decisione attualmente adottati senza discussione, con affrettata arroganza e incoscienza dai detentori dei poteri e degli interessi più forti.

 

Breve storia del futuro

In sostanza il capitalismo del XXI secolo si sta dimostrando incapace di far fronte alle emergenze che si profilano all'orizzonte in tempi brevi rispetto alla durata della vita umana. Incapacità che rispecchia l'intreccio di tutte le questioni cruciali dei prossimi vent'anni l'alimentazione, l'energia, il clima, la pace e la guerra, le migrazioni - e rappresenta il segnale che il sistema economico del capitale globale sta correndo senza controllo verso il baratro. Di questo baratro parla un libro recente di Jacques Attali intitolato Breve storia del futuro . Senza entrare in dettagli accenno soltanto che l'autore vede prossima la crisi alla quale va incontro l'attuale impero americano. Il cammino percorso nel secondo dopoguerra verso l'estensione del mercato e della democrazia rischia dunque di arrivare al suo termine nel giro di due o tre decenni. «L'acqua e l'energia si faranno più scarse, il clima verrà posto in pericolo le disuguaglianze e le frustrazioni si aggraveranno, i conflitti si moltiplicheranno, si innescheranno grandi movimenti di popolazione». Il mondo diverrà provvisoriamente policentrico, un «iperimpero», controllato da una striminzita decina di potenze regionali". Infine, tuttavia «a meno che l'umanità non scompaia prima sotto un diluvio di bombe, né l'impero americano, né le fasi successive di instabilità e di conflitti saranno più tollerabili». E prosegue: «Istituzioni, mondiali e continentali, organizzeranno allora grazie alle nuove tecnologie, la vita collettiva. Porranno dei limiti all'artefatto commerciale alla modificazione della vita e alla valorizzazione della natura, favoriranno la gratuità, la responsabilità, l'accesso al sapere. Renderanno possibile la nascita di una intelligenza universale , mettendo in comunicazione le capacità creatrici di tutti gli esseri umani, per superarle. Si svilupperà una nuova economia, detta relazionale producendo servizi senza cercare di trarre profitti, in concorrenza con il mercato».

I forti sui deboli

Non intendo qui discutere i tempi e i modi di questi scenari, che ovviamente posssono essere messi in discussione e contestati, nel metodo e nel merito. Il valore di queste prefigurazioni, tuttavia, proprio perché non si tratta di previsioni certe e di scadenze fissate, sta infatti nella possibilità di fare qualcosa perché se ne evitino gli scenari più catastrofici e se ne anticipino quelli «a lieto fine». Emerge infatti in modo chiaro che i primi sono frutto della concezione dell'uomo e della società caratteristica della cultura della destra, mentre la realizzazione degli scenari «a lieto fine» richiederebbe la diffusione e l'affermazione nella società di valori antitetici La concezione oggi dominante è infatti fondata da un lato sulla teorizzazione del dominio dei forti sui deboli, sulla diffidenza di ognuno verso gli altri e sulla divisione della società tra vincenti e perdenti, con la conseguente competizione sfrenata tra gli individui per entrare a far parte dei primi calpestando i secondi. Dall'altro è fondata sull'idolatria del Pil come unica misura del benessere e della ricchezza, sull'ossessiva coazione al consumo di beni sempre più sofisticati e inquinanti, con la marginalizzazione, fino alla eliminazione fisica, della massa dei non consumatori, e sull'illusione della sostituibilità delle relazioni emotive e affettive fra esseri umani con l'acquisto di merci che ne dovrebbero svolgere le stesse funzioni. E' una concezione, infine, fondata sulla determinazione dei potenti a imporre questi «valori» con qualunque mezzo, incluse le armi più letali, a tutto il genere umano.

Senza Progetto

La sconfitta della cultura della destra richiederebbe invece l'affermazione dei valori che hanno caratterizzato gli ideali del socialismo e del comunismo. Non nascondiamoci però che nè l'una nè l'altra di queste forme di organizzazione sociale sarebbero oggi in grado di fornire strumenti validi per affrontare i problemi del capitalismo del XXI secolo. Riconoscere la vetustà degli strumenti pratici e teorici di queste tradizioni non è dunque una forma di opportunismo, ma un giudizio realistico di inadeguatezza rispetto al fine di contrastare l'avverarsi degli scenari peggiori previsti da Attali, (e non solo da lui). Qualcuno spera tuttavia che gli strati popolari colpiti dal peggioramento delle proprie condizioni di vita, dall'emarginazione sociale ed economica e dalla perdita di fiducia nelle possibilità di un futuro migliore per sé e per i propri figli, troveranno autonomamente gli strumenti, i mezzi e le energie umane per contrapporre al disegno del capitale forme di autoorganizzazione di ispirazione socialista. La storia ci insegna tuttavia che, senza la presenza attiva di una sinistra portatrice di un progetto credibile e di valori egemoni tra gli strati popolari della società, la disperazione senza speranza conduce a destra. E nemmeno le catastrofi, piccole o grandi, alle quali il mondo andrà incontro se continua così, porteranno a correzioni automatiche della politica economica nella direzione giusta. Ce lo ha spiegato Naomi Klein nel suo libro Shock Economy , nel quale documenta come proprio le catastrofi naturali siano un'occasione per il capitale di spazzar via gli ostacoli alla sua corsa, eliminando socialmente e addirittura fisicamente, i poveri e i diseredati. «Siamo finalmente riusciti - ha dichiarato per esempio un parlamentare repubblicano dopo l'uragano Katrina - a ripulire il sistema delle case popolari a New Orleans. Non sapevamo come fare, ma Dio l'ha fatto per noi». La strada è dunque tutta in salita. Ma non si parte da zero. La situazione di oggi potrebbe essere simile a quella che ha portato alla fine dell'Ottocento alla nascita delle prime organizzazioni degli operai e dei braccianti: società di mutuo soccorso, cooperative, banche popolari, e successivamente anche sindacati e partiti. Ci sono oggi pratiche, esperienze, forme organizzative già presenti nelle pieghe del tessuto sociale ma oggi minoritarie, che coinvolgono milioni di uomini e donne di buona volontà in tutto il mondo, e potrebbero diventare dominanti in un futuro non lontano. Per esempio lo sviluppo di relazioni mutuamente vantaggiose tra individui ma non dirette alla realizzazione di profitto; la pratica di forme di lavoro in cooperazione finalizzate al raggiungimento di obiettivi comuni; la formazione del consenso sulle decisioni che comportano vantaggi e svantaggi tra soggetti diversi; la composizione dei conflitti tra portatori di interessi differenti; la gestione di beni comuni nell'interesse degli appartenenti a una stessa collettività.

Ritorno al futuro

O ancora si potrebbe imparare a estendere anche ad altri settori della produzione di beni non tangibili lo scontro che ormai da due o tre decenni contrappone nelle tecnologie dell'informatica da un lato i sostenitori delle pratiche dell 'open source e del free software e dall'all'altro Bill Gates e la sua filosofia del software proprietario. In sostanza occorre reintrodurre nel processo di produzione della ricchezza la classe dei «beni comuni», scomparsa o quasi dall'economia da quando il capitale ha cominciato nell'Inghilterra del '600 a recintare (enclosures) le terre comunali per appropriarsene. Anche in questo caso, tuttavia, bisogna non cadere nella trappola dell'ottimismo tecnologico che porta ad attribuire alla rivoluzione digitale, con le strutture reticolari alla quali ha dato origine e le possibilità di connessione istantanea tra gli individui che ha assicurato, la capacità intrinseca di instaurare forme più estese e capillari di democrazia partecipata. In particolare Carlo Formenti, in Cybersoviet , mette in guardia la sinistra dall'abbracciare l'illusione che la «democratizzazione dei consumi», celebrata dai profeti del Web 2.0 preluda a una «presa del potere» da parte dei produttori/consumatori. E' più facile che essa conduca «all'espropriazione capitalistica dell'intelligenza collettiva generata dalla cooperazione spontanea e gratuita di milioni di donne e uomini». Più ottimista si mostra tuttavia Mariella Berra che, nel suo bel libro Sociologia delle reti telematiche prospetta la possibilità che «il dono e la cooperazione possano idealmente porsi come il presupposto naturale per la crescita di una nuova economia che utilizzi Internet e più in generale il sistema socio-tecnico delle reti come luogo di diffusione e di scambio. Nella rete - prosegue - il soggetto non solo agisce come un attore razionale che massimizza le sue utilità individuali, ma, grazie alle estese e reversibili relazioni di scambio a cui partecipa, si trova a cooperare nella produzione di beni pubblici». E ancora, ad esempio, esiste secondo Giorgio Ruffolo (che riporta i risultati degli studi degli economisti del Centro Hypermedia dell'Università di Westminister), la possibilità che l'esplosione del Web possa «aprire nuove prospettive a una economia della reciprocità, libera dai vincoli sia del mercato che dello Stato». In alternativa alla privatizzazione di ogni bit prodotto, e alla conseguente necessità di assicurarne il diritto di proprietà moltiplicando polizie e tribunali, lo Stato potrebbe «assumere il compito di fornire l'infrastruttura della rete Internet, non più finanziata dalla pubblicità... attraverso tasse che la collettività decide democraticamente per massimizzare il bene pubblico dell'informazione». In tal caso, prosegue, «la libera circolazione dell'informazione fornita dalla rete, anziché costituire un danno per i fornitori privati soddisfa pienamente lo scopo del fornitore pubblico. Si apre un nuovo spazio dove allo scambio valorizzato (informazione contro pubblicità), subentrano prestazioni reciproche gratuite». Su questo principio si potrebbe addirittura sviluppare un nuovo tipo di economia basata sulla cosiddetta impresa open source. Ma chi se non la sinistra, può proporsi di percorrere questa strada?

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