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sinistra

Il personale, il politico e il capitale

di Marco Maurizi

Perché essere ecologista, femminista, queer, antirazzista, antispecista ecc. non fa di te un anticapitalista

trasferimento 11. Amici, ancora uno sforzo se volete essere anticapitalisti

Intendo scontare con un lavoro quanto più possibile analitico e mirato la pretenziosità del titolo di questo intervento, in cui, prometto al lettore, cercherò di tenermi lontano dal tipo di slogan che affliggono così spesso i testi di filosofia politica radicale, tanto più quanto essi si elevano a considerazioni di ordine generale.

Sono assolutamente convinto che costruire una prospettiva socialista che sia in grado di raccogliere e rilanciare il frutto di esperienze di lotta diverse come il femminismo, l’ecologia, la teoria queer o l’antispecismo sia un’ottima cosa. Tuttavia, il tema della cosiddetta “convergenza delle lotte” mi pare circoli da tempo sufficiente per poter cominciare a dire che non abbia prodotto risultati esaltanti, né da un punto di vista teorico, né pratico.

In quanto segue proverò a dare una spiegazione del perché concentrandomi su quelli che mi sembrano essere i tre vizi principali dei movimenti anticapitalisti. Anzitutto, essi non sono affatto “anticapitalisti” o, se lo sono, lo sono in modo molto generico e confuso. In secondo luogo, il tema della “convergenza delle lotte” segue un modello, altrettanto discutibile, che passa sotto il titolo di “intersezionalismo”.

Infine, trovo problematiche molte pratiche di resistenza “comunitarie” che circolano nell’ambito della sinistra radicale, degli ambienti anarchici e libertari.

L’anti-capitalismo, come vedremo, è il cuore del problema cui si legano gli altri due. Come aggettivo non indica infatti nulla di determinato e si presta ad ogni abuso teorico. Non solo e non tanto per la sua radice negativa (anti-) che lascerebbe aperto l’orizzonte sociale che si vorrebbe riempire di contenuto ma proprio per la costitutiva incapacità di definire in termini chiari e univoci l’orizzonte che si intende negare, ovvero quel “capitalismo” che non si sa più bene cosa significhi. Al di fuori della teorizzazione marxiana (che, come vedremo, è invece cogente perché molto ristretta1), il capitalismo denunciato da tanta parte della sinistra e dei movimenti è un confuso riferimento a pratiche di “mercificazione”, di “reificazione”, di invadenza corruttrice del “denaro” e delle “banche” ecc. È poi un curioso giano bifronte: qualcosa che funziona con la meccanica precisione di un “sistema” di cui però si denuncia la violenza riconducendola spesso alla “volontà” prevaricatrice di individui e gruppi di potere. È del tutto evidente che una denuncia di questo tipo potrebbe benissimo essere condivisa dalla cultura reazionaria e addirittura fascista.

Lo stesso dicasi per l’idea di condivisione di pratiche comunitarie, sia che esse vengano ripescate da una tradizione che si vorrebbe preservare dall’influenza disgregatrice del capitale, sia che vengano sponsorizzate da spazi urbani “liberati”, luoghi di emancipazione creativa all’interno di un sistema non-libero. La critica destrorsa al “mondialismo” e il recupero delle tradizioni di popoli in lotta contro la modernità “borghese”, infatti, precede l’emergere dei movimenti no global. Questa convergenza pone questioni teoriche e politiche che non possono essere superate con un’alzata di spalle. Ciò viene detto ovviamente non per accusare di connivenza con la reazione i coraggiosi esperimenti di liberazione degli spazi sociali o di emancipazione anti-coloniale dei popoli oppressi. Che il senso di queste lotte sia, soggettivamente e moralmente, opposto e inconciliabile con il fascismo è del tutto evidente. Che lo sia anche oggettivamente e teoricamente, che cioè i concetti con cui tali pratiche pensano se stesse e la propria opposizione al capitale siano invece fondamentalmente inconciliabili con la reazione è un altro paio di maniche. Purtroppo, come vedremo, non lo sono affatto.

L’intersezionalismo, infine, è un concetto probabilmente irricevibile dalla destra reazionaria ed è quello che ha ricevuto la maggiore attenzione accademica, tanto da essere una specie di pilastro indiscusso della mentalità “progressista” contemporanea. Proprio perciò, probabilmente, è quello più pericoloso da un punto di vista teorico, l’architrave di un’ideologia che ha due difetti principali: tende a sublimare i rapporti di potere in pratiche discorsive, traducendo tutte le forme di oppressione in forme di discriminazione; tende a immaginare che esista una struttura soggiacente alle forme di oppressione che assume la forma fantasmatica del “potere” o del “dominio”.

In tutti e tre i casi, come vedremo, il problema è che l’oggetto specifico della lotta contro il capitale diventa impensabile e quella stessa lotta illusoria.

 

2. Alla fiera delle identità antagoniste

L’idea di scrivere questo articolo nasce da una constatazione che devo a Michele Dal Lago a proposito della mia analisi del movimento antispecista sviluppata in Al di là della natura2. In particolare, Dal Lago criticava la mia tendenza a considerare tipiche o esclusive dell’animalismo e del veganismo3, caratteristiche fisiologiche di buona parte della sinistra “movimentista”. A posteriori penso che abbia ragione. Per dimostrarlo proviamo a partire dalla mia analisi critica del movimento animalista - che, come ho potuto constatare, è solitamente condivisa dagli attivisti che si definiscono “anticapitalisti” - e vedremo come essa, nei suoi tratti essenziali, sia uno specchio in cui altri movimenti di lotta potranno loro malgrado contemplarsi.

Chi difende i diritti animali (semplici “animalisti”, più spesso “vegani”, talvolta “antispecisti”) non suscita solitamente molta simpatia negli ambienti antagonisti. E, occorre dire, a ragione. Di fronte allo sfruttamento della maggior parte della popolazione mondiale da parte di una manciata di famiglie miliardarie, di fronte ad un potere economico che condiziona le istituzioni di interi paesi mentre distrugge ecosistemi a ritmo esponenziale, alla violenza poliziesca e alle bombe, trovi sempre l’animalista pronto a dire che il problema non è il capitalismo ma “L’uomo” che si considera “superiore” agli animali e che la soluzione non è smantellare quel potere, bensì diventare tutti “vegan” o, al limite, “estinguersi”e liberare la natura dalla nostra ingombrante presenza.

Perché accade tutto questo? Nella mia ricostruzione riconosco i seguenti deficit teorici degli animalisti: essi tendono (1) a considerare la violenza sugli animali l’esito di un pregiudizio antropocentrico nei loro confronti; conseguentemente, dal punto di vista pratico, non riescono a proporre altro che (2) un’azione di convincimento morale dei singoli individui, in particolar modo attraverso la diffusione del vegetarismo/veganismo, nella speranza di raggiungere un giorno una massa critica in grado di cambiare la società (sia come individui che come membri di esperimenti comunitari in spazi “liberati”). I punti critici di questa concezione sono evidenti e molteplici. Anzitutto, si considera il pregiudizio morale la causa della schiavitù animale. A ciò ho contrapposto l’ipotesi, forse più plausibile, secondo cui non sfruttiamo gli animali perché li consideriamo inferiori, quanto piuttosto li consideriamo inferiori proprio perché li sfruttiamo. Dunque il problema vero non è solo cambiare il modo in cui pensiamo gli animali, ma come li trattiamo. L’aumento esponenziale dell’uccisione di animali negli ultimi due secoli non è né dovuto all’aumento della popolazione, né ad un’intensificazione del pregiudizio nei confronti degli animali (semmai è vero il contrario: mai come oggi si è disposti a considerare moralmente degni di considerazione gli animali non-umani), bensì a qualcosa che probabilmente ha a che fare con il capitalismo. Purtroppo è tipico dell’animalismo ignorare la complessità e contraddittorietà della struttura sociale e limitarsi a colpevolizzare gli individui umani per effetti distruttivi su scala planetaria che andrebbero invece analizzati a partire dalle strutture produttive. Ma per comprendere questo e agire di conseguenza è necessario andare oltre la pretesa di convincere il vicino di casa a diventare vegan e iniziare ad interrogarmi su ciò che ha prodotto quella crescita esponenziale nell’industria della morte animale. Purtroppo, anche laddove gli antispecisti riconoscono a parole l’esistenza di strutture sociali che condizionano l’agire individuale non ne traggono le dovute conseguenze. Si limitano a dire che è colpa del capitalismo ma anche dell’Uomo, che il cambiamento deve avvenire a livello strutturale ma anche individuale. Salvo poi non fare nulla per agire rispetto al primo corno del problema e riproporre costantemente la stucchevole ricetta del go vegan! e del cambiare “stile di vita”.

Osservando l’attivismo vegan mi sono reso conto subito di come esso sia in fondo caratterizzato da un certo moralismo identitario: esso infatti ritiene che “cambiare il mondo” significhi colonizzare gradualmente il resto della società a partire da un centro di “illuminati”, puri e coerenti. Questa colonizzazione del resto della società può avvenire per vie giuridiche (le grandi associazioni che cercano di far approvare i “diritti animali”), in modo illegale (l’ALF e i gruppi di azione diretta che liberano animali dai luoghi di detenzione), in modo culturale (le piccole associazioni che fanno campagne per il veganismo e per una cultura del rispetto). È interessante notare però che in nessun caso viene messa in discussione o attaccata la struttura della proprietà capitalistica, né il modello economico sottostante (quando ipotizza un modello economico l’antispecismo trapassa generalmente nella decrescita o nel primitivismo). Ma ciò è anche comprensibile: poiché la base di queste azioni è la convinzione morale e quest’ultima ammette solo due opzioni (morale/immorale, buono/cattivo, sì/no) ne deriva automaticamente che l’azione non potrà mai articolarsi in atti separati nel tempo e nello spazio, nè tantomeno permettere una qualche unione di intenti tra chi è dentro il gruppo dei “puri” e chi è fuori. In alcuni casi, basandosi sullo sciagurato motto “gli umani si comportano con gli animali come i nazisti con gli ebrei”, si arriva inevitabilmente a immaginare la necessità di una “guerra civile” per difendere gli animali vittime delle industrie e quindi dei consumatori. Ecco che allora ogni azione politica che proponesse una forma di mediazione istituzionale, politica, economica, ogni strategia di lungo periodo per porre fine allo sfruttamento degli animali (ad es. alleandosi con le forze che vogliono porre fine allo sfruttamento capitalistico della natura) è resa impraticabile perché significherebbe distogliere lo sguardo dalla sofferenza degli animali e stringere le mani “sporche di sangue” di membri di altri movimenti di contestazione dell’esistente4.

All’inizio ero convinto che il moralismo identitario fosse un’esclusiva particolarmente odiosa dell’animalismo, ma sbagliavo. Un anarchico che cita, approvandola, questa poesia di Eluard esprime la stessa concezione: “D’accordo il regno dei borghesi io lo odio / Il regno dei questurini e dei preti / Ma odio anche di più / Chi come me non li odia /Con tutte le forze”. Di più: aver discusso in questi anni di pratiche di liberazione e lotta al capitalismo con diverse realtà della galassia antagonista mi ha piuttosto convinto che la posizione del vegano etico non è la peggiore che si possa riscontrare oggi. Paradossalmente, il vegano etico individualista che si concentra sul versante del consumo privato è meno lontano dalla realtà dei rapporti di dominio di quanto lo sia chi ritiene di essere un passo avanti in direzione dei processi di liberazione perché fa parte di una “comunità”, peggio ancora se di una comunità che vede in qualche “tradizione” un valore da opporre alla modernità capitalistica (in genere, invece, la maggioranza dei vegani non ha problemi a criticare la tradizione e gli usi precapitalistici). Ma per comprendere bene questo punto è necessario andare con ordine e superare alcuni luoghi comuni che rendono oggi difficile affrontare queste tematiche senza cadere in sterili contrapposizioni tra slogan ormai consolidati.

Dal Lago ha ragione nel sottolineare che ciò che ho qui criticato dell’animalismo può essere considerato un retaggio ideologico di buona parte della sinistra, almeno a partire dagli anni ‘60. Le variegate e confuse micro-identità politiche che caratterizzano il panorama della sinistra di movimento possono certo trovare forme precarie di convergenza politica, magari proprio inseguendo quell’ideale di “intersezionalità” che va oggi per la maggiore. Ma altrettanto facilmente torneranno a dividersi e contrapporsi, poiché i rispettivi progetti politici si fondano sul volontarismo, il moralismo e la pretesa di imporre al mondo una visione fondata su valori particolari. Essi praticano la politica come un riflesso del proprio privato. Il vegano, da questo punto di vista, non ha l’esclusiva della purezza morale. Il consumatore critico lo accuserà di rifornirsi dalla grande distribuzione che foraggia gli interessi delle multinazionali. Il decrescente che si dedica all’autoproduzione li accuserà entrambi di non mettere sufficientemente in questione l’ideale sviluppista. Il primitivista, dal canto suo, li accuserà tutti di fare ancora troppo affidamento alla tecnologia che è la vera radice di ogni alienazione. Quest’ultima affermazione provocherà il risentimento di chi lotta contro la discriminazione della malattia mentale. La femminista osserverà che tutti questi problemi, dal modello sociale ed economico alla tecnologia, non vengono adeguatamente compresi se non sono messi in rapporto con l’imporsi del patriarcato. Finché qualche teorica queer non le farà notare che anche il patriarcato è un falso problema, perché dovremmo occuparci piuttosto del “dispositivo binario” che istituisce i due generi eteronormativi. Ma a questo punto rientra in scena il vegano che osserverà come il “dispositivo binario” si fonda in realtà sull’opposizione uomo-animale e così il ciclo di accuse reciproche può ricominciare spostandosi di piano. Una sorta di Fiera dell’est dagli esiti fin troppo prevedibili.

Ovviamente la cosa qui è messa in forma di burla - benché io abbia nel corso degli anni più volte assistito a “discussioni” di questo tipo5 - e va anzitutto notato che in molti attivisti queste singole identità possono convivere secondo aggregazioni diverse (possiamo incontrare l’antirazzista primitivista, il vegano queer, la femminista decrescente ecc.). Ma la logica fondamentale non cambia perché dalla somma di diversi moralismi identitari e di pratiche di contestazione che pretendono all’immediatezza e alla purezza non può nascere una visione politica plurale, un’articolazione strategica dell’azione di massa. E questo perché l’intersezionalismo che pure è alla base di molte di queste identità militanti, non offre una base teorica adeguata alla discussione. Esso è più parte del problema che una soluzione. Certo non è la causa dello stato confusionale del fronte anticapitalista. Ma è sicuramente un sintomo. Così come lo sono il vago concetto di “anticapitalismo” che dovrebbe colorare in senso radicale queste identità, nonché le pratiche “comunitarie” che cercano di far uscire quelle testimonianze individuali dal solipsismo per condividerle in spazi di aggregazione liberati. In alcuni gruppi che si definiscono “anticapitalisti” si finisce così per contestare tutta la società attuale tranne il capitale, nel senso che se ne contestano le forme esteriori (dalla “cementificazione” alla “consumismo”) ma se ne ignora l’essenza. D’altro canto, molte comunità “resistenti”, finiscono spesso per essere realtà chiuse su se stesse, autoreferenziali, gerarchicamente orientate, quando non sono vere e proprie encalvi di privilegio in cui è possibile sognare una diversità che lascia intatti i mali del mondo.

Occorre infatti sottolineare che il tipo di incomprensioni interne alla sinistra radicale che abbiamo denunciato non sono affatto da addebitare a mancanze dei singoli, né alla cattiva volontà dei gruppi, i quali sono anzi spesso animati dalle migliori intenzioni circa la necessità di costruire un percorso di lotta unitario. Il fatto è che il problema, come si è detto, non è affatto pratico, bensì teorico. E su tale piano va anzitutto individuato, analizzato e risolto.

 

3. Chi ha paura dell’alienazione?

Ritengo che alla base di tali concezioni ci sia una teoria sociologica implicita, tanto più pericolosa in quanto non consapevole. Si tratta del cosiddetto “individualismo metodologico”6 che porta a considerare, erroneamente, la realtà sociale come un semplice aggregato di individui e le forme sociali come puri e semplici irrigidimenti storicamente sedimentati dell’azione di questi singoli7. La vita viene qui intesa come un flusso incessante, una realtà dinamica e imprendibile, una sorgente pura e incontaminata, “naturale”, originaria che la storia e la società non farebbero che “irrigidire” e che si tratterebbe invece di preservare da ogni schema, da ogni chiusura, da ogni blocco “esterno”. In base a questa concezione gli individui sarebbero portatori di ciò che è “vitale” e dinamico, mentre le istituzioni sarebbero “mortifere” e statiche; gli individui sarebbero portatori di libertà, le istituzioni sociali controllerebbero e disciplinerebbero questa libertà ecc. ecc.

Viene così ignorata la genesi specificamente sociale di tutti quei fenomeni che, lungi dal lasciarsi spiegare in termini di reificazione delle prassi individuali, sono invece il presupposto dell’azione stessa (dal linguaggio alle norme culturali, dalle dinamiche di classe ai riti religiosi). C’è un fondamentale vitalismo, un immediatismo di principio, una predilezione per l’intensità dell’attimo e del qui e ora che ha in spregio ogni forma di oggettivazione della vita, ogni forma di mediazione, ogni costruzione di senso che oltrepassi la mera forma puntuale del sentire. Così nel termine “reificazione” c’è tutto lo spregio dell’idealismo per le forme di irrigidimento dello spirito, una costante da Fichte a Simmel. E, come osservava acutamente Adorno, nel disprezzo della parola “alienazione” si nasconde in realtà il disprezzo per l’alterità che risuona in quella parola (alienum in alienazione, Fremd in Entfremdung)8. La paura che il soggetto possa “perdersi” in ciò che non gli appartiene integralmente, lungi dall’essere una garanzia contro le istituzioni totali, rappresenta la quintessenza della soggettività identitaria, chiusa e paranoide che quelle istituzioni ha prodotto. Solo laddove si pensa il soggetto come costitutivamente non-proprio, aperto all’alterità, estroflesso, è possibile pensare una modalità di rapporto diverso con l’alterità: ma questa possibilità si gioca in direzione esattamente opposta a quella che pretende che il soggetto si costituisca in una pura autonomia e poi si relazioni con ciò che gli è esterno, di modo che ogni forma di oggettivazione del suo vissuto risulti inevitabilmente in una perdita di sé, in uno svilimento della sua autenticità, in una sottrazione di senso interno. In realtà, non esiste alcun Sé al di fuori di questa mediazione con l’esterno, il Sé è originariamente colonizzato dall’esterno e proprio questo è la garanzia della sua possibilità di relazionarsi con un’alterità che da sempre lo attraversa. Il fatto che la relazione di gruppo, di classe, sociale, perfino istituzionale sia parte del Sé, momento ineliminabile del suo costituirsi, è la garanzia che l’identitarismo non ha l’ultima parola. A partire dal linguaggio, la parola stessa con cui esprimiamo la nostra più irriducibile intimità ci è data dall’esterno. Come osserva Hegel: il linguaggio ha il potere di tradurre ogni cosa sul piano dell’universale, non lascia sussistere nulla di assolutamente singolare9. E proprio questa è la garanzia che le singolarità possano incontrarsi realmente, invece di chiudersi come monadi senza finestre, fluttuando nell’atomizzazione cui li condannerebbe un’essenza liscia, senza cicatrici, senza appigli, incapaci di relazionarsi con l’altro che - non avendole mai attraversate - è condannato a rimanere un’ulteriorità, qualcosa di trascendente. Il quantum di reale che c’è nell’incontro con l’altro si trova nei meccanismi di oggettivazione del Sé che il pensiero dell’immediatezza è incapace di pensare, poiché gli sembrano inevitabilmente dei momenti di depotenziamento di un’interiorità piena, integrale, vera: mentre invece il Sé è tanto più reale quanto più fitta è quella trama di relazioni che a diversi livelli lo strutturano e gli danno possibilità di esprimere il proprio vissuto. Non solo questo vissuto può essere effettivamente con-diviso (cioè diviso-con-altri) solo se è già da sempre diviso in se stesso, ma non si costituirebbe mai nemmeno per il soggetto se non potesse essere da questi esperito nella forma dell’oggettivazione (il vivente che si fa vissuto). Il comune è appunto il medium di questa condivisione, di questa dialettica tra il proprio e l’estraneo, tra l’intimo e il pubblico o, se si vuole, tra il personale e il politico.

 

4. La sconfitta politica della sinistra di classe

Uno degli slogan più abusati e che, tra l’altro, ha cambiato completamente funzione dall’epoca della sua formulazione originaria è “il personale è politico”. Ciò che un tempo indicava la necessità di politicizzare la sfera della vita intima, mostrarne la natura intrinsecamente sociale ed economica, scoperchiare il vaso di Pandora dell’interiorità familiare e borghese per mostrare i mille fili che legano l’esistenza individuale ai meccanismi di riproduzione del potere, esprime oggi l’esatto contrario da un punto di vista teorico e pratico. Da un punto di vista teorico, perché, come diremo, pensare la sfera privata come luogo di sedimentazione dei meccanismi di potere ha portato ad una privatizzazione delle categorie del politico: oggi è il potere, la società, l’economia che vengono investite e “decostruite” a partire da categorie sorte dalla sfera sessuale, personale e familiare. Da un punto di vista pratico, perché l’azione collettiva volta all’espropriazione del potere politico, economico e sociale dalle mani delle classi dominanti è stata progressivamente sostituita da una strategia diffusa di protesta che fa della testimonianza individuale il proprio centro (o, al massimo, della testimonianza di uno stile di vita condiviso da gruppi ristretti). Non c’è più alcuna tensione dialettica tra il personale e il politico. Se prima il politico fagocitava il personale, alla supposta “alienazione” del militante nelle strutture impersonali del Partito si è oggi sostituita la caleidoscopica frammentazione dell’azione politica nei mille rivoli di un attivismo il cui perimetro non esce quasi più da ciò che i singoli attivisti fanno nella propria quotidianità, affermando la propria identità, testimoniando le proprie convinzioni soggettive, i propri valori. Il personale ha fagocitato il politico.

Questa metamorfosi dello slogan “il personale è politico” si porta dietro tutta una serie di altri slogan che segnano oggi i confini del politicamente pensabile. Essi insistono sull’illusoria ma, purtroppo, ben radicata distinzione tra l’azione “dal basso” e quella “dall’alto”, tra l’“individuo” e le “strutture”, tra la necessità di cambiare il mondo “qui e ora” e l’utopia di chi aspetta “il giorno della rivoluzione”. Impossibile oggi affrontare argomenti di natura politica che non ricadano su questi concetti mal posti che, inevitabilmente, costringono in un circolo vizioso senza uscita ogni discussione. Vorrebbero segnalare una profonda capacità critica, ma invece sono il portato di una debolezza di analisi. Oltre che di un'impasse pratica che certo non può essere sottovalutata. Non si può infatti ignorare quanto le lotte di contestazione dell’attuale sistema sociale e politico si muovano oggi nell’orizzonte ristretto originatosi da una duplice sconfitta, politica e teorica.

La sconfitta politica data, al più tardi, dalla fine degli anni ‘70, attraverso l’epoca del “riflusso”, e si consolida nel ‘89 con il progressivo crollo del “socialismo reale”. La misura della sconfitta in termini politici può essere determinata rispetto a quello che un tempo si chiamava il problema dell’organizzazione. Tale espressione non indicava il semplice tentativo burocratico di disciplinare la militanza: era invece la precondizione perché il fronte del lavoro salariato potesse contrapporsi compatto all’azione politica, economica e sociale del capitale e soprattutto affrontarlo allo stesso livello su cui esso agisce. Che è, come vedremo, il livello dell’universale, livello in cui si opera la sintesi delle esperienze individuali e delle sensibilità soggettive, in cui si dà corso ad un’azione che è trans-invididuale perché si oggettiva in qualcosa che non è riducibile all’azione e alla volontà di nessuno dei singoli che hanno partecipato alla sua formazione. La sconfitta politica della classe lavoratrice ha invece portato ad una radicale inversione di quella concezione. Dall’epoca in cui il problema dell’organizzazione era sentito come vitale e decisivo non solo dai grandi partiti che rappresentavano il lavoro salariato, ma anche dalla sinistra extra-parlamentare, si giunse ad una situazione di smobilitazione generale su entrambi i fronti della lotta al capitale. Partiti sempre più “liquidi” ed esangui, privi di radicamento sul territorio, che progressivamente si trasformano in macchine di consenso elettorale. Gruppi politici extra-parlamentari che sempre più scelgono la strada della militanza diffusa, dell’aggregazione estemporanea e volontaristica, con uno scarto sempre più ridotto tra ciò che si è in quanto individui, e ciò che si fa in quanto attori politici, arrivando addirittura a fare della disorganizzazione un valore e una forma di lotta.

 

5. La sconfitta teorica della sinistra di classe: riduzionismo culturalista e false narrazioni

A ciò si aggiunge infatti una sconfitta teorica che, seppure probabilmente precede in parte quella politica, è diventata rovinosa man mano che quest’ultima erodeva il terreno culturale e sottraeva progressivamente al fronte degli oppressi il linguaggio politico, i termini e i concetti indispensabili a formulare chiaramente il contesto, le strategie e gli obiettivi della loro lotta. La contraddizione capitale/lavoro che una volta era considerata centrale e ineludibile viene così progressivamente affiancata e poi oscurata da altre “contraddizioni”, formulate per altro in termini non oggettivi, ma soggettivi, secondo la moda accademica del culturalismo angloamericano. Si intende qui l’ambito dei cultural studies che hanno egemonizzato gli studi umanistici traducendo le dinamiche di oppressione in pratiche discorsive che discriminano soggettività diverse dal “bianco eterosessuale benestante occidentale”. Il sistema di potere, quindi, viene sempre più interpretato come un coacervo di meccanismi di oppressione di molteplici identità (razza, genere, preferenza sessuale, specie ecc.) che aspirano al “riconoscimento” e intendono porre fine alla propria “discriminazione” all’interno di uno spazio di dibattito pubblico. I cultural studies sono diventati la lingua franca della sinistra liberal americana, sempre più attenta alla political correctness nel linguaggio e nei media e sempre meno vigile nei confronti dell’invadenza del capitale nelle vite delle classi subalterne. La “terza via” dei Clinton e dei Blair ha infine abbracciato integralmente l’idea che la politica “progressista” avesse più a che fare con il riconoscimento di diritti formali dei soggetti “discriminati” che con la redistribuzione della ricchezza.

Che questa duplice sconfitta dovesse inevitabilmente portare ad una situazione di grave crisi politica e teorica della militanza anticapitalista era a posteriori prevedibile e non avrebbe senso ergersi a comodi giudici di ciò che è stato. Diverso è invece l’atteggiamento che ritengo occorra avere con la narrazione falsata che si accompagna a quelle sconfitte e che ancora egemonizza ampi settori della militanza, e sia pure facendo perno su un comprensibile meccanismo difensivo.

La sconfitta storica della sinistra tradizionale e delle sue forme storiche di organizzazione ha infatti coinciso con l’emergere di un capitalismo sempre più intrusivo nelle vite degli individui e delle comunità, con il progressivo smantellamento del welfare e con una politica sempre più spettacolarizzata e post-ideologizzata. In tutto questo, le forze antagoniste che negli anni ‘60 e ‘70 hanno criticato fortemente le organizzazioni e gli obiettivi tradizionali della sinistra istituzionale, non hanno offerto alcuna resistenza, spostando sempre più in alto l’obiettivo della loro critica e distogliendo sempre più lo sguardo dai luoghi del conflitto classico tra capitale e lavoro alla ricerca di nuove forme di conflittualità. Attaccare “il sistema” frontalmente e globalmente mentre ci si limita a coltivare la propria diversità “nel piccolo” sono due facce della stesso errore. Questa “radicalizzazione” ha di fatto contribuito a suo modo ad una maggiore pervasività del potere del capitale mentre quest’ultimo fenomeno, da parte sua, ha rinsaldato l’apparente necessità storica di una lotta che muova a partire dallo “stile di vita” e dall’immediatezza dei rapporti sociali. La struttura economica del modo di produzione capitalistico lega infatti, da un lato, i bisogni alla produzione di merce (inclusa la merce-lavoro), dall’altro, si muove su un piano più astratto, attraverso la concentrazione e la centralizzazione dei capitali e la loro reciproca concorrenza sui mercati finanziari. La vittoria del capitalismo sullo scenario internazionale dopo il crollo dell’URSS ha facilitato le dinamiche di finanziarizzazione dell’economia e di precarizzazione del lavoro, dunque il progressivo sganciamento della valorizzazione del capitale dalla produzione di benessere diffuso che era stato invece il punto di forza del modello fordista-socialdemocratico del dopoguerra10. Nel momento in cui la valorizzazione del capitale obbedisce invece sempre più alla logica della speculazione finanziaria e dunque all’accelerazione del movimento dei capitali sui mercati piuttosto che alla costruzione di agglomerati produttivi stabili e di reti di protezione sociali, il nesso tra bisogno e mercificazione salta. Struttura, organizzazione, termini, fini della produzione diventano sempre più qualcosa di occasionale, casuale, contingente, alla fine disfunzionale. Salta quel collante sociale che si accompagnava alla crescita economica guidata dal capitale. Nel deserto sociale prodotto da queste dinamiche, lo “stile di vita” viene sbandierato dai movimenti antagonisti come mezzo e fine di una riappropriazione della vita alienata dal capitalismo finanziario. Dopo che il modello fordista e socialdemocratico è entrato in crisi, la politica intesa come stile di vita serve a lenire la desertificazione lasciata dalla finanziarizzazione contrapponendole pratiche alternative, sganciate dall’economia globale e dalle politiche di redistribuzione del reddito.

Ma vista in retrospettiva è chiaro piuttosto che invece proprio quell’antagonismo praticato in forme tradizionali, impedendo l’occupazione completa delle istituzioni e il dispiegamento senza resistenze della logica dello sfruttamento sul mercato impediva le derive attualmente imperanti della finanziarizzazione economica. Il che ovviamente non esclude che il conflitto possa essere giocato anche in altre sedi ma risulta essenziale non perdere terreno là ove il conflitto di classe si gioca nella sua forma “classica”. La perdita di terreno su questo versante della lotta non è mai neutrale ma gioca a favore del capitale, permettendogli una maggiore libertà di manovra. In questo modo si innesca la deriva perversa che fa perdere posizioni (a livello di rappresentanza politico-istituzionale e di difesa sindacale) da cui era possibile tenere a bada gli effetti della finanziarizzazione; allo stesso tempo, la critica “radicale” della sinistra movimentista trasforma ideologicamente questa ritirata in uno spostamento di fronte, in un cambio di tattica e di strategia. Così, quello che è l’esito di una radicale impotenza politica ed economica viene trasformata in una scelta, e l’aspetto più immediato e vicino alla propria esperienza si trasforma in un terreno di lotta “più concreto”. Si celebra l’essere messi al tappeto come una prospettiva che permetterebbe finalmente di vedere il mondo “dal basso”.

Questa narrazione va rigettata in toto, perché è doppiamente falsa e pericolosa. Da un lato, perché interpreta ideologicamente il passato e impedisce di comprendere la genesi del presente. Dall’altro, e conseguentemente, perché ci toglie gli strumenti indispensabili per tentare di uscire dall’impasse teorica e politica in cui ci dibattiamo impotenti.

In estrema sintesi, il meccanismo ideologico funziona così: si vengono a contrapporre le esigenze di trasformazione della realtà sociale espresse dalle diverse identità femministe, ecologiste, queer, vegane ecc. al “riduzionismo economicista” del marxismo. Il discorso sembra ragionevole. In sostanza si dice: non tutto può essere ricondotto all’economia, ci sono altri meccanismi di oppressione, dunque occorre abbandonare o mitigare quel riduzionismo con una visione più ampia e articolata. Vedremo poi come “mitigare il riduzionismo” sia di fatto sinonimo di abbandonare totalmente il piano dell’analisi economica e, dunque, perdere ogni nozione sensata di “capitalismo”, con il che l’anticapitalismo tanto sbandierato va a farsi benedire. Per ora restiamo alla cogenza di quel ragionamento. Che è fallace sia nelle premesse che nella conclusione, ovvero sia nella denuncia del riduzionismo che nella proposta di soluzione.

A) La premessa: “il marxismo è una forma di riduzionismo economicista”

Chi è riuscito a sopravvivere alla noia mortale dei dibattiti accademici e militanti degli anni ‘80-’90 avrà imparato a memoria le geremiadi contro il “marxismo economicista”, la supposta pretesa di ridurre ogni fenomeno sociale allo sfruttamento del lavoro, la fissazione sulla “struttura” contro le “sovrastrutture ideologiche”, alla “base materiale” contro l’evanescenza della “cultura”. E avrà anche imparato che tutto ciò è stato “superato” da una visione “più complessa” in cui anche la cultura influenza la base materiale, anche l’ideologia è una forza sociale, il lavoro è solo una delle tante componenti della realtà sociale. Anche in questo caso siamo di fronte a un duplice errore. Si tratta di una visione astorica e totalizzante del pensiero di Marx che, per di più, destoricizza e totalizza la storia stessa del marxismo. Dunque fornisce una visione falsata sia di ciò che è il marxismo in senso teorico, sia di ciò che esso è stato come movimento storico-politico. Ed è importante comprendere come questi due errori si sorreggano a vicenda.

Partiamo dal primo punto: la falsificazione della teoria marxiana. L’idea che la sovrastruttura influenzi la struttura e che le cause dell’accadere storico-sociale non siano tutte da rinvenire esclusivamente nella sfera economica è talmente poco stupefacente da essere una banalità che nessuno, né Marx, né tanto meno i suoi più intelligenti esegeti, hanno messo minimamente in dubbio. Come tutte le ovvietà diventa però falsa se la si generalizza. Ed è infatti sintomo di una visione astratta e astorica nella misura in cui pretende di valere in assoluto e sempre per ogni forma di società umana. Ma l’oggetto della teoria marxiana non è la società umana “in generale”, bensì il modo di produzione capitalistico e lo specifico modo in cui questo interagisce con i rapporti sociali. L’ottica di Marx non è astrattamente universale (la società umana in generale), bensì determinata (il modo di produzione capitalistico), pretende descrivere esclusivamente il mondo che nasce dai processi di valorizzazione del capitale a partire dall’estrazione di forza lavoro. È assolutamente vero che questa dinamica finisce per coinvolgere praticamente tutti gli aspetti della vita sociale (dalla dimensione istituzionale alla vita relazionale e familiare) tanto da costituire un sistema mosso da una sua precisa logica interna, ma ciò non significa affatto (a) che non esistano altre relazioni di potere che si sovrappongano a quel modo di produzione; (b) che le analisi marxiane possano essere applicate anche alle società pre-capitalistiche dove quella logica non aveva corso. Questi due limiti del pensiero di Marx, tuttavia, costituiscono in realtà proprio i suoi punti di forza, ciò che rende la sua analisi specifica e determinata.

Il cuore dell’analisi marxiana, infatti, è legato al problema della modernità inteso come momento di rottura di vincoli politici, economici, sociali e familiari statici e la loro iscrizione in un orizzonte dinamico. Questa dinamizzazione delle strutture sociali premoderne viene considerata da Marx “progressiva” non in sé, ma per la dinamica universalizzante che inaugura. In altri termini, il modo di produzione capitalistico si inserisce al centro di una serie di tendenze storiche politiche e sociali che rompono i limiti in cui le società tradizionali praticavano le relazioni umane, limiti pensati come “divini” o “naturali”, fondati sulla loro “eternità”, o almeno sulla nobiltà di una “storia” veneranda, garanti di un “equilibrio” che era la prova stessa della loro “giustizia”. Rotti tali limiti, tutto ciò che è solido “svapora”11 e si inaugura la trasformazione sociale tipica della modernità che ha quattro caratteristiche centrali per Marx: essa preannuncia (1) la forma di un assoluto divenire che (2) finisce per abolire tutte i limiti dell’esperienza sociale, elevando quest’esperienza ad un livello universale, globale, unitario; pone (3) gli individui in rapporto reciproco - e, dunque, annuncia per la prima volta la possibilità di una individuazione reale al di fuori delle mediazioni sociali ereditate storicamente - e, conseguentemente, apre (4) alla possibilità dell’autodeterminazione dell’essere sociale dell’uomo. Il motto di Protagora “l’uomo è misura di tutte le cose” diventa vero, anche se solo come possibilità, proprio a partire dalla modernità: solo qui ai rapporti tra gli individui liberi e uguali si demanda il compito di determinare la misura dei limiti dell’esperienza e della ricchezza della loro vita sociale. Ma perché ciò sia possibile, evidentemente, occorre prima che il modo di produzione capitalistico, con la sua dinamica interna che trasforma ogni superamento dei limiti dell’esperienza sociale nella possibilità di autovalorizzazione di se stesso, venga abolito e sostituito da una gestione collegiale e democratica dell’economia. Forse perché così il mondo dell’uomo possa essere ridotto alla sola dimensione economica come vuole la classica critica al famigerato “economicismo” di Marx? Ovviamente no12. La famigerata centralità dell’economico è una caratteristica della società capitalistica, del suo modo di funzionamento specifico e proprio per giungere al suo superamento in direzione di una società socialista in cui esso non abbia più corso Marx cerca di chiarirne la logica (che, per altro, come vedremo, non è riducibile né alla semplice “mercificazione”, né al “consumismo”, né ad una generica brama di “profitto”).

Questa banalizzazione della posta in gioco della teoria marxiana, invero antica e molto comune, assume qui un senso specifico ed è assolutamente essenziale in rapporto al secondo errore che abbiamo denunciato: la falsificazione della storia del marxismo. Una falsificazione del tutto funzionale a giustificare l’arretramento teorico e politico di cui soffre la sinistra di movimento. Ora, è certo che uno dei motivi per cui è stato facile accusare il marxismo di predicare un riduzionismo economicista totalizzante è la modalità con cui esso si presentava storicamente all’epoca in cui sorsero i primi movimenti femministi, ecologisti, le lotte per i diritti degli omosessuali e degli animali. Possiamo rozzamente distinguere due fasi di questo incontro. Nella prima fase, dalla fine dell’800 alla rivoluzione russa, tali organizzazioni scontavano per ovvie ragioni storiche la pesante tara del positivismo scientistico, del produttivismo e del maschilismo. Non che non fossero presenti voci diverse e dissidenti rispetto a quest’eredità culturale diffusa, ma è certo che essa rese difficile un incontro più proficuo tra il socialismo e le tematiche femministe ed ecologiche (che pure ci fu). Nella seconda fase, dagli anni ‘30 agli anni ‘70, il movimento operaio organizzato si presentava anzitutto nella forma del “socialismo reale” e dei grandi partiti comunisti di massa occidentali schiacciati dalle alternative mortifere della Guerra Fredda. Su entrambi pesava l’influenza dello stalinismo13. Per stalinismo intendiamo soprattutto (a) una visione burocratico-autoritaria dell’organizzazione politica, caratterizzata, da un lato, da un cinico pragmatismo calato dall’alto sulle scelte tattiche e strategiche, da un certo irrigidimento moralistico interno e un certo conformismo nella morale, nei costumi, nell’arte; (b) una concezione meccanicistica dei rapporti tra la sfera culturale e quella economica dovuta alla necessità di considerare già realizzate le fondamenta del socialismo nell’URSS e nei paesi satelliti, ciò che portava inevitabilmente a condannare ogni denuncia della persistente alienazione individuale come una forma di “devianza”, di “residuo dell’ideologia borghese” ecc.

Seppure la maggioranza del movimento operaio, della sinistra istituzionale e delle sue organizzazioni di massa subisse ancora negli anni ‘70 l’influenza dello stalinismo, identificare la teoria marxiana con la sua forma organizzativa significa non solo confondere il piano della teoria con quello della storia, ma anche cancellare con un colpo di spugna tutti i fenomeni storici interni alla sinistra marxista che non si riconoscevano né nell’eredità positvistico-scientistica, né nella deriva burocratico-meccanicistica successiva. Non solo tutte le minoranze interne libertarie che pagarono un alto prezzo per la propria dissidenza negli anni di formazione dello stalinismo, ma anche i movimenti di contestazione che dagli anni ‘60 sorsero in contrapposizione alla vulgata marxista ufficiale e che furono, tra l’altro, il brodo di coltura della sinistra movimentista attuale. Parte della cosiddetta New Left (Nuova Sinistra) americana ed europea sviluppò infatti molto presto a partire dalla teoria marxiana conseguenze ben diverse da quelle del marxismo “ufficiale”: contro il culto del lavoro staliniano evidenziarono in Marx gli aspetti che suggeriscono piuttosto il rifiuto del lavoro e della sua centralità sociale, contro l’idea della teleologia storica che portava a sacrificare il presente nell’attesa della rivoluzione sottolinearono l’importanza della ricerca di una nuova sensibilità, della necessità di sperimentare già qui e ora nuove forme di convivenza e di relazione, predicavano la virtù dell’insubordinazione e dell’anticonformismo contro l’idea disciplinaria e militarizzata dell’agire politico14. Si ebbe così una contrapposizione tra l’irrigidimento burocratico e l’emergere di un movimentismo diffuso e anarcoide non dissimile da quello che troviamo ancora oggi nella sinistra anti-istituzionale. A cavallo tra gli anni ‘60 e ‘70, tuttavia, e per circa un decennio, gli slogan che oggi caratterizzano la sinistra movimentista convissero nelle punte più avanzate della Nuova Sinistra con l’analisi marxiana del capitale. Benché la Nuova Sinistra - costituita da un ceto intellettuale e di estrazione prevalentemente borghese - soffrisse di una cronica esteriorità rispetto al movimento operaio, essa cercava ancora un contatto con esso (e in Europa, in Francia e in Italia soprattutto, gli studenti e il movimento di contestazione giovanile erede della cultura beat, in effetti, incrociò per diversi anni la strada della contestazione operaia al capitale). Fu solo a partire dagli anni ‘80 che la critica marxiana dell’economia politica venne definitivamente abbandonata e si giunse a considerare come un dato positivo quella “frammentazione” politica che era invece prima vissuta, giustamente, come un segno di impotenza15.

B) La conclusione: “occorre integrare il marxismo con il femminismo, l’ecologismo, i diritti dei gay, il veganismo”

Stanti le premesse fallaci del ragionamento anche la conclusione non può essere vera, almeno non nella forma in cui essa è comunemente accettata. Correggere il presunto economicismo marxista prendendo in considerazione i bisogni che emergono dalle sensibilità antirazziste, femministe, ecologiste, queer e vegane significa mescolare l’olio con l’acqua. Significa cioè mettere sullo stesso piano una costruzione teorica che descrive esclusivamente il modo di produzione capitalistico e i meccanismi attraverso cui esso si intreccia con i rapporti sociali nel complesso e visioni teoriche che invece pretendono descrivere fenomeni e relazioni più generali (il maschio e la femmina, l’Occidente e le altre culture, l’eteronormativo e il transgender, l’Umano e il non-umano ecc.). Per di più ciò avviene dentro una cornice teorica che ha già preventivamente ridotto quelle forme di oppressione a modalità culturali, cioè ad un campionario di “identità” che lottano per il riconoscimento all’interno di pratiche sociali simboliche (che hanno sì ricadute materiali ma che, si rassicura, possono e devono essere smantellate anzitutto attaccando il “pregiudizio” e l’impegno a “relazionarsi” in modo diverso nel quotidiano). Ci si crea quindi l’immagine fittizia di un “riduzionismo economicista” per poi sostituirlo con un riduzionismo culturalista ben più reale e pericoloso.

Quella scansione di “identità oppresse” (genere, razza, classe sociale, etnia, orientamento sessuale, religione, età, disabilità mentale e fisica, specie16) è spuria e del tutto interna all’ideologia culturalista liberal e politically correct. Fa parte delle convinzioni più stucchevoli del culturalismo progressista ritenere che il mondo ci offra lo spettacolo di un Sistema più o meno piramidale di oppressioni gerarchizzate. In realtà, non esiste alcun Sistema di tal fatta e non esiste alcuna omogeneità tra quelle forme di discriminazione. Le lotte che sono state all’origine dei diversi movimenti di rivendicazione hanno non a caso storie diversissime tra loro. Alcune di queste storie, come abbiamo già detto, sono passate poi per la stagione della Nuova Sinistra ed hanno avuto al proprio interno, fino a un certo momento, una componente di classe che successivamente è stata annacquata e rimossa17.

Successivamente, i fermenti femministi ed ecologisti, l’investigazione della sfera sessuale, l’animalismo ecc., confluirono nell’ondata accademica dei cultural studies dove trovarono una nuova sistemazione teorica dentro una cornice che spingeva a banalizzare le categorie marxiane vissute ormai come “oppressive” e “totalizzanti”. Il terreno accademico di sintesi del nuovo linguaggio contestatario fu così preparato dalla ricezione anglo-americana dello strutturalismo (soprattutto l’opera di Foucault e la teorizzazione dei “regimi di discorso”) e del post-strutturalismo (soprattutto Derrida nell’interpretazione volgarizzante di Richard Rorty). È appena il caso di notare che anche queste correnti filosofiche partono dall’assunto errato secondo cui il marxismo sarebbe una forma di riduzionismo economico che pretenderebbe spiegare le leggi della storia e della società umana in generale. Ovviamente, né Foucault18, né Derrida19 hanno mai criticato Marx sulla base di questi presupposti fallaci ma l’effetto teorico dei loro discorsi è stato chiaramente questo. E a fare scuola è stata non la complessità delle loro analisi quanto, purtroppo, il riduzionismo dei loro epigoni. A questa immagine falsata di Marx questi ultimi hanno contrapposto un lavoro “decostruttivo” sulle strutture simboliche e sulle codificazioni linguistiche che sorreggerebbero le pratiche di esclusione e oppressione. Si è così diffusa l’idea secondo cui la cultura sarebbe una forma simbolica necessaria al Potere e che il Potere si realizzi attraverso le pratiche culturali diffuse; e quella che vorrebbe essere una “moltiplicazione produttiva delle contraddizioni” che si spinge oltre Marx, ne ricade così invece indietro. Dire che occorre “affermare, o onestamente constatare che tutt* siamo di volta in volta e contestualmente alla nostra posizione di soggetto, su base differenziale e non ontologica essenziale, portatrici di dominio e dominazione, siamo assoggettatrici e assoggettate, sfruttatore e sfruttate”20, è “vero” nella misura in cui non dice assolutamente nulla sul contesto sociale che pretende descrivere (ammesso che una descrizione così generica possa rendere conto di qualcosa di reale sarebbe stata “vera” anche nel Paleolitico o nel Medioevo)21. In secondo luogo, da ciò deriva che le “pratiche di oppressione” possono e devono essere identificate e combattute direttamente nelle relazioni interpersonali, assumendo le posture e il linguaggio necessari all’interruzione dei flussi di “canalizzazione” del potere, ovviamente su base di un atto volontario di liberazione. Questi due errori vanno insieme. La microfisica del potere, il Potere interpretato come “trama” di micro-relazioni gerarchiche, flusso “capillare” di rapporti disciplinari, dando l’apparenza di un’analisi “più concreta” del potere stesso in realtà si trasforma facilmente in una teologia del potere dove non è possibile più distinguere alcun centro e alcuna periferia. Anzi, una vera e propria teologia negativa del potere: come nella teologia negativa Dio è infinito perché non è niente di finito e dunque è ovunque perché non è nessuna cosa particolare, allo stesso modo il Potere, rimosso dalla zona dello Stato e dal regno dell’economia, si dissolve nella trama dei rapporti individuali, diventando però così infinitamente più potente e inafferrabile, assumendo un carattere ancora più astratto e mistico. Il che giustifica e autorizza tanto il moralismo, quanto l’attivismo atomizzato nella sfera privata. Solo da un punto di vista così evanescente è possibile, per es., pensare che una riforma costituzionale dirigista, oligarchica e tecnocratica sia solo “un’altra” forma di manifestazione del “potere” e che è del tutto indifferente respingerla o farla approvare; oppure definire “privilegiate” e funzionali al “potere” organizzazioni femminili che ritengono più urgente difendere il diritto all’aborto che far approvare una legge che definisca discriminatorio l’uso del termine “utero”. Allo stesso modo, è solo a partire da questa concezione del potere che può avere un senso positivo la pratica di privatizzazione dell’azione politica. Mano a mano che questa presunta conquista teorica rispetto a Marx si allontana dalle aule accademiche e scende nelle strade, infatti, ecco che essa si trasforma facilmente e quasi automaticamente nell’imperativo (moralistico) di cambiare il potere “iniziando dal basso”, visto che il potere è ovunque e “ci attraversa tutti”. Ma avendo perso la capacità di discriminare lo specifico rapporto di potere che si realizza nel modo di produzione capitalistico si tende di fatto a cancellarlo, gettandolo nel gran calderone dei “regimi di discorso” e, soprattutto, ci si impedisce di pensare e capire il modo in cui quel meccanismo di produzione agisce sulle pratiche sociali. Il rapporto capitale/lavoro, infatti, tutto è tranne che un regime di discorso o un rapporto gerarchico tra gli altri e non riuscire a teorizzarlo nella sua specificità significa, molto semplicemente, che l’“anticapitalismo” di cui ci si fregia in realtà non ha oggetto, poiché ad esso manca l’elemento essenziale: il capitale.


 

6. Se “dal basso” non significa nulla

Cambiare il potere nelle relazioni personali significa che l’azione di trasformazione parte dall’individuo o, al limite, da un gruppo che condivide in modo coerente e omogeneo dei valori e li pratica nel quotidiano, sperando così di contribuire ad un cambiamento “dal basso” della società e delle dinamiche di potere. In realtà questa distinzione tra “alto” e “basso” è un’altra astrazione priva di contenuto e finisce solo per mascherare il luogo del conflitto dove si origina il meccanismo di riproduzione del capitale.

Per poco che uno volesse dare una descrizione anche solo meno lontanamente schematica del binomio alto/basso ecco che dovrebbe riconoscere una serie di livelli concentrici parzialmente autonomi di organizzazione della vita sociale. Bisognerebbe partire dai livelli istituzionali politici e sindacali in cui la rappresentanza sociale si condensa in arene di conflitto o di interlocuzione tra le classi. Al di sopra di questi livelli nazionali occorrerebbe poi porre le oscure e difficili trame della politica internazionale, gli scenari geopolitici dei conflitti armati e delle grandi migrazioni di popoli. Al di sotto, c’è la politica amministrativa e la vita di comunità (urbana o rurale, da megalopoli o da piccolo centro, cittadina o di quartiere). Poi la vita relazionale, le frequentazioni di amici e conoscenti e i rapporti intimi, familiari, col partner, i figli, la sfera della sessualità, dell’inconscio ecc. Apparentemente slegato da questi scenari c’è il luogo di lavoro in cui ognuno incontra e vive sulla propria pelle in forma immediata la realtà del conflitto di classe, l’opposizione tra il capitale che organizza lo sfruttamento e il salariato diffuso. Mentre non c’è un alto e un basso, ma una serie di livelli differenti e in parte autonomi, il luogo di lavoro è l’unico in cui si vive in forma immediata lo sfruttamento, seppure anche questa immediatezza sia in parte illusoria in quanto il capitale non conosce un luogo fisico, essendo un processo che vive nella dislocazione continua del suo “centro” (che resta il meccanismo astratto della propria autovalorizzazione). È da questo centro “ideale” che si irraggia in ogni sfera l’influenza pervasiva e disciplinatrice del capitale. In alto, altissimo, negli scenari di guerra e di alleanza tra i poli imperialisti volti all’accaparramento delle risorse e dei mercati più promettenti. A livello istituzionale nelle politiche liberiste di attacco all’autonomia e al reddito del lavoro salariato che costantemente sfruttano - come alleato o capro espiatorio - l’autoreferenzialità delle burocrazie di partito e sindacali. Dinamiche che si riverberano a livello di politiche amministrative e si riversano nei fenomeni urbani della gentrificazione, della perdita dei servizi essenziali, dell’abbandono delle periferie, dell’anomia e dell’atomizzazione sociali. Caratteristiche che si ritrovano anche nelle modalità relazionali “liquide” e nella costruzione della propria immagine pubblica attraverso il social-networking, l’esplosione delle potenzialità erotiche che si accompagna ad una costante mercificazione della sessualità, la crisi dell’istituto familiare, del ruolo tradizionale dei genitori nell’educazione dei figli ecc.

Ognuno di questi livelli rappresenta una forma mediata del conflitto tra capitale e lavoro. Rappresenta anche altro (è chiaro che le problematiche di genere, razziste, ecologiche e speciste si situano su uno o più di tali momenti della totalità sociale) ma, negli esempi che abbiamo proposto, ad ognuno di quei livelli il conflitto che sorge e si esprime sul luogo di lavoro viene riflesso in modo autonomo e specifico. Provare ad opporsi al capitalismo intervenendo in uno o più di questi livelli senza intervenire nel luogo che gli è proprio è illusorio. Provare a farlo addirittura dimenticandosi alcune delle forme di mediazione di quel conflitto (ad es. i livelli istituzionali politici e sindacali) per praticare un’opposizione immediata al capitale che consta di uno “stile di vita alternativo” è pura follia. Il problema, come abbiamo visto, sta proprio nel determinare il luogo del conflitto che è al tempo stesso concretissimo e astratto.

 

7. Il problema della totalità sociale

Altro slogan famoso e omogeneo all’ideologia spontaneista e immediatistica della sinistra di movimento è “sii il cambiamento che desideri vedere nel mondo” (attribuita erroneamente a Gandhi). Esso fa emergere chiaramente il problema della totalità. Poiché modificare la propria vita in accordo ai valori, ai desideri, ai bisogni, all’utopia che vorremmo vedere realizzate nella realtà, benché eticamente possa essere lodevole, non fa avanzare di un passo il mondo nella direzione sperata. Pensarlo significa identificare senza residui il cambiamento a livello personale, intersoggettivo, di gruppo (in senso informale o formale), economico e istituzionale mentre essi, come abbiamo visto, non sono affatto la stessa cosa e solo una ipersemplificazione dei rapporti reali può farcelo pensare. La dimensione specificatamente sociale è totale, quando una società cambia storicamente ciò accade perché cambia qualcosa della sua struttura che affetta tutti i rapporti interni. Non c’è automatismo in questo e, ovviamente, gli sforzi che si fanno in ognuna di quelle “sfere” d’azione (che a loro volta costituiscono delle totalità) è importante per realizzare una transizione sociale effettiva. Ma smettere di cercare le leve che conducono alla totalità significa praticare del thatcherismo spontaneo e inconsapevole (“there’s no such thing as society”).

La prassi di trasformazione che muove dalla dimensione dei rapporti personali, dal raggio d’azione dell’individuo non incontra mai la società che dovrebbe essere il vero problema da affrontare e risolvere. Ad. es, tanto sul fronte ecologico, quanto su quello della lotta per i diritti animali, il mezzo più diffuso per modificare il rapporto tra l’Uomo e la natura (o tra l’Uomo e gli animali) è il consumo privato. Le scelte dal lato del consumo dovrebbero portarci in progresso di tempo a modificare le nostre relazioni con l’ambiente e le altre specie, fino ad incidere nel modo in cui la società umana si relaziona agli ecosistemi e alle società non-umane che le popolano. Ma è dubbio che tale azione possa giungere anche solo al primo livello del cambiamento per intaccare il nostro modo di relazionarci come individui e come gruppi e sicuramente rispetto alla sfera economica o istituzionale il salto è ancora più vertiginoso. Sul fronte invece dell’emancipazione delle soggettività umane oppresse (di genere, etniche ecc.) si tratta di stabilire direttamente nuove forme di rapporto intersoggettivo, praticare forme di riconoscimento in grado di garantire una reale uguaglianza di trattamento. Realizzare, praticando la solidarietà, un mondo di relazioni non più violente e oppressive che faccia da preludio ad una trasformazione sociale in senso non gerarchico. Qui il passaggio dalle relazioni alla trasformazione sociale sembra essere più diretto di quello che passa attraverso il consumo, ma in realtà c’è una distanza non inferiore in quanto la società non coincide né con la somma degli individui, né con la somma delle relazioni interpersonali. Anche in questo caso, il salto verso la totalità sociale non si realizza se non in un processo all’infinito.

Ma poiché la società è una totalità, il cambiamento sociale è tale solo se si pone al livello della totalità e da qui retroagisce sui singoli rapporti personali, sulle dinamiche intersoggettive e di gruppo, sulla vita istituzionale. Lo scetticismo nei confronti della totalità, d’altronde, è un altro dei pessimi servizi resi dal postmoderno al pensiero critico. Anche ammettendo che la società “liberata” smettesse di essere una totalità essa avrebbe comunque una forma che la renderebbe diversa e inconciliabile con il capitalismo. Essa implicherebbe uno specifico collante sociale a tenere insieme gli individui, la forma oggettiva assunta dalla loro libertà realizzata. Chiamiamola totalità barrata, negativa o assente, o semplicemente “totalità” tra virgolette, ma ogni progetto di oltrepassamento del capitalismo non può fare a meno di riferirsi a un concetto simile. Ebbene, la forma sociale che verrebbe a costituirsi nel processo di superamento del capitalismo dovrebbe avere perlomeno tre caratteristiche principali.

(1) Al posto di definire la totalità sociale in termini di collettivo e di tradizione, essa la definirebbe a partire dall’interazione di individui autonomi che cooperano in un regime di democrazia radicale.

(2) Al posto di funzionare in accordo ad un principio di razionalità particolare e opaca (la ragione di Stato delle classi dominanti), la totalità sociale post-capitalistica si organizzerebbe attorno ad un principio di razionalità universale e trasparente.

(3) Al posto quindi di una razionalità espansiva e colonizzatrice, illimitata e auto-contraddittoria, essa praticherebbe una razionalità che sviluppa coscientemente e coerentemente i propri limiti. La possibilità reale di innescare questi tre vettori di cambiamento prevede la capacità di comprendere la logica dialettica di funzionamento del capitale stesso, cioè a dire della sua contraddittoria forma produttiva e del modo in cui esso realizza e al tempo stesso impedisce il potenziale emancipativo della modernità.

 

8. Il problema è la forma, non il contenuto della produzione

Come abbiamo visto, infatti, l’aspetto progressivo della modernità secondo Marx risiede nella rottura dei vincoli feudali, nel superamento dell’idea che la misura dei bisogni sia fissata esternamente rispetto all’azione sociale considerata nel suo sviluppo autonomo. A questo elemento negativo, di rottura, il capitalismo aggiunge una dinamica positiva che ha due conseguenze importanti per quanto problematiche: la potenza (1) espansiva e (2) universalizzante della soddisfazione dei bisogni attraverso la produzione di merci. Il modo di produzione capitalistico, in altri termini, tende a crescere su se stesso in forma apparentemente illimitata, intensificando conseguentemente gli scambi di merci e la circolazione del denaro, giungendo così a realizzare per la prima volta nella storia un sistema economico planetario. Ciò non avviene senza contraddizioni. Da un lato, infatti, aumenta il volume e la complessità dei rapporti sociali e, assieme ad essi, dei bisogni e dei loro modi (anche tecnologici) di soddisfacimento. Dall’altro, questa crescita produce inevitabilmente profitto e dunque non è solo genericamente legata allo sviluppo del capitale stesso ma, in molti modi, organizza la società a partire dalla meccanica di autovalorizzazione di quello, rispetto al quale il soddisfacimento dei bisogni umani diventa un elemento accessorio. E, tuttavia, quella crescita e quel soddisfacimento non sono mai mere illusioni. Non esistendo un metro esterno alla società rispetto alla quale essi possono essere giudicati, le uniche due possibilità sono: (a) dichiarare quei bisogni e quella crescita degenerazioni di un equilibrato e limitato scambio sociale come avviene nelle società premoderne; (b) riconoscere quei bisogni e quella crescita come reali e legittimi, seppure frutto di sfruttamento e di una ancor parziale sviluppo della capacità di auto-organizzazione della società. In altri termini, il capitale, come forza autonoma ed estranea ai bisogni umani che soddisfa indirettamente attraverso la propria circolazione, “scippa” agli uomini il loro potenziale di auto-organizzazione, imponendo ancora un vincolo esterno alle loro capacità produttive. Dunque, tanto più i rapporti sociali sono organizzati surrettiziamente dal capitale, tanto meno lo sono dagli uomini nei loro liberi rapporti reciproci.

Questa è la contraddizione decisiva che occorre comprendere e rispetto alla quale è necessario prendere posizione ma, ecco il problema, tale presa di posizione difficilmente potrà ridursi ad un sì o ad un no allo sviluppo prodotto dal modo di produzione capitalistico. Coloro che rinfacciano a Marx un’eccessiva adesione al “produttivismo” capitalistico, un’accettazione passiva della tecnologia prodotta dal capitale (magari argomentando nel senso vitalistico già visto sopra, secondo cui la tecnologia opererebbe una “riduzione” della complessità della vita all’elemento quantificante, calcolabile ecc.) riducono di molto la complessità dei rapporti sociali capitalistici così come li ha analizzati Marx. Il “lato progressivo del capitale” non sta affatto nell’aumento generale del benessere o nella produzione di beni specifici (treni, automobili o cellulari). Perché anche se è possibile provare, matematicamente, che la riduzione di mortalità o il soddisfacimento di certi bisogni sono aumentati da duecento anni a questa parte, questo dato andrebbe comunque interpretato per potersi tramutare in un giudizio di valore sulla società capitalistica. Non esiste, infatti, alcun metro di misura oggettivo che possa indicare “il prezzo” che l’umanità paga per l’entrata nella fase moderna.

Il punto per giudicare la controversia è un altro. E’ un dato piuttosto formale che materiale. E’ cioè la forma del modo di produzione a fare la differenza tra moderno e premoderno, non il suo contenuto. Il vantaggio della modernità capitalistica sul mondo pre-moderno sta appunto nel fatto che esso socializza la produzione, rende cioè la produzione qualcosa che avviene a partire dai singoli ma istituendo un tessuto di relazioni e scambi universale in cui tutti sono implicati nel reciproco soddisfacimento dei bisogni. Il problema è che il capitale pretende sottomettere questa socializzazione de facto ai propri interessi de iure: cioè al profitto. Esso quindi privatizza fin dal principio la socializzazione che innesca.

Il capitale socializza la produzione nel senso di intensificare gli scambi e dunque l’interdipendenza degli individui in essa coinvolti ma al tempo stesso la privatizza in quanto traduce tutto ciò in un meccanismo di esclusione, poiché mantiene e riproduce costantemente l’opposizione capitale/lavoro e l’ineguale distribuzione della ricchezza prodotta. Nel fare questo porta ad un livello sempre superiore la complessità del sistema degli scambi e, di conseguenza, la società nel suo insieme. Ora, questa intensificazione degli scambi e questo aumento dell’interdipendenza dei produttori avviene attraverso il mercato, cioè attraverso la traduzione in merce di ciò che viene scambiato. Chi si arresta alla critica della “mercificazione” non può che sperare di regredire ad un livello sociale e produttivo che precede l’epoca del mercantilismo: non a caso la destra fascista identifica, erroneamente, il capitalista con il mercante e il capitale con l’usura (cioè con fenomeni che precedono storicamente lo sviluppo del capitalismo propriamente inteso). Ma esiste in realtà un dato assolutamente positivo che accompagna come un’ombra lo sviluppo del mercato globale capitalistico. Esso passa attraverso due elementi che vengono invece solitamente banalizzati dalla critica anticapitalistica più diffusa: la mercificazione e l’astrazione. Questi due fenomeni, lungi dall’essere meramente negativi (“la vita è ridotta a merce”, “la vita è ridotta a qualcosa di calcolabile” ecc.) rappresentano l’elemento realmente universalizzante, il collante sociale, il legame agito che connette i produttori nel processo di soddisfazione reciproca dei bisogni. La mercificazione dei rapporti sociali in realtà produce il comune tramite l’astrazione.

La “merce” è infatti per essenza ciò che viene prodotto da A al fine di soddisfare il bisogno di B (ciò che quindi viene prodotto per non essere consumato in proprio). Dunque è nella natura stessa della merce la tendenza ad istituire un rapporto sociale verso un altro, il quale a sua volta soddisferà con il suo lavoro il bisogno di un terzo e così via. Questa mediazione dei bisogni si compie per mezzo del denaro che rappresenta in forma astratta ciò che di scambiabile c’è tra le diverse merci, ovvero il lavoro sociale che si riversa nella loro produzione. Il prezzo delle merci è così il minimo comune denominatore delle prestazioni sociali, la rappresentazione numerica, quantitativa, della loro scambiabilità. È dunque la misura interna degli scambi sociali che attraverso la produzione dei beni e servizi esprime il livello più o meno adeguato di soddisfazione dei bisogni umani. Merce e denaro, dunque, rappresentano, in forma ancora imperfetta ma già reale, l'interazione degli individui nel reciproco gioco di soddisfazione dei bisogni. Astrazione significa anche misurabilità, dunque razionalità di questo gioco di interconnessioni sociali. La quantificazione delle pratiche sociali ne esprime, in forma ancora parziale, la razionalità e l’universalità reali. Non è in questo che sta l’irrazionalità del modo di produzione capitalistico. La contraddizione tra capitale e bisogni umani non sta nel fatto che lo stesso metodo di fabbricazione delle biciclette venga adottato a Pechino e a Napoli, quasi che uniformare, rendere misurabili e compatibili le procedure di soddisfazione dei bisogni debba coincidere necessariamente con forme oppressive e limitanti dell’irriducibile molteplicità della vita. La distorsione irrazionale di questo processo sta nella logica parziale, privatistica della socializzazione che così viene realizzata. Il problema è che questa astrazione serve tale logica parziale, dunque non è interamente al servizio della socializzazione del soddisfacimento dei bisogni. Emerge così una razionalità sociale parziale che, proprio in quanto tale, non è vera razionalità, perché non è realmente universale. Solo una razionalità autenticamente sociale, dunque una Ragione agita socialmente, collettivamente, dunque universalmente, sarebbe realmente razionale. I due corni del problema si implicano vicendevolmente. Ma se ciò che è vero, tale ragione sociale emerge tanto più quanto più si inverte il processo inaugurato dalla modernità capitalistica dall’interno (dunque non all’indietro): ovvero solo l’espropriazione dell’interesse privato o particolare alla base del meccanismo di accumulazione del capitale può realizzare un’universalizzazione reale del soddisfacimento dei bisogni. Interesse “privato” qui significa l’opposto di interesse “individuale”. L’individuo dovrebbe essere il vero fine della produzione, fine solo indirettamente e illusoriamente servito dal capitale. Si tratta infatti di socializzare la privatizzazione del capitalismo, fare cioè che quello scambio e quell’interdipendenza dei produttori vadano effettivamente a vantaggio di tutti. Non basta contrapporre astrattamente “individuo” e “socializzazione”, immaginando che una società fondata sul modo di produzione socialista possa essere definita nei puri termini della “collettivizzazione” e della “statalizzazione” in quanto contrapposti all’azione individuale. Se così fosse, evidentemente, non si tratterebbe di una reale socializzazione ma di una variante del dispotismo. Se la lotta al capitalismo viene pensata saltando a pie’ pari le forme con cui il capitale realizza l’intermediazione sociale dei bisogni, ovvero la merce e il denaro, non si potrà che regredire a forme di autoritarismo premoderne o sostituire il capitalismo con un capitalismo di stato ancora più autoritario.

È importante sottolineare, infatti, che le contraddizioni e le antitesi che si generano nella produzione di merci sono inerenti alla produzione stessa e non alla forma del denaro. Il denaro non si impone dall’alto ai rapporti di scambio, come fosse una specie di “idea a priori”, bensì deriva dallo scambio come sua necessità intrinseca22. E questo è il motivo per cui nessuna riforma del denaro, cioè del mezzo di circolazione, può eliminare quelle contraddizioni. Questo è molto importante perché serve a contrastare alcune delle teorie più trite della sinistra anticapitalista e alcune interpretazioni più vetuste della prospettiva marxiana: il riferimento al denaro come fattore di “alienazione” dell’attività sociale (il denaro che si interpone tra gli individui e le cose complicando inutilmente i loro rapporti fino a diventare oggetto di desiderio esso stesso), l’idea che l’espropriazione dei capitalisti abbia come fine una gestione dispotica dell’economia, l’idea che socializzazione e collettivizzazione significhino sacrificio dell’individuo.

Marx risponde anticipatamente a queste accuse proprio analizzando il problema del superamento del denaro, superamento che implica una trasformazione radicale dei rapporti sociali e produttivi. Ad es., l’idea degli anarchici proudhoniani di sostituire il denaro con “cedole-lavoro” (cioè con qualcosa che certificasse il lavoro erogato dagli individui) quindi eliminando il mezzo-denaro considerato fonte di “alienazione” e “reificazione” della libera attività degli attori sociali, lascia invece del tutto invariate le contraddizioni del sistema produttivo23. Altrove, Marx sottolinea come una riforma del denaro che tendesse a ricondurre tutto il circolante all’attività di una banca centrale potrebbe risolvere le contraddizioni del sistema produttivo solo trasformando la banca centrale in un’istituzione onnisciente che non si limiterebbe a controllare ma dovrebbe inevitabilmente intervenire attivamente nella sfera della produzione come una specie di super-capitalista collettivo24.

Nel Capitale Marx critica l’idea che la forma capitalistica della proprietà privata possa essere considerata naturale, poiché la proprietà è sempre una specifica modalità sociale di appropriazione della ricchezza prodotta (socialmente). E qui Marx scrive senza mezzi termini che il superamento del modo di produzione capitalistico non consiste in un ritorno ad antiche forme comunitarie di proprietà, bensì in una diversa articolazione del rapporto tra individuo e collettivo, così che si realizzerebbe per la prima volta un modo di produzione in cui l’appropriazione individuale della ricchezza sociale avrebbe come fine l’individuo stesso, libero ed autonomo. Il fine della produzione in una società comunista non sarebbe quindi più la proprietà privata bensì ciò che Marx chiama proprietà individuale25.

E’ ovvio che anche il problema del rapporto tra qualità e quantità viene ridefinito in una situazione che si è lasciata alle spalle i rapporti sociali capitalistici. Ma non nel senso di un ritorno al “qualitativo” in quanto piattamente contrapposto al “quantitativo” magari riducendo il volume e la velocità degli scambi a condizioni più “umane” come auspicano i teorici della decrescita o i cultori dello slowfood. Come se esistesse una misura universale/naturale della velocità o del volume degli scambi sociali, qualcosa che potesse fungere da modello al di fuori o al di là della società nel suo darsi storico. Come se la società curtense del medioevo o lo scenario per-industriale della prima modernità dovessero essere più vicini ad una qualche immutabile essenza umana. Discorso dal quale è inevitabile che si finisca poi nelle secche del primitivismo più infantile che identifica ciò che è proprio dell’umano con ciò che si trova più vicino alla sua origine “naturale”.

 

9. Cambiare il potere senza prendere il mondo

Si vede come il deficit di elaborazione teorica da parte di gran parte della galassia antagonista su questi punti si saldi fin troppo facilmente al desiderio di interpretare il mondo a partire da un’angolazione particolare vissuta come intrinsecamente buona e che coincide, quasi sempre, con il proprio percorso, i propri valori, i propri desideri. Il primato del privato e del personale si fonda qui sulla cancellazione di ciò che potrebbe politicamente trascenderli. Manca in tutto ciò il necessario complemento oggettivo al desiderio, ciò che potrebbe fare da collante reale, da tessitura effettivamente universale dei bisogni individuali. In altri termini, mancando un’adeguata teorizzazione del sistema delle merci e del denaro, manca anche un valido sostituto a quel necessario, per quanto contraddittorio, fenomeno di universalizzazione e socializzazione dei bisogni che essi incamerano. Dunque non resta che declamare la necessità che tutti i desideri si incontrino magicamente per rovesciare l’attuale sistema di potere, senza che venga indicato come ciò potrebbe essere possibile, dove risiederebbe il comune che si pretende di definire a partire dal mero desiderio individuale. Ed ecco che la prospettiva antagonista senza teoria del capitale finisce per coniugare un moralismo di fondo (“tutti dovrebbe fare come me!”) ad una mistica del desiderio (“quando tutti desidereranno cambiare, il mondo cambierà”) senza che sia possibile indicare il come di tale accordo e, anzi, finendo per rifiutare tutto ciò che pretende andare in direzione di una qualsiasi articolazione di tali istanze.

Un eccellente modello (in negativo) di cosa sia la militanza anticapitalista può essere fornito da uno scritto che ha avuto un’effimera fortuna al tempo dei movimenti no global degli anni ‘90, ovvero Cambiare il mondo senza prendere il potere di Holloway. Si tratta di un testo che ben sintetizza una forma mentis che va ben al di là della diffusione che esso ha effettivamente avuto all’epoca della sua pubblicazione. Si può dire che Holloway sintetizzi alla perfezione il limite dei movimenti antagonisti fondati sul rifiuto del potere e sul rifiuto del denaro. Questi due assi della protesta di certi ambienti no global sono tra di loro strettamente legati: il rifiuto dell’uno comporta il rifiuto dell’altro, l’incomprensione del primo concetto si fonda e a sua volta fonda l’incomprensione dell’altro.

L’idea di Holloway ruota precisamente intorno a questi due fuochi. Da un lato, il potere rappresenta l’alienazione dalla società, qualcosa che si erge al di sopra delle dinamiche e delle relazioni sociali immediate. Il male incamerato dallo Stato sta proprio in questa perdita di immediatezza. Dall’altro, il denaro rappresenta l’estremo esito e la conseguenza inevitabile di tale processo di estraneazione della società da se stessa: il denaro è male perché si interpone tra le prassi sociali e i loro scopi, tra i bisogni e la loro soddisfazione. Benché Marx avesse ben visto e criticato in anticipo questa banalizzazione dello Stato e del Denaro, gli si rinfaccia una focalizzazione sul potere statale e sul mondo dell’economia come due errori complementari e necessari che avrebbero decretato il fallimento del marxismo “ortodosso”. In questo discorso, “alienazione”, “feticismo”, “merce” e “denaro” rappresentano dunque altrettanti aspetti di uno stesso processo di reificazione ed estraneazione della società, tanto che la loro relazione diventa spesso indistinguibilità: non si capisce cosa sia causa di cosa e su quale elemento occorra intervenire per modificare l’assetto sociale complessivo. Ma in realtà, proprio la negazione di un centro del potere (sia esso lo Stato, sia esso il mondo delle relazioni produttive) è al tempo stesso il presupposto e l’esito di questo discorso. Si combatte, per dir così, un po’ “tutto insieme” (l’alienazione, il feticismo, la merce, il denaro...) , quindi niente in particolare.

Holloway tenta, in realtà, di trovare un elemento originario che innesca le dinamiche di oppressione e lo fa ricorrendo proprio alla categoria del “potere”. Esiste un potere che è possibilità di fare, dunque estrinsecazione di un potere virtuale operativo, ciò che Holloway chiama “poter-fare”26. Poi esiste invece un potere come comando sugli altri, dunque esercizio di controllo e gestione del poter-fare altrui e questo è ciò che Holloway chiama “potere-su”27. Ma questa visione si riduce, come si vede, nuovamente a quella concezione vitalistica, atomistica e immediatistica tipica della sinistra antagonista: il “poter-fare” viene concepito come originariamente puro, incontaminato da ogni dinamica di reificazione perché immaginato nella forma di un’azione che sgorga spontaneamente dagli individui e rimane nel loro raggio immediato di azione e controllo. Ma se così fosse, esso non sarebbe ancora un fatto sociale. Ammesso, e non concesso, che un tale stato idilliaco di armonia tra il soggetto e i suoi atti sia mai esistito, certo esso precede il rapporto autenticamente sociale che si origina solo nel momento in cui il soggetto non dispone più interamente delle conseguenze e del senso dei suoi atti: solo quando l’altro è co-implicato originariamente nel mio fare, quando non domino la serie delle cause e degli effetti in cui il mio fare si inserisce, solo allora il mio fare può essere qualificato come sociale28. Dunque, delle due l’una: o il “poter fare” immaginato da Holloway non è sociale, oppure, se lo è, deve essere già originariamente alienato. Ecco allora che tutta la dimensione dell’economico, che in Holloway rappresenta una degenerazione del fare che implica relazioni di potere, inerisce all’essenza del fare stesso, è un elemento ineludibile dello sviluppo sociale di cui la modernità capitalistica è un esito altrettanto legittimo, non una “deviazione” rispetto ad una legge dei rapporti sociali immaginata come “naturale”.

Stesso discorso per quanto riguarda lo Stato. La concezione del potere di Halloway è infatti qui indicativa perché la lotta contro lo Stato è lotta contro il potere-su che “reifica” la vita sociale. Holloway vede nello Stato un “irrigidimento”, una “falsificazione” del flusso originario della vita che sarebbe invece anti-identitario. Lo Stato sarebbe l’istanza che esercita e garantisce il “blocco” del carattere fluido dell’azione sociale, obbligando i soggetti all’assunzione di una “identità” statica che rinnegherebbe il dinamismo dei singoli e della società nel suo complesso per meglio ordinarla e controllarla dall’alto. Con la conseguenza che ogni attività politica rivolta nei confronti dello Stato soffrirebbe inevitabilmente di un analogo irrigidimento, di una analoga limitazione di prospettiva e concentrazione di energie. Occorrerebbe invece dedicarsi a sciogliere quell’irrigidimento impedendo che il flusso delle energie sociali si incanali nei percorsi dell’economico e della politica istituzionale. Stato, merce e denaro sarebbero espressione di “disumanizzazione” e ciò che è propriamente “umano” si porrebbe al di qua della loro introduzione nelle dinamiche sociali. Contro di essi si tratterebbe quindi di fornire delle “anticipazioni di una società umana”29 ma, come al solito, non è chiaro come, visto che si è negato lo spazio di condivisione che solo potrebbe sollevare il fare individuale in direzione della socializzazione: i due pilastri della socializzazione moderna, infatti, tanto quello politico (lo Stato) quanto quello economico (lo Scambio), sono stati cancellati dall’orizzonte come forme degenerate di relazione sociale. Con il che, nonostante ogni assicurazione in contrario, quello che resta è veramente solo “un ritorno romantico a qualche mitica età dell’oro”30. Altrettanto sintomatico il fatto che la critica alla politica tradizionale e istituzionale venga condotta accusando il Partito degli oppressi che intendesse prendere il potere di volersi ergere a “Soggetto Onnisciente” che suppone “conoscere la totalità”31. Ma abbiamo già visto come il problema della totalità non vada affatto inteso nel senso di riuscire a gestire i singoli rapporti sociali dall’alto, poiché la possibilità di pensare la totalità sociale non sorge dalla somma empirica dei singoli atti sociali bensì dalla legge che li organizza e li trascende dall’interno. Sociale, nel senso della totalità sociale, è appunto ciò che si pone oltre l’orizzonte del singolo attore sociale e anche del mero aggregato degli atti dei singoli attori sociali. Nella società capitalistica questa totalità pone il problema dello scambio universale regolato dalla legge di autovalorizzazione del capitale. Aggredire il problema dello sfruttamento a livello sociale significa, appunto, andare a colpire il luogo (non fisicamente localizzabile ma logicamente determinabile) in cui si origina quella totalità di rapporti in quanto totalità32. Rinunciare al campo della lotta economica, rinunciare al campo della lotta politica in senso istituzionale, significa, molto semplicemente o ritenere irrilevante quella totalità, un’entità immaginaria che smetterebbe di sussistere nel momento in cui si smettesse di arginarne gli effetti di ritorno per dedicarsi “ad altro”, oppure pretendere di raggiungere la totalità per mera somma di atti individuali, confondendo dunque fatalmente il piano particolare dell’empirico con quello dell’universale-astratto.

Ovviamente il discorso va rovesciato: il riduzionismo qui è solo quello praticato da Holloway e dai movimenti antagonisti che ne ricalcano il pensiero, ovvero l’idea che si debba rinunciare in toto alla lotta sul piano economico e a quella sul piano istituzionale e questo perché è l’assunto di partenza ad essere infondato. Non c’è alcuna pura relazione sociale che venga successivamente coartata, reificata e alienata dalla modernità capitalistica. I rapporti sociali sono fin dall’inizio mediati, oggettivati, altri rispetto alle intenzioni degli agenti, è la loro intrinseca natura sociale a renderli tali. Dunque, diventa altrettanto sintomatica l’espressione usata da Holloway, secondo cui lo Stato avrebbe il compito di “disarticolare” i rapporti sociali spontanei per dare loro “forma”33. In effetti, è proprio questo che lo Stato, come agente sociale, fa. Ma “dare forma” significa, nel linguaggio filosofico classico, dare senso, rendere intellegibile, dunque condiviso, razionale. Ciò che emerge dall’attività sociale diffusa (e che è già, lo ripetiamo, alienata rispetto a se stessa, rispetto alle intenzioni e alla volontà di ogni singolo agente che interagisce nei processi sociali, dunque è già reificata e ultra-individuale seppure in forma oscura e opaca), può in effetti ricevere dalle istituzioni una forma intellegibile, cioè assumere un senso e un significato a livello dell’universale. Può dunque ricevere il suggello dell’astrazione (tramite la legge, il denaro o l’attività tecno-scientifica ecc.) che la rende tale, piuttosto che essere l’effetto cieco di scambi e di relazioni privi di una intenzionalità comune. Lungi dall’essere mera “alienazione” delle prassi sociali spontanee, questo momento universale-astratto esprime piuttosto il tentativo di raggiungere una prassi che sia autenticamente condivisa e dunque autenticamente sociale. Di quale forma si tratti (se di una forma rivolta all’arricchimento e al potere di pochi, oppure di una forma che contribuisca all’arricchimento e al potere di tutti), non decide il fatto che essa passi attraverso le categorie dell’economico o l’attività dello Stato, bensì, appunto, il modo specifico in cui l’economia e lo Stato intervengono nei processi produttivi e decisionali. Cancellato il problema della totalità, della socializzazione e dell’universale, ciò che resta è il privato e il personale in balia della totalità, della socializzazione e dell’universale violenti della privatizzazione capitalistica.

La lotta al capitalismo declinata come stile di vita, dunque, non solo fallisce il colpo sul versante critico-negativo, ovvero nel determinare il luogo di attacco al capitale. Per lo stesso motivo, fallisce anche nella capacità progettuale-positiva che dovrebbe sostituire il regime capitalistico. Perché in tutti i progetti emancipativi vissuti come “stile di vita”, e sia pure come stili di vita “comunitari”, manca l’elemento dell’universalizzazione. Soppressa la metamorfosi del capitale in merce e denaro come elemento di mediazione che produce la cooperazione oggettiva tra i produttori, con che cosa si intende sostituire quel processo reale di socializzazione? Con la semplice volontà di associarsi. Ma su quali basi? Con quale garanzia di efficacia reale? Con quale misura della sua razionalità intrinseca? È ovvio infatti che il glocal (“pensare globalmente e agire localmente”) è solo uno slogan che non può sostituire tali processi, né ne offre un metodo di analisi, poiché essi, sorgendo sotto l’auspicio di un desiderio, sfuggono per definizione alla necessità. Risulta piuttosto plausibile che si disegnino scenari opposti: quelli in cui, al posto della cooperazione e della socializzazione della produzione in senso globale, prevalga l’atomizzazione, il trionfo di logiche e interessi particolaristici, la celebrazione dell’identitarismo e del protezionismo.


 

10. La falsa opposizione tra mezzi e fini

Quando si sottolinea la centralità del canale politico istituzionale, si ha sempre il timore di suonare retrò, vetero-marxisti, di celebrare le virtù taumaturgiche del “Partito rivoluzionario”. E già si sente salire il coro di coloro che si lamentano di una prospettiva in cui si tratterebbe di “aspettare il giorno della rivoluzione” rimandando nel frattempo ogni tentativo di cambiare la vita qui e ora.

Anche in questo caso si è venuta creando una contrapposizione tra due posizioni altrettanto unilaterali. Quella secondo cui il fine della rivoluzione avrebbe una priorità assoluta sui mezzi per raggiungerla e dunque giustificherebbe a posteriori qualsiasi abuso, e quella secondo cui invece la rivoluzione dovrebbe essere già interamente contenuta nei mezzi con cui si cerca di attuarla o, in una versione più debole, non potrebbe esserci alcuna contraddizione tra i mezzi e i fini, dunque non sarebbe lecito raggiungere lo scopo finale della rivoluzione attraverso atti che moralmente le sono difformi (tipico il caso della non-violenza come mezzo e fine della lotta). Il primo caso è quello del marxismo sovietico e delle sue derivazioni ortodosse, con la sua necessità di istituire una gerarchia, il suo culto dei capi, il suo ottimismo ufficiale, la spregiudicatezza della sua tattica e della sua strategia, la sua visione meccanicistica e burocratica della trasformazione sociale in cui gli individui finiscono per essere pedine di un gioco controllato dall’alto. Nel secondo caso, caratteristico invece della sinistra movimentista e più prossima all’anarchismo, non ci sarebbe alcuna possibilità di articolare una differenza tra tattica e strategia, il cambiamento dovrebbe avvenire in piccolo, qui e ora, per poi allargarsi ad altre comunità secondo un concetto di rete orizzontale e policentrica.

Come abbiamo visto altrove, l’opposizione tra sinistra “stalinista” e sinistra “anarchica” elide completamente la presenza teorica e storica di una terza opzione, interna alla storia del movimento operaio e che, per quanto obiettivamente minoritaria, indica la possibilità di superare almeno teoreticamente tale contrasto: quello della rivoluzione permanente che raccoglie l’eredità di Rosa Luxemburg34 e Leon Trotsky. Questo modello unisce i pregi delle due posizioni alternative usandoli per correggerne reciprocamente i difetti, coglie cioè tanto il fattore oggettivo-strutturale, quanto quello soggettivo-individuale dei processi rivoluzionari. Esso vede (1) nel cambiamento posto a livello strutturale una necessità inderogabile di ogni progetto rivoluzionario: riconosce l’esistenza dei corpi intermedi, delle forme sociali, come modalità specifiche in cui si dà l’esperienza umana, dunque, al contrario della concezione anarchica, non assume l’oggettivazione sociale come il male, la “reificazione” dell’azione individuale come la causa stessa dell’oppressione. Riconoscere che le strutture complesse sono un fatto che attiene all’esperienza sociale dell’uomo e non una mera “degenerazione” aiuta a collocare a questo livello il potenziale di cambiamento della società e con ciò amplia le possibilità di azione al di là di ciò che i singoli o le singole comunità potrebbero fare rinunciando a tutto ciò che non è immediata espressione dei loro bisogni o delle loro capacità dirette. D’altro canto, la teoria della rivoluzione permanente vede (2) nella liberazione delle energie sociali il vero motore della rivoluzione e anche il garante della sua capacità di non irrigidirsi in strutture burocratiche e anti-democratiche. La rivoluzione è “rivoluzionamento” delle masse, delle loro aspettative, capacità, bisogni, non può vivere se questi non si ampliano e si approfondiscono, dissolvendo, con lo stesso atto con cui creano il nuovo, le forme stantie e oppressive del vecchio. Il fattore soggettivo diventa qui anche ciò che impedisce alle strutture di degenerare in meri apparati che si auto-perpetuano perdendo di vista il fine per cui erano state istituite (che è, appunto, l’allargamento della base sociale della rivoluzione, della partecipazione ai processi decisionali, della possibilità di inventare nuove forme di convivenza e di soddisfazione dei bisogni). Dunque è assolutamente vero che il problema della reificazione degli apparati esiste, ma non esiste tra gli individui e gli apparati come tali, poiché gli apparati, le strutture, le forme oggettive del vivere comune, fanno parte della costruzione di senso dell’esperienza sociale. Piuttosto quella reificazione esiste tra le strutture e il senso che tali strutture esprimono o dovrebbero esprimere nel processo di superamento del capitalismo, di modo che l’irrigidimento burocratico è l’espressione del fatto che la struttura inizia a perdere di vista la produzione di senso che l’aveva istituita, finendo per limitarsi a perpetuare se stessa bloccando così la transizione ad un diverso modo di produzione.

Non interessa qui quanto le strutture organizzative che si richiamano all’esperienza della rivoluzione permanente (la IV Internazionale ecc.) di fatto poi l’abbiano espressa adeguatamente. La questione qui è anzitutto teorica, verte cioè sulla possibilità di un modello che faccia saltare quell’opposizione tra mezzi e fini che ci lascia in uno stallo da cui è poi impossibile una seria analisi del modo in cui i conflitti all’interno del capitalismo possano guadagnare una prospettiva di autentico trascendimento del suo orizzonte produttivo. Il termine “rivoluzione” qui allude ad un cambiamento di massa, radicale che giunga ad intaccare la struttura produttiva capitalistica. Non allude quindi ad una qualche specifica forma di conflitto (violenta o meno), quanto alla possibilità di lasciarsi alle spalle il modo di produzione capitalistico organizzando una convivenza pacifica e senza sfruttamento a livello globale. Abbiamo già visto, d’altronde, come ciò non sia possibile senza tenere conto dello specifico modo in cui tale conflitto deve organizzarsi anche attorno ai nodi del potere statale e della produzione. In tal senso, anche l’opposizione tra massimalismo e riformismo porta sulla cattiva strada. Assumere una posizione massimalista (tutto e subito), infatti, tende a considerare ogni riforma un arresto del processo rivoluzionario e un tradimento, senza considerare quanto invece la conquista di posizione sul campo della lotta contro lo sfruttamento del capitale permetta una maggiore possibilità di manovra, di spingere verso richieste più avanzate ecc. Assumere una posizione riformista e socialdemocratica classica, invece, significa al contrario limitarsi a concepire il cambiamento sociale come mera addizione di riforme slegate da un percorso coerente e unitario di superamento del capitalismo. È chiaro come qui riemerga il problema della totalità: non ci può essere percorso unitario, né può esserci un salto oltre l’orizzonte del capitale se la società non viene pensata come un tutto organizzato a partire dal processo di autovalorizzazione del capitale stesso perché solo un cambiamento a questo livello del conflitto garantisce la possibile uscita dal cerchio che esso disegna. È chiaro che ciò non cambierà necessariamente le relazioni di genere o di specie, non sconfiggerà il razzismo né l’inquinamento. Ma è altrettanto chiaro che se non si agisce a questo livello si lascerà il capitale agire indisturbato e dunque gli si permetterà di riorganizzare il sistema dei bisogni e la propria autoperpetuazione come sistema di sfruttamento di classe attorno a quelle issues: un capitalismo delle pari opportunità (di sfruttamento), gay-friendly, vegano e ambientalista non è affatto una contraddizione in termini.

Questo non significa che le forme organizzative tradizionali del lavoro salariato, il partito e il sindacato, siano l’afla e l’omega della trasformazione sociale. Ma abbandonare totalmente questo livello dell’azione politica, disinteressarsi di ciò che qui accade, significa lasciare campo libero alle forze che la lotta di classe sanno farla molto bene, cancellando diritti e rimuovendo consequenzialmente i limiti allo sfruttamento di tutte e tutti. Anche solo essere in grado di determinare quale tra i partiti più distanti dal tuo interesse di classe sia preferibile avere al governo magari per poter organizzare meglio l’opposizione sociale sembra diventato un pensiero irricevibile. Mentre si tratterebbe di mero buonsenso. Dall’epoca di Lenin, in cui si predicava “l’analisi concreta della situazione concreta” e non si escludeva nessun mezzo che potesse garantire una posizione di vantaggio nella lotta di classe, siamo giunti alla consacrazione della mera testimonianza e del purismo aprioristico dei mezzi come unica forma di lotta legittima. L’agire politico svapora nell’etica dell’intenzione.

 

11. Il socialismo è un asse, non una soggettività

Che rapporto dovrebbero avere dunque il femminismo, i gruppi queer, l’attivismo ecologista e antispecista con il socialismo, posto che questo significa tenere in debito conto gli strumenti rappresentativi della classe lavoratrice a livello politico e sindacale? Si tratta di tornare al primato del politico sul personale? Per rispondere a questa domanda facciamo un passo indietro. Proviamo a riconsiderare il problema della militanza tradizionale e la famigerata questione della “palingenesi” del socialismo, ovvero l’idea secondo cui il socialismo avrebbe creato “l’uomo nuovo”, ovvero cambiato l’umanità e risolto tutti i nostri problemi. La subordinazione di tutte le lotte alla lotta per il socialismo si fondava (anche) su questa concezione errata. Che tuttavia è errata non perché sia troppo socialista, ma perché non lo è abbastanza. Per riprendere una battuta di Marcuse: “non ogni problema che uno ha con la sua ragazza è necessariamente dovuto al modo di produzione capitalistico”. L’idea che il socialismo risolva i problemi dell’umanità deriva proprio da una cattiva generalizzazione della teoria marxiana, quella secondo cui Marx avrebbe preteso scrivere una sociologia generale, elaborare un’antropologia filosofica o, peggio, un sistema della storia.

Poiché la militanza nel partito finiva per assorbire gran parte del tempo degli individui e delle comunità locali, permeandole e attraversandole integralmente, il politico entrava già nel privato seppure spesso nella forma alienata che le organizzazioni staliniste davano alla partecipazione. D’altro canto, nei partiti di massa occidentali accadeva che la struttura politica tradizionale accogliesse nella militanza anche situazioni esterne al mondo del lavoro, cercando di “assorbirne” nel programma, se non le istanze, almeno la possibile soluzione: ciò che apriva al problema del “dopo la rivoluzione” ma sicuramente permetteva una maggiore dialettica tra pubblico e privato, tra istanze particolari e lotta al capitale. Il divergere odierno di pubblico e privato (la militanza che si ritira interamente nel privato) è solo una ulteriore alienazione reciproca delle due sfere, in base alla quale entrambe rischiano di atrofizzare ancora di più che prima. Il problema, certo, è la modalità storicamente specifica che ha condotto le organizzazioni della sinistra tradizionale ad assumere i tratti rigidi e dirigistici dello stalinismo e la accuse di “deviazionismo” che spesso colpivano istanze di liberazione che provenivano da altri strati sociali o da elaborazioni teoriche diverse dal marxismo ufficiale. Ciò ha avuto un ruolo, come abbiamo visto, nel processo di alienazione di tali istanze nella sfera del privato, il che, a sua volta, ha ulteriormente allargato la distanza tra la militanza tradizionale e l’idea di re-invenzione della vita che proveniva dalle punte più avanzate della cultura “borghese”. E ha senz’altro contribuito all’irrigidimento della militanza, alla sua disumanizzazione reale, alla sua austera burocratizzazione. Ma condannando le forme, i metodi e gli obiettivi della militanza tradizionale per questo significa, nuovamente, confondere una questione storica con una posizione teorica. In realtà le strutture oggettivano le dinamiche interne della lotta nel tentativo di universalizzare l’azione (a tutti i livelli, dal locale all’internazionale) proprio per affrontare il capitale sul suo stesso terreno. Dire che la lotta al capitale condotta su questo piano conduce necessariamente al dirigismo burocratico significa confondere stalinismo e oggettivazione dei processi sociali. E questa confusione, per altro, opera in termini perfettamente stalinisti, perché lo stalinismo intendeva la burocratizzazione come un fenomeno inevitabile mentre la sinistra movimentista, al converso, criminalizza la mediazione istituzionale come di per sé, cioè di nuovo inevitabilmente, dirigistica e burocratica. Stalinismo e sinistra anarchizzante condividono cioè la medesima errata teoria sociale, solo invertita di segno: ciò che per l’uno è positivo per l’altra è negativo e viceversa.

Tra la pretesa al cambiamento qui e ora e la dimensione storicamente trascendente dell’socialismo c’è un salto incolmabile. Inevitabile. Nessuna prassi singolare, nessuna immaginazione può colmarla. Ciò non accade perché l’al di là del capitalismo sarebbe un concetto utopico, inesauribile (secondo il linguaggio messianico di Bloch) ma perché lo stato dei rapporti reali determina le possibilità stesse del socialmente immaginabile. Basti pensare a come la condizione che si pone auspicabilmente oltre l’orizzonte del capitalismo sarà non solo comunitaria ma lo sarà per di più in senso nazionale e internazionale. E questo è assolutamente non anticipabile dalla prassi e dall’immaginazione dei singoli o delle singole comunità. Dunque ogni prassi e ogni immaginazione tentata nel presente sarà inevitabilmente condannata al particolare. Il qui e ora mostra così tutti i suoi limiti, la sua parzialità escludente, anche con possibili derive conservatrici, corporative, campanilistiche. Alla falsa universalità delle single issues (il genere, la razza, l’orientamento sessuale, la specie) corrisponde la falsa singolarità delle situazioni “locali”, delle singole “vertenze”. Occorrerebbe piuttosto tracciare la linea che definisce l’opposizione di classe a tutti i livelli e tornare a pensare la lotta a quell’opposizione come necessariamente strutturata su più piani. Ma, anzitutto, come essenzialmente strutturata. Poiché il capitale organizza la sua lotta ad un livello che necessita di una risposta altrettanto organizzata. La rinuncia alla lotta organizzata al capitale anche su uno solo dei livelli in cui esso struttura il comando sul lavoro è rinuncia alla lotta al capitale tout court.

Ora, è chiaro che la teorizzazione di contesti di oppressione la cui portata, struttura e significato esulano dal rapporto di sfruttamento capitalistico in senso stretto (dal femminismo alla queer theory, dall’ecologismo all’antispecismo ecc.) ha significato l’esigenza di praticare una “nuova sensibilità”, ovvero di far emergere già qui gli atteggiamenti e le pratiche non-discriminatorie e alternative rispetto allo status quo senza dover “aspettare il giorno della rivoluzione”. Tutto questo ha una sua plausibilità, come vedremo, che va ben al di là dell’accusa banale secondo cui i lavoratori non sono “buoni” sic et simpliciter ma possono esercitare anche loro rapporti di dominio e praticare la discriminazione verso altri soggetti oppressi. In realtà, non solo al lavoratore salariato non si chiede di essere “moralmente” superiore agli altri (qualsiasi cosa questo voglia dire), ma anche il suo essere in una posizione di “potere” nei confronti di altri (qualsiasi cosa questo voglia dire) non ci dice ancora nulla sul potenziale eversivo della specifica lotta al capitale che il salariato può svolgere, perfino in relazione a quelle vere o presunte relazioni di “potere” in cui il lavoratore potrebbe trovarsi invischiato. Qualsiasi giudizio su questo punto necessita di un’operazione teorica preliminare che l’intersezionalismo, per i motivi già visti, rifiuta di fare: occorrerebbe cioè prima separare le diverse forme di oppressione e sfruttamento, dare alla relazione di comando sul lavoro da parte del capitale la sua specifica collocazione e chiarire il modo in cui essa interagisce con le altre forme di “potere” o con le pratiche di discriminazione. Gli interesezionalisti, invece, in genere saltano a pie’ pari l’analisi del modo di produzione capitalistico e mescolano assieme alle altre forme di “discriminazione” il rapporto di subordinazione salariale. Dal che poi è facile far scattare il meccanismo secondo cui la lotta al capitale pretende che “si aspetti il giorno della rivoluzione” prima di “cambiare la vita”. Certo, non si vuole qui tacere quanto le organizzazioni storiche della sinistra abbiano sottovalutato, e spesso ancora continuino a ignorare l’esistenza di forme ancestrali, premoderne di oppressione che ricevono una nuova veste e una nuova funzione nel modo di produzione capitalistico. È senz’altro un dato acquisito che la lotta anticapitalistica debba assumere anche a livello personale in forma quanto più possibile ampia e condivisa delle pratiche non discriminatorie e che, per dirne una, l’epoca in cui le donne erano “gli angeli del ciclostile” sia definitivamente tramontata o si debba fare il possibile per farla tramontare definitivamente. Ma occorre allo stesso modo tornare a fare chiarezza su un punto decisivo: ciò deve avvenire non perché quelle pratiche siano momenti ineludibili della lotta contro il capitale, perché non lo sono (molte di quelle istanze sono invece politicamente “trasversali” e nulla assicura che esse non potrebbero trovare un’adeguata collocazione all’interno del regime di produzione capitalistico); né tantomeno perché sarebbero momento della lotta ad una misteriosa entità che sarebbe la sintesi di tutte le forme di oppressione: tale entità è un mero ens rationis, una costruzione teorica cui non corrisponde alcuna realtà unitaria, con una logica coerente che si potrebbe combattere a partire dalla mera somma di pratiche anti-discriminatorie.

L’approccio dovrebbe essere diverso. Posto che la lotta contro la discriminazione di genere, le pratiche di resistenza antirazzista, il consumo consapevole fino al veganismo rappresentino momenti di una “nuova sensibilità”, esprimano un’esigenza di testimoniare l’impegno al cambiamento, un “mi preme” urlato in faccia all’indifferenza della maggioranza silenziosa, essa può svolgere un ruolo importante in un processo di trasformazione radicale del presente ma a due condizioni. Un’avvertenza di buon senso che può farsi valere è che tutto ciò non deve ovviamente cedere al moralismo che frantuma, piuttosto che compattare il fronte della resistenza all’oppressione, esprimendosi nella pretesa per cui il modo in cui gli altri agiscono sia frutto di una cattiva volontà, piuttosto che di una specifica forma sociale di esistenza. In secondo luogo, occorre che le diverse lotte trovino o meglio riscoprano il terreno in cui possono far valere obiettivi condivisi, articolare una tattica e una strategia di lotta. Nel fare questo devono ovviamente sottrarsi ai meccanismi ideologici di cattura della cultura liberal (smettere di pensare in termini di egemonia del “discorso” e ripensare la centralità delle relazioni produttive nell’attuale sistema sociale). Ciò non significa affatto subordinarsi alle organizzazioni tradizionali di lotta dei lavoratori. Devono però riscoprire che solo il terreno dell’analisi di classe permette di formulare i problemi della prassi ad un livello universale in cui le diverse forme di oppressione possono trovare una via d’accesso ai meccanismi sociali istitutivi del mondo in cui vivono. Devono cioè far entrare l’anticapitalismo realmente nelle proprie teorizzazioni e nella propria prassi, piuttosto che ridurlo a slogan. Spesso oggi le organizzazioni di ispirazione marxista fanno a gara per aggiungere “etichette” o “suffissi” alla propria militanza (gruppi marxisti-femministi-ecologisti ecc.). Sarebbe meglio avvenisse il contrario: che i gruppi femministi, ecologisti, queer ecc. iniziassero non tanto ad etichettarsi come marxisti (si etichettano fin troppo...), bensì a ripensare il capitale e il suo specifico modo di funzionamento. La prospettiva qui presentata, dunque, non pretende affatto che i movimenti di lotta si facciano dettare l’agenda dai partiti tradizionali della sinistra o dai sindacati. Nella misura in cui nessuno ha garantita la ricetta per pensare e contrastare adeguatamente il capitale è ovvio che rispetto al problema della centralità di questa lotta tutti i gruppi e i partiti, inclusi quelli della sinistra, si trovano sullo stesso piano e nessuno può rivendicare un ruolo di “avanguardia”. Ma è certo che tale ruolo spetta oggettivamente a chi tale contraddizione riuscirà a pensare in modo adeguato, pensandola nella sua specificità, senza disinnescarne la radicalità, annacquandola in senso moralistico. E dunque a chi di fatto contribuirà ad articolare e organizzare la lotta a livello posto dal capitale. Ed è altrettanto chiaro che tutte le posizioni pseudo-radicali che chiedono di abbandonare uno dei piani di organizzazione della lotta al capitale rinunciando a qualsiasi posizionamento tattico e strategico condannandolo astrattamente come “tradimento” di una non meglio identificata causa di “liberazione” contribuiscono in realtà al successo del capitale stesso e il loro “anticapitalismo” andrebbe considerato alla stregua di ciò che è: una mera formula verbale.

Come va pensata a livello teorico dunque l’opposizione tra personale e politico? La soluzione sta nel riattivare la dialettica tra quei poli che è stata manomessa dalla critica alla forma organizzativa tradizionale della militanza e dei suoi terreni istituzionali di lotta. Questo implica ripensare le categorie del personale e del politico dentro quella dinamica positiva di universalizzazione e astrazione innescata dalla modernità, di cui il capitalismo è una fase ma che non si esaurisce nell’orizzonte stesso del modo di produzione capitalistico. Ciò può a prima vista sembrare un tentativo di sottrarre all’individuo il suo raggio d’azione in favore dei processi oggettivi e tornare a concezioni vetuste della militanza impersonale e burocratica: ma questo accade solo perché, come abbiamo visto, la concezione del politico e del personale cui ci si appoggia è astratta, astorica e mistificata.

Dire che si è caricata la sfera dell’individuo e delle relazioni personali di un peso trasformativo eccessivo non significa negare totalmente che qualcosa di fondamentale qui accada. Ma dare il giusto peso a questo livello significa anche riconoscere la dialettica che il capitale vi introduce. È lo sviluppo capitalistico che produce infatti la ricchezza materiale, tecnologica e simbolica (culturale) di cui oggi l’individuo dispone,seppure sempre in forma ineguale e contraddittoria. È infatti ancora il processo di accumulazione che relega questo stesso individuo nell’impotenza e nell’atomizzazione. In un caso come nell’altro, senza una focalizzazione sul modo di funzionamento specifico del capitale, ci sfuggirà anche la potenzialità reale, nonché il limite e la parzialità che la sfera dell’individuo può giocare nei processi di trasformazione sociale.

Al contempo si tratta di restituire alla militanza il carico di ciò che è “politico” in senso non-personale come forma di mediazione oggettiva delle relazioni sociali. L’incapacità di discutere nel merito, di affrontare questioni teoriche e pratiche al di fuori dell’emotività momentanea, di gestire la dialettica delle idee senza lasciarla degenerare in psicodramma è un tratto caratteristico della militanza di movimento che difficilmente potrà essere contestata. Ma questa incapacità di spostare il baricentro del pensiero e dell’azione su un piano oggettivo, non è una forma di compensazione delle storture della militanza burocratica, bensì un ulteriore esempio di quella mistica del soggetto vitalistico che ha in sospetto ogni forma di “irrigidimento” del pensiero e dell’azione. Il soggetto, piuttosto, trova se stesso nell’aprirsi verso l’Altro, laddove questo termine non indica solo e tanto l’altra soggettività, quanto proprio la dimensione del non-soggettivo, ciò che il vitalismo anarchizzante immagina essere la sfera della reificazione, della morta oggettività. Quando il personale è posto come sfera dell’autenticità, magari anche della relazione intersoggettiva come correttivo degli egoismi e degli egocentrismi, ciò che viene posto in relazione è ancora e sempre una soggettività idealistica, chiusa nel culto di un umanismo fatto di “io” e “tu”, di “prossimità”, di “sincerità”. Ciò che viene comunque escluso è che il senso del pensiero e dell’azione individuale possa compiersi in qualcosa che trascenda il soggetto e la relazione tra soggetti, possa essere non l’espressione di un vissuto, bensì la costruzione di un comune che sussista anche al di fuori di quel vissuto. Ed è a questo livello che la comunità, laddove viene evocata, può lavorare nel senso dell’universalità e non del particolarismo. Perché proprio la comunità è il luogo per antonomasia dell’incontro accogliente di un’alterità che mi precede e mi fonda e rispetto alla quale non avrebbe senso porre la questione dell’alienazione del “puro” essere se stessi, così come della reificazione di un rapporto tra non-identici che si vorrebbe però pregiudizialmente “fluido”.

Il blocco alla trasformazione socialista è il comando del capitale sul lavoro. È rispetto a questo blocco che devono collocarsi le soggettività oppresse (di genere, razza, orientamento sessuale, specie ecc.), non per occluderne la percezione in un nebuolsa di identità dominanti/dominate, ma per farlo risaltare nella sua diversità. La gerarchia che regola i rapporti di produzione capitalistici, infatti, è specifica perché strutturale, cioè aliena da ogni elemento soggettivo. Il capitale funziona a partire dalla logica automatica della propria autovalorizzazione. Esso “assorbe” le soggettività per sublimarle nel suo meccanico dispiegamento, agendo come un processo acefalo, “senza soggetto” avrebbe detto Althusser. Ecco perché qui, a livello delle relazioni produttive capitalistiche, l’elemento culturale “discriminatorio” è derivato (anche laddove contribuisce a sostenerlo: ad es. nella sintesi tra oppressione salariale e discriminazione in base all’etnia o al genere) e non è essenziale alla sua costituzione in quanto rapporto di subordinazione capitalistico, dunque neanche alla sua dissoluzione. Il capitale può sempre riorganizzarsi quando il riconoscimento di un diritto gli sottrae la possibilità di sfruttare ulteriormente o più intensamente la forza lavoro. In questo ambito la prassi sociale volta alla lotta contro le “discriminazioni” deve riconoscere la propria impotenza o, meglio, la propria non pertinenza. Non solo l’imprenditore non ha nessun bisogno di “disprezzare” i propri operai per sfruttarli, ma perfino l’imprenditore “buono” che desidera il loro bene non può fare nulla, rimanendo imprenditore, per sottrarli allo sfruttamento35.

E tuttavia, ecco il punto decisivo, perché la trasformazione socialista dei rapporti di produzione possa essere autenticamente democratica è necessario tenere in conto la partecipazione effettiva di tutte le soggettività oppresse dal capitale anche al di fuori di quelle relazioni produttive. Proprio perché qui è la società nel suo complesso che si auto-organizza per la prima volta nella storia e trova solo nella razionalità socialmente condivisa il proprio metro di giudizio, è essenziale a tale progetto emancipativo anche l’emancipazione definitiva di tutti i soggetti che possono aspirare ad avere un ruolo nella costruzione della volontà comune che deve sorregge l’autorganizzazione della produzione e la soddisfazione generale dei bisogni. Nessuna liberazione del desiderio può instaurarsi senza abolire il comando sul lavoro che essa, per conto suo, non può abolire. Dal canto suo, se la lotta socialista vuole realmente puntare ad una riorganizzazione della produzione su base paritaria, partecipata e democratica, deve fare propria la lotta contro le forme di discriminazione che precedono o eccedono i rapporti di produzione capitalistici. Non solo un generico “rispetto” per l’altro, ma la partecipazione attiva e reale di “minoranze” e soggettività oppresse è perciò consustanziale al progetto socialista (certo senza che nessuna possa far valere una volontà di egemonizzare le altre). La lotta socialista, da questo punto di vista, assume la forma di un asse attorno a cui ruota il problema del soggetto e dei suoi rapporti con l’alterità, non è una super-soggettività che “ingloba” le altre.

 

12. La classe va abolita, non decostruita

Tutto ciò non cambia laddove il soggetto viene messo in questione nella sua identità rigida magari per aprirlo alla fluidità di genere, all’alterità non-umana o all’utopia post-human. Se la identity politics viene contestata muovendosi sullo stesso terreno accademico e iper-teoreticista (che in realtà, come abbiamo visto, è ipo-teoretico), se cioè all’identità si contrappone un rifiuto dell’identità, l’orizzonte della politica identitaria non viene realmente trasceso. Quando ad es. alcune teorizzazioni queer lottano per un’abolizione del dualismo di genere polemizzando contro il femminismo di seconda generazione si tocca con mano come quel meccanismo identitario e moralistico finisca per affettare perfino le lotte che fanno della critica all’identità il proprio fulcro: si fa della non-identità un feticcio e si condanna moralisticamente chi non “sente” la necessità di farsi attraversare dalla differenza36. La sacrosanta lotta contro la violenza e l’esclusione delle trans, infatti, non implica affatto l’accettazione in toto della prospettiva queer da parte delle femministe, meno che mai quando si pretende cancellare in nome della lotta alla discriminazione la soggettività femminile, le sue forme organizzative e i suoi obiettivi storici di lotta. Certi passaggi di Preciado sono un perfetto esempio di moralismo rivoluzionario, cripto-identitario e astratto: “io credo che la politica sia uno spazio di invenzione collettiva e che se vogliamo trasformare le relazioni di potere basate su etnia, genere e sesso, dobbiamo immaginare un altro insieme di relazioni e dobbiamo desiderare il cambiamento. Non possiamo realizzare un cambiamento sociale che non desideriamo, ma la maggior parte delle persone non lo desidera veramente perché vuole mantenere i propri privilegi sociali e politici”37. Termini come “potere” e “privilegio” vengono sganciati da qualsiasi contestualizzazione materiale, storica e ridotti a etichette vuote. Un’afro-americana, non importa se sfruttata fino allo sfinimento, sarà comunque considerata “privilegiata” nel suo ruolo “cis” rispetto alla repubblicana trans Caitlyn Jenner. Altrettanto sconvolgente è la tendenza delle comunità queer a sottovalutare l’impatto devastante del capitalismo sulla riproduzione femminile quando si parla di GPA, ulteriore segno di come l’iper-teoreticismo nella definizione dei rapporti di potere possa finire per occultare completamente le dinamiche del potere reale. Il “cambiamento sociale” auspicato, non meno vuoto del “privilegio” che denuncia, viene invocato a partire da un supposto desiderio di “cambiare tutto”, con la inevitabile colpevolizzazione di chi non desidera abbastanza o desidera, povero lui, in modo (s)corretto. E non importa se l’ingiunzione a desiderare altrimenti proviene da chi, alla fin fine, non si interessa granché della tua condizione economica: “ma noi non piangeremo per la fine dello Stato-sociale – perché lo Stato-sociale era anche l’ospedale psichiatrico, il centro d’inserimento per handicappati, il carcere, la scuola patriarcale-coloniale-eterocentrata. La nostra insurrezione è la pace, l’affetto totale”38. Lo “stato sociale” è, ovviamente, anche altro: ma per la rivoluzione dell’affetto questo altro passa sempre troppo frettolosamente in secondo piano.

Qui emerge il problema filosofico di cui abbiamo accennato e che pur essendo eredità della stagione post-moderna, sopravvive purtroppo all’esaurimento di quella moda accademica nel pensiero diffuso di molta sinistra di movimento e non: l’idea che l’anti-essenzialismo e l’anti-universalismo siano delle conquiste filosofiche che vadano senz’altro in direzione di una liberazione ulteriore rispetto alla modernità illuministica. In questa esaltazione della singolarità atomistica e della soggettività fluida, si registra quella fobia dell’alienazione e della reificazione che abbiamo visto essere tutt’altro che neutra e ingenua39.

Ora, è del tutto ovvio che l’anti-essenzialismo in natura sia pienamente giustificato e rappresenti una conquista progressiva della scienza moderna da Galileo a Darwin. Che la filosofia debba fare i conti con questo, con l’assenza di un’ontologia che possa giustificarne aprioristicamente gli asserti, è un dato di fatto. Non è ovviamente questa la sede per discutere di quale tipo di ontologia possa, ammesso che possa, corrispondere a questo stato di fatto e dunque entrare nei dibattiti sul neorealismo filosofico, il materialismo speculativo ecc. Qui basterà sottolineare come l’insuffiencenza dell’essenzialismo “naturale”, non dica nulla su come si debbano trattare i problemi di essenza nel mondo sociale. È ovvio che laddove l’essenzialismo naturale veniva a sovrapporsi all’essenzialismo “culturale” (dal pensiero di Aristotele giù giù fino a Kant e oltre) l’opera di attacco a questo tipo di essenzialismo culturale è meritorio. Tuttavia, predicare un anti-essenzialismo di principio nella cultura è assurdo. Applicato con rigore da Marx alla “naturalizzazione” dei fenomeni sociali esso viene oggi esteso a qualsiasi pretesa di leggere la rigidezza essenzialista delle forme sociali. Ma questo significa impedirsi di comprendere fenomeni come il modo di produzione capitalistico che hanno invece un’essenza che non deriva dal nostro modo di “tassonomizzarli” bensì dalla loro logica interna di sviluppo. La confusione tra ciò che è stabile perché prodotto di una precisa legge sociale che si vuole abolire e ciò che è stabile perché prodotto di una “fissazione” della mente è oggi molto diffusa. Ed è conseguenza, da un lato, dell’ideologia liberal che ha preso piede all’epoca del trionfo del post-moderno in ambito accademico40, dall’altro, dello spontaneo idealismo di chi rimane fissato a quella che non a caso Marx chiamava la superficie “fenomenica” dei processi sociali. Il problema fondamentale qui è che negarsi il pensiero dell’essenza di tali processi, dunque considerare una certa forma sociale la semplice conseguenza di un pensiero essenzialistico, significa che non si cercherà nella modificazione di quell’essenza un cambiamento dell’apparenza fenomenica, bensì si vedrà quest’ultima come qualcosa che può essere modificata a piacimento dalla volontà o dal desiderio degli attori sociali. Ora, il rapporto tra lavoro e capitale ha la forma stabile e la logica necessaria di una relazione d’essenza rispetto alla quale i rapporti sociali che dipendono da questa sfera rappresentano altrettante modificazioni fenomeniche. Ed è chiaro, come abbiamo più volte detto, che non tutti i rapporti sociali cambiano integralmente quando si cambia quell’essenza (dunque la fine del capitalismo non garantisce nessuna liberazione rispetto ad altri rapporti di oppressione), ma è chiaro che tutti si relazionano al modo specifico di essere del capitale e che questa relazione (il modo cioè in cui il capitale modifica i rapporti di genere o di specie, le relazioni comunitarie, i processi decisionali, la cultura, ecc.) per la parte che riguarda il capitale, ammesso che sia possibile scorporarla dal resto, rimane legata alla sua essenza specifica la cui rigidezza non può essere ricondotta ad una volontà di “tassonomizzare” il molteplice.

È per questo che non si può pensare di “decostruire” la classe, come si pretende o si è preteso di decostruire il genere, la razza e la specie. Le distinzioni di classe vanno abolite realmente, non “ripensate”. In questo contesto va quindi posta anche una ricalibrazione del problema dell’essenza rispetto alle questioni di genere e di specie. La lotta contro l’oppressione di genere e lo sfruttamento della natura non-umana trova infatti nelle teorizzazioni anti-identitarie queer e antispeciste una punta avanzata. Si tratta però spesso di concezioni che vedono proprio nella “tassonomizzazione” un problema di oppressione. Dunque la violenza di sistema sarebbe rivolta anzitutto alla costruzione di “polarità”, di “schemi binari” (maschio/femmina, umano/non-umano) attorno a cui sarebbero costrette ad organizzarsi le differenze potenzialmente infinite, le singolarità irriducibili di cui sarebbe “in realtà” fatta l’esistenza. È altamente dubbio che questa ontologia sia coerente ed efficace come pretende. Ma abbiamo già detto che non ci interessa porre la questione in questi termini. Il problema per noi è ancora e sempre teorico e politico perché attiene al modo in cui quei rapporti sociali interagiscono con rapporti produttivi di tipo capitalistico. L’operazione politica decisiva potrebbe essere la “decostruzione” del genere e della specie, forse, se quelle categorie non fossero a loro volta iscritte in quella dinamica produttiva. Nel momento in cui invece lo sono, diventa illusorio pensare di poter cambiare aspetti che attengono alla parvenza fenomenica del processo sociale lasciando inalterata l’essenza. Ciò potrebbe essere vero solo se si pensasse che tale essenza coincida con l’eteropartiarcato o con lo specismo. Ma in tal modo occorrerebbe che l’eteropatriarcato e lo specismo fossero a loro volta in grado di spiegare i rapporti capitalistici, visto che, in questa prospettiva, li produrrebbero. E ciò, semplicemente, non è vero. I rapporti specificatamente capitalistici scompaiono così dall’orizzonte o vengono ridotti a tassonomizzazioni “binarie”, generici rapporti di “discriminazione” fondati su un’altrettanto generica “gerarchia”. È molto probabile invece che quella derivazione del capitale dai rapporti di genere e di specie non riesca proprio perché il capitale è piuttosto la potenza asessuata e anumana che investe col suo potere disponente i rapporti sociali e li riorganizza in base alle proprie necessità. Ciò avviene perché esso realizza il collante, di per sé non soggettivo, attorno a cui le soggettività si incontrano. Ripensare quel collante come qualcosa che investe le soggettività e ne libera il potenziale è, come abbiamo visto, il compito politico dell’anticapitalismo, rispetto al quale ogni pretesa di partire dal desiderio atomistico o da un astratto universalismo rappresenta un passo indietro reale e/o un’immaginaria fuga in avanti.

La decostruzione di genere e specie è sì necessaria perché un progetto socialista possa mettere in discussione l’organizzazione gerarchica della società. Ma il fine dell’azione di liberazione da tale rigidità delle essenze naturali non coincide affatto con l’abolizione di ogni essenza o forma sociale, bensì con la realizzazione di un comune che permetta l’invenzione e la moltiplicazione delle differenze stesse. Si tratta di rendere possibile un ordine sociale in cui queste differenze si liberino e si organizzino al di fuori dalle relazioni di sfruttamento. Questa trasformazione è certo qualcosa che si può tentare di anticipare fin da ora nei rapporti personali ma, per quanto siamo venuti dicendo, non potrà esserlo in modo completo poiché sarà sempre costretto ad essere vissuto a livello di stili di vita privati o di relazioni intersoggettive e di gruppo particolari. Non a caso l’aspetto autenticamente societario di tali relazioni, in cui è cruciale pensare una specifica modalità di organizzazione del lavoro e dunque il superamento oggettivo delle relazioni capitalistiche, non compare mai: le teorie decostruttive passano tragicamente sotto silenzio questo problema. Le potenzialità di questa trasformazione e invenzione delle differenze è invece a sua volta racchiusa nella costruzione di una socializzazione cooperativa che non è possibile anticipare neanche nel più futuristico delirio cyber, per tacere dei rassicuranti sogni primitivisti e anti-tecnologici. La “durezza” del fatto sociale, per dirla con Durkheim, obbliga anche l’immaginazione a tenere il passo della trasformazione reale delle relazioni di potere. E finché la relazione di potere del capitale non verrà affrontata e battuta sul suo terreno, anche il più sfrenato sogno di reinvenzione della vita è destinato al brusco risveglio che gli riserva la spietata realtà.



 Note
1 Al punto che Marx non parla di “capitalismo” bensì di “modo di produzione capitalistico”.
2 Michele Dal Lago, Marxismo e antispecismo. Un incontro possibile ma non inevitabile, in “Animal studies” 6/2014, pp. 37 e sgg.
3 M. Maurizi, Al di là della natura. Gli animali, il capitale e la libertà, Novalogos, Aprilia 2011.
4 Per una critica del moralismo identitario animalista e vegano cfr. M. Maurizi, Cos’è l’antispecismo politico, Per Animalia Veritas, Roma 2012; Id., Le parole e le cozze. Sogni, deliri e speranze del movimento animalista, Lulu 2012; Id., La filosofia dei cani. Animalismo o antispecismo?, Lulu, 2015.
5 Benché la burla abbia anche il suo risvolto tragico. Ho visto anarchici ignorare con un’alzata di spalle la cancellazione dei diritti sindacali dei lavoratori perché “il sindacato è una struttura di potere”, ecologisti non solidarizzare con i metalmeccanici perché “in un mondo liberato le automobili non dovrebbero esistere”, antispecisti considerare i bambini che crepano sotto le bombe degli “assassini” al pari dei criminali che li bombardano ecc. ecc.
6 M. Maurizi, Antispecismo e individualismo metodologico, in “Animal Studies. Rivista italiana di antispecismo”, n. 6, Economie della natura, a cura di M. G. Devetag, 2014.
7 Una concezione idraulica del fatto sociale, erede di una Lebensphilosophie, di una filosofia della vita, che scorre strisciante in parecchia storia del pensiero novecentesco. Cfr. M. Maurizi, L'io sospeso. L'immaginario tra psicoanalisi e sociologia, Jaca Book, Milano 2012.
8 Th. W. Adorno, Dialettica negativa, Einaudi, Torino 2004, p. 171.
9 G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, Rusconi, Milano 1995, p. 185.
10 L. Gallino, Finanzcapitalismo, Einaudi, Torino 2011.
11 K. Marx - F. Engels, Manifesto del partito comunista, Editori Riuniti, Roma 1996, p. 9.
12 “Una volta cancellata la limitata forma borghese, che cosa è la ricchezza se non l’universalità dei bisogni, delle capacità, dei godimenti, delle forze produttive ecc. degli individui, creata nello scambio universale? Che cosa è se non il pieno sviluppo del dominio dell’uomo sulle forze della natura, sia su quelle della propria natura? Che cosa è se non l’estrinsecazione assoluta delle sue doti creative, senza altro presupposto che il precedente sviluppo storico, che rende fine a se stessa questa totalità dello sviluppo, cioè dello sviluppo di tutte le forze umane come tali, non misurate su di un metro già dato? Nella quale l’uomo non si riproduce in una dimensione determinata, ma produce la propria totalità? Dove non cerca di rimanere qualcosa di divenuto, ma è nel movimento assoluto del divenire? Nell’economia politica borghese [...] questa completa estrinsecazione della natura interna dell’uomo si presenta come un completo svuotamento, questa universale oggettivazione come alienazione totale, e la eliminazione di tutti gli scopi determinati unilaterali come sacrificio dello scopo autonomo a uno scopo completamente esterno. Perciò da un lato l’infantile mondo antico si presenta come qualcosa di più elevato; dall’altro esso lo è in tutto ciò in cui si cerca di ritrovare un’immagine compiuta, una forma, e una delimitazione oggettiva. Esso è soddisfazione da un punto di vista limitato; mentre il mondo moderno lascia insoddisfatti, o, dove esso appare soddisfatto di se stesso, è volgare”. K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica (1857-58), La Nuova Italia, Firenze 1997, vol. I, pp. 112-113.
13 M. Maurizi, Per la critica dello stalinismo, in ERRE, n. 14 e sulla rivista Liberazioni .
14 Cfr. il tentativo di interpretazione della New Left in senso marxiano da parte di Marcuse e le sue relative critiche: H. Marcuse, La fine dell'utopia, Laterza, Bari 1968; Id., Saggio sulla liberazione, Einaudi, Torino 1969; Id., Controrivoluzione e rivolta, A. Mondadori, Milano 1973. Per una considerazione a posteriori dell’esperienza della New Left cfr. l’intervista del 1976 con Ivo Frenzel e Willy Hochkeppel.
15 Passata la spinta propulsiva del ‘68 l’ala “creativa” del movimento giunse progressivamente a trovare una stabilità economica da classe media e una facile integrazione nell’establishment (ad es. nel mondo della pubblicità, della comunicazione politica ecc.). Cfr. L. Boltanski - È. Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis, Milano 2014.
16 In genere, gli antispecisti e vegani sono i più interessati a che questa scansione venga riconosciuta come valida, per poter poi inserire la discriminazione di specie come ultimo tassello a suggello dell’intera serie. D’altronde, lo stesso Singer metteva le mani avanti scrivendo che il titolo della sua opera più fortunata - Animal Liberation - poteva sembrare “una parodia di altri movimenti di liberazione”. P. Singer, Liberazione animale, Saggiatore, Milano 2003, p. 17.
17 È il caso del femminismo di seconda generazione, che tentava appunto di saldare la prospettiva di genere con rivendicazioni tipiche della lotta operaia. Diverso è il caso dell’ecologia che sorge a partire da differenti matrici ideologiche: una borghese (il Club di Roma), un’altra anarchica (dall’eredità di Kropotkin all’ecologia sociale di M. Bookchin) e una marxista (i Verdi tedeschi, ad es., furono vicini all’opera del filosofo H. Marcuse). Perfino le tematiche lgbtq, che non potevano che essere politicamente trasversali, trovarono nuovo slancio negli anni ‘60 e furono spesso vicine alle organizzazioni politiche radicali (anche per via della pesante eredità conformista e eterosessista dei partiti e dei sindacati della sinistra tradizionale). Ancora differente è il caso dell’ultimo arrivato, il movimento di liberazione animale, che ha radici più composite: una borghese-protezionista, una anarchico-liberazionista, e una più intellettuale e filosofico-morale, nata dalla svolta accademica di Peter Singer e Tom Regan tra la metà degli anni ‘70 e i primi anni ‘80 e che fornì il terreno teorico più diffuso e ancora oggi dominante.
18 Per una visione non unilaterale del rapporto Marx-Foucault cfr. Richard Marsden, The nature of capital: Marx after Foucault, Routledge, London 1999.
19 Cfr. J. Derrida, Spettri di Marx. Stato del debito, lavoro del lutto e nuova Internazionale, Cortina, Milano 1994. Cfr. anche J. Derrida (et al.), Marx & Sons. Politica, spettralità, decostruzione, Mimesis, Milano 2008, in particolar modo il contributo di F. Jameson, La lettera rubata di Marx, pp. 33 e sgg.
20 Cristian Loiacono, Incroci pericolosi: femminismo critica post-coloniale, critica omosessuale, Atti del convegno: In teoria & pratica: laboratorio queer intorno al Manifesto di Beatriz Preciado, p. 76.
21 Il ricorso alla categoria di “dominio” nei teorici dell’intersezionalità non deve essere confuso con la nozione francofortese di Herrschaft. Pur essendo di derivazione hegeliana, anzi probabilmente proprio grazie a ciò, la nozione francofortese di “dominio” ha un significato filosofico molto più specifico e meno astrattamente descrittivo della sua controparte liberal. In particolare in Adorno esso allude alla complessa dialettica dei rapporti tra Ragione e Natura. Cfr. M. Maurizi, Al di là della natura, cit., e Id., Chimere e passaggi. Cinque attraversamenti del pensiero di Adorno, Mimesis, Milano 2015.
22 K. Marx, Lineamenti, cit., p. 83.
23 Ibid., p. 73.
24 Ibid., pp. 95-96.
25 “La produzione capitalistica partorisce dal suo seno, con la necessità di un processo della natura, la propria negazione. È la negazione della negazione. Essa ristabilisce non la proprietà privata, ma al contrario la proprietà individuale basata sulla conquista dell’età del capitale, sulla cooperazione e sul possesso collettivo del suolo e dei mezzi di produzione prodotti dal lavoro stesso”. K. Marx, Il Capitale, Newton & Compton, Roma 1996, p. 548.
26 John Holloway, Cambiare il mondo senza prendere il potere, Napoli, Carta-IntraMoenia, 2004, pp. 42.
27 Ibid., pp. 43.
28 Nonostante Holloway affermi che “il fare è intrinsecamente sociale”, il suo essere-sociale è associato all’immagine del “flusso”, dell’“intreccio”, del “coro”. Ibid., pp. 40-41.
29 Ibid., p. 106.
30 Ibid.
31 Ibid., p. 118.
32 Dunque anche in ciò che quella totalità lascia sussistere al suo “esterno”: il capitale ha strutturalmente bisogno, come insegnava la Luxemburg, di un “fuori” da aggredire, colonizzare, integrare nella sua dinamica autovalorizzatrice; lo Stato esiste in rapporto - non sempre e solo dialettico - con il suo “altro”, sia il diritto statuale altrui che il diritto statuale esterno, quello delle istituzioni transnazionali ecc.
33 John Holloway, Cambiare il mondo, cit., pp. 246-247.
34 M. Maurizi, Rosa Luxemburg: l'auto-costruzione di una democrazia rivoluzionaria
35 Già Marx, non a caso, ammoniva nel Capitale a non scambiare le caratteristiche personali dell’individuo che occupa il posto di capitalista e proprietario terriero con queste medesime funzioni sociali. K. Marx, Il capitale, cit., p. 43.
36 Non è forse un caso che molte teorizzazioni queer prendano a prestito il pensiero di J. Butler la cui la nozione di “performatività” mi sembra in buona parte sovrapponibile alle sociologie anarco-vitalistiche qui criticate (o, perlomeno, non mi sembra offrire ad esse la necessaria resistenza). Non solo è qui sempre la “ripetizione” di atti singolari a produrre le strutture sociali, ma perfino il “potere nella sua persistenza” non esiste di per sé bensì è, di fatto, “un agire ripetuto”. J. Butler, Corpi che contano, Feltrinelli, Milano 1996, p. 169. Cfr. anche la critica di Nancy Fraser alla confusione concettuale prodotta dalla sovrapposizione tra eterosessismo e sfruttamento capitalistico in N. Fraser, Fortune del femminismo Dal capitalismo regolato dallo Stato alla crisi neoliberista, Ombre corte, Verona 2014, pp.
37 Intervista a Beatriz Preciado, El Espectador, 6 febbraio 2014, tr. it. in www.abbattoimuri.wordpress.com
38 Beatriz Preciado, Noi diciamo rivoluzione
39 Un modo banale di attaccare a questa concezione è quello tipico di Fusaro che identifica ogni concetto post-moderno con l’ideologia “neo-liberista” passando per l’identificazione tra atomizzazione sociale e nominalismo filosofico, per cui la “fluidificazione” delle identità e la dissoluzione delle essenze stabili sarebbe sempre e solo al servizio della riorganizzazione del capitale (salvo poi cadere anche lui nel vitalismo quanto contrappone a ogni pie’ sospinto la “reificazione capitalistica” ad una presunta intensità delle comunità e delle relazioni premoderne). In questo modo, ovviamente, non esiste alternativa tra Unione Europea e Sovranismo Nazionale o tra Preciado e Adinolfi. Il punto decisivo è invece proprio tentare di articolare quell’opposizione tra essenzialismo e anti-essenzialismo riguadagnando il punto di vista di Marx che, lo ribadiamo, non è un punto di vista ontologico bensì storico e dialettico, volto alla decifrazione delle dinamiche strutturali della società moderna.
40 Non va ovviamente sottovalutata l’influenza delle riletture di Nietzsche degli anni ‘60-’70. Cfr. J. Rehmann, I nietzschiani di sinistra. Foucault, Deleuze e il postmodernismo: una decostruzione, Odradek, Roma 2009. 
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