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Il rovescio della libertà

Tramonto del neoliberalismo e disagio della civiltà

Massimo De Carolis

scott moore bailout artNella storiografia economica si è diffuso da tempo il vezzo di designare i tre decenni successivi alla seconda guerra mondiale con l’espressione les trente glorieuses: una formula coniata in origine per il miracolo francese del secondo Dopoguerra, che col tempo è stata progressivamente estesa all’intero mondo occidentale. Per chi sia abituato a privilegiare, nella storia, la dimensione strettamente politica, l’attribuzione disinvolta di un titolo così onorifico può forse destare qualche perplessità, pensando alle tensioni generate in quegli anni dalla guerra fredda, dalla minaccia nucleare o dall’asprezza dei conflitti ideologici e sociali. Se ci si concentra però sui soli parametri economici, è difficile negare che l’economia di mercato abbia messo a segno, in quei decenni, un risultato a dir poco straordinario. La crescita è stata consistente e ininterrotta, il tenore di vita della stragrande maggioranza della popolazione occidentale è considerevolmente migliorato e le disuguaglianze sociali si sono ridotte in modo significativo.

Al confronto, la fase storica successiva offre, a uno sguardo retrospettivo, uno spettacolo decisamente meno incoraggiante. Quelli che si succedono, a partire dagli anni Ottanta, sono anni senza gloria, afflitti da crisi continue, da effimeri entusiasmi e grandi delusioni, destinati a sfociare in una crisi di lunga durata e nella drastica esplosione delle disuguaglianze. Per di più, in questo caso, il bilancio negativo non sembra affatto limitabile alla sola sfera dell’economia. Nell’insieme, anzi, il disagio sociale si è talmente accentuato e diffuso da aver reso plausibile l’immagine di un’epoca «delle passioni tristi». E, come se non bastasse, negli anni più recenti la proliferazione dei conflitti e la loro crescente intensità, sullo scacchiere globale, stanno riportando alla memoria il monito severo di Carl Schmitt su una possibile «guerra civile mondiale».

L’inversione di tendenza, insomma, è impressionante. Ed è resa anche più evidente dal fatto che, a suo tempo, il passaggio da una fase all’altra non si sia consumato in modo indolore e graduale ma sia stato accompagnato, quasi ovunque, da una frattura brusca: una trasformazione drastica dei rapporti sociali e politici destinata, in pochi anni, a culminare nell’implosione dell’Unione Sovietica e nella rapida conversione di molti paesi dell’Est europeo all’economia di mercato. Certo, crea qualche imbarazzo l’allusione a un legame diretto tra lo scenario preoccupante della crisi attuale e una catena di eventi che all’epoca, almeno in Europa, aveva suscitato a buon diritto aspettative molto più ottimistiche. Eppure, per chiunque abbia seguito con partecipazione, giorno dopo giorno, l’evoluzione sociale e politica degli ultimi decenni, la vaga percezione di un filo logico unitario, sotteso da un capo all’altro della parabola, ha per molti aspetti la forza persuasiva dell’esperienza vissuta, per quanto possa risultare tuttora difficile tradurla in una visione chiara e coerente della storia.

La ricerca condotta in questo libro nasce in fondo proprio da una simile difficoltà. È mossa, in altre parole, dal desiderio di misurarsi senza pregiudizi con i nostri anni «ingloriosi», per provare a ricostruirne la logica interna e per mettere a fuoco, nei limiti del possibile, i motivi che ne hanno dettato la parabola, imponendo un bilancio che, almeno a prima vista, appare oggi tanto allarmante. L’intenzione di fondo, in parole povere, è sforzarsi di capire cosa stia succedendo, per ubbidire all’impegno elementare cui si è votata tutta la filosofia moderna: quello di provare a essere, prima di ogni altra cosa, «il proprio tempo appreso con il pensiero».

Non bisogna aspettarsi, però, un qualche elenco di fatti concreti, corredato eventualmente da grafici, tabelle e calcoli statistici. Non è in questione, insomma, una ricostruzione storiografica di tipo tradizionale, che del resto sarebbe difficilmente concepibile per un’epoca ancora in corso d’opera e, in ogni caso, esigerebbe ben altro genere di competenze. Quello a cui il libro vorrebbe offrire un contributo è un confronto speculativo con l’attualità recente, che si sforzi, anche in misura minima, di farne balenare il senso. E un progetto di questa natura non può in nessun caso risolversi in un’elencazione dei fatti, per almeno due buoni motivi. Il primo è che, per distillarne il senso, i fatti vanno comunque ordinati, selezionati e inscritti in uno schema concettuale. Occorre insomma una chiave di lettura, che solo fino a un certo punto può essere ricavata dall’osservazione empirica. La seconda difficoltà, più sottile, è che non c’è modo, in pratica, di tematizzare il senso di un’epoca storica determinata, senza vedersi prima o poi costretti a ripensarne i presupposti, ad ampliare la prospettiva e a rimettere così in questione il senso della storia in generale. Un simile cortocircuito tra la dimensione contingente e quella generale, nell’esperienza storica, è noto da sempre. Un tempo lo si esprimeva ricordando che ogni epoca, a suo modo, «è in rapporto immediato con Dio». Nel caso specifico, però, della nostra epoca, il cortocircuito in questione è a sua volta parte integrante della storia e occupa, fin da principio, un posto di primo piano sulla scena.

All’inizio degli anni Ottanta, in effetti, la svolta effettivamente percepibile, almeno in Occidente, non sembrava toccare che la dimensione relativamente superficiale delle ideologie e delle narrazioni dominanti. Nessuno dei veri e propri pilastri strutturali della società moderna ne risultava realmente compromesso: non l’economia monetaria, né il monopolio statale della violenza legittima, né tanto meno l’organizzazione scientifica delle conoscenze. Eppure, negli stessi anni, divenne moneta corrente, nel dibattito teorico, l’idea che a essere seriamente in pericolo fosse l’intera civiltà moderna, nel suo insieme e nelle sue stesse fondamenta. Si accese così una polemica tra chi annunciava l’avvento di una società postmoderna e chi riteneva invece necessaria una difesa a oltranza dei principi e delle forme di organizzazione tipiche della modernità. Si trattò, per molti aspetti, di una discussione caotica, di cui è difficile fissare con precisione i termini e che non ha prodotto, a quanto pare, un risultato univoco. Fu anche però – ed è bene ricordarlo – l’ultimo esempio di un dibattito prettamente «filosofico» capace di coinvolgere e di polarizzare l’interesse di tutte le componenti più vive della società globale. Ed ebbe il merito di segnalare fin da principio la radicalità della svolta in atto, lasciando presagire le incertezze e i rischi che sarebbero puntualmente emersi nei decenni successivi.

All’epoca, al netto della polemica, gli alfieri delle due fazioni condividevano comunque il presupposto che la crisi della modernità fosse in corso già da tempo, e che i suoi primi sintomi andassero retrodatati quanto meno fino agli ultimi decenni del diciannovesimo secolo. Del resto, sotto il profilo strettamente politico, Carl Schmitt aveva individuato da tempo nella Conferenza sul Congo del 1890 l’ultimo atto significativo del diritto pubblico europeo, dal quale già trapelavano le crepe profonde che, col tempo, avrebbero condotto l’ordine globale al suo inevitabile crollo. Indagando, ora, la storia delle idee, moderni e postmoderni finivano per giungere a una datazione analoga, fissando di comune accordo nelle opere di Nietzsche il punto di svolta a partire dal quale la crisi della civiltà moderna diventa, per la grande cultura europea nel suo complesso, il tema basilare e ineludibile.

Illuminata da una luce interpretativa tanto intensa, la brusca frattura che, negli anni Ottanta, stava trasformando gli equilibri politici globali entrava così in una specie di segreta risonanza con una svolta epocale annunciata già un secolo prima e finiva per assumere, logicamente, un significato che andava di gran lunga al di là delle contingenze politiche immediate. Anche lasciando da parte gli eccessi pittoreschi di chi annunciava l’avvenuta fine della storia, la tendenza generale fu quella di riconoscere, nei processi in corso, una risposta alla crisi secolare della modernità, forse persino l’inizio del suo compimento, in ogni caso la soglia a partire dalla quale il disfacimento della civiltà moderna tracimava definitivamente al di fuori della sfera simbolica, delle rappresentazioni e dei concetti, per investire direttamente le forme di organizzazione sociale e, con esse, la vita collettiva nel suo insieme.

Può essere considerata, credo, una parziale ma significativa conferma di una simile visione delle cose il fatto che, in quegli anni, gli attori politici più direttamente coinvolti nella svolta in corso, quasi senza eccezioni, adottassero come modello ideologico un complesso di teorie che era, in effetti, tutt’altro che nuovo; che era in ombra, anzi, da quasi mezzo secolo e occupava, con scarso clamore, uno spazio relativamente marginale nelle istituzioni economiche e politiche; e che era stato elaborato, in origine, proprio con l’ambizione esplicita di offrire una risposta alla crisi della civiltà moderna nel suo insieme. Con tutta probabilità, fu Alexander Rüstow il primo a usare il termine neoliberalismo per designare l’orientamento teorico e politico in questione, con l’intento di marcare nettamente le distanze rispetto al liberalismo tradizionale, di cui già negli anni Trenta sembrava ragionevole constatare l’acclarato fallimento.

Nella letteratura a carattere divulgativo, il neoliberalismo è associato di norma all’azione di leader politici molto recenti, come Ronald Reagan e Margaret Thatcher o, tutt’al più, alla coorte di esperti che ne affiancò l’opera in campo economico, a cominciare da Milton Friedman e dagli altri esponenti della scuola di Chicago. Con l’unica, importante eccezione degli studi direttamente influenzati dall’insegnamento di Michel Foucault, l’origine remota delle teorie neoliberali, negli anni compresi tra le due guerre mondiali, è di solito ignorata o liquidata come un dettaglio scarsamente rilevante, benché la filiazione diretta da una generazione all’altra del neoliberalismo sia del tutto fuori discussione. È chiaro che ricostruzioni simili restano inevitabilmente parziali. Eppure, non si tratta di una banale trascuratezza, ma di un’omissione che ha i suoi buoni motivi.

A partire dagli anni Ottanta, infatti, il termine «neoliberalismo» ha finito col designare, a torto o a ragione, non solo il progetto politico egemone, in quegli anni, a livello globale. Ci si è abituati, con lo stesso termine, a indicare anche la catena di trasformazioni oggettive che l’attuazione del progetto andava via via innescando, a profondità sempre maggiori, nel tessuto istituzionale, nell’apparato produttivo e nella rete di relazioni comunicative che definiscono la società civile. Trasformazioni eterogenee, ma profondamente connesse tra loro e accomunate, in ogni caso, da un tratto del tutto evidente anche alla superficie: la centralità crescente dei parametri economici e dei meccanismi di mercato in ogni segmento significativo della vita sociale. Non si è trattato, dunque, di semplici teorie, ma di processi reali che hanno inciso profondamente, nel bene e nel male, sulla vita di milioni di persone e che, all’apice del loro successo, si sono spinti a far balenare persino il disegno di un «nuovo ordine globale».

Se confrontiamo, ora, la potenza impressionante di questi processi sociali di portata planetaria con le difficili condizioni storiche in cui ha preso forma, in origine, il nucleo fondativo del neoliberalismo, la differenza non potrebbe risultare più stridente. Non solo, in questo caso, abbiamo appunto a che fare con pure e semplici teorie, spesso talmente generali da sembrare difficilmente applicabili a una finalità pratica precisa. Per di più, almeno nella fase fondativa, si trattò di teorie maturate in condizioni di sostanziale marginalità, senza legami diretti con l’autorità politica e senza alcuna prospettiva, quindi, di poter incidere immediatamente a livello politico e sociale.

Non intendo, ora, enfatizzare oltre misura la condizione marginale e vagamente «eroica» dei neoliberali negli anni che, in Europa, erano dominati dallo spettro del totalitarismo. È il caso, anzi, di sottolineare che i maggiori esponenti della scuola non persero in effetti mai di vista il legame diretto con l’azione di governo, né prima del periodo bellico né, soprattutto, dopo, quando molti di loro arrivarono a ricoprire incarichi di primo piano, a diretto contatto con i maggiori artefici della ricostruzione in ambito economico. Il fatto, però, che le discussioni più incisive e gli spaccati teorici più radicali si siano consolidati proprio nella parentesi intermedia – la più drammatica e, allo stesso tempo, la più vuota di efficacia pratica – potrebbe avere avuto un peso non indifferente su quella che, dall’esterno, appare come una genesi in due tempi, separati da un relativo periodo di latenza. È a causa di questa frattura interna, ad esempio, che gli studi sul neoliberalismo esclusivamente interessati a ricostruire i processi globali degli ultimi decenni tendono, in fondo comprensibilmente, ad accantonare un prologo così remoto e così astratto. Ed è, viceversa, proprio in virtù di questa doppia genesi che la parabola del neoliberalismo, nel suo insieme, si presta a fornire la chiave ideale per un confronto speculativo con l’attualità recente, come quello che ci ripromettiamo in questa sede.

Come vedremo più in dettaglio nella prima parte della ricerca, è difficile in effetti pensare che le teorie neoliberali debbano il loro tardivo successo alla fortuna, all’efficacia della propaganda o al semplice favore delle classi dominanti. Se, delle tante impostazioni teoriche maturate nel corso del Novecento, proprio questa ha fornito il paradigma in base al quale, a conclusione della guerra fredda, la società globale si è trovata a ridefinire la propria identità, è quanto meno logico supporre che una tale impostazione sia riuscita, di più e meglio dei suoi concorrenti, a intercettare il corso degli eventi. Per essere più chiari, è lecito supporre che il neoliberalismo abbia offerto una risposta a un qualche problema profondo, di cui evidentemente non si riusciva a venire a capo in altro modo.

Se è così, è chiaro che un confronto adeguato col neoliberalismo dipenderà sostanzialmente dalla possibilità di circoscrivere con precisione il «problema» in questione, ed è proprio su questo che la sfasatura tra la prima e la seconda fase può offrire un contributo decisivo. Nella fase «operativa», inaugurata alla fine degli anni Settanta, la scena in realtà è regolarmente occupata, di volta in volta, dalle urgenze pratiche e dalle continue emergenze attraverso le quali si snoda la progressiva «neoliberalizzazione» della società. La teoria, tendenzialmente, si riduce a un arsenale tecnico, avvolto in un involucro propagandistico spesso talmente grossolano da non fornire quasi nessun indizio sul senso profondo dei processi in atto. L’impressione, anzi, è che la dimensione profonda, di anno in anno, sia avvertita sempre più come un fastidio, rimossa perciò come un ostacolo e infine sottratta alla vista non solo del pubblico, ma degli stessi attori coinvolti nel dramma.

Per ovviare a questa specie di autoaccecamento, può essere quindi decisivo chiamare in soccorso le teorie elaborate nella prima fase, in una bolla di relativo distacco dall’azione ma sotto la sferza di una catastrofe epocale ancora in corso. In questa fase, come ho già ricordato, il neoliberalismo cresce in diretto confronto con la crisi della modernità, che era all’epoca il tema dominante cui l’intera cultura europea si sentiva chiamata a reagire. Le teorie, perciò, sviluppano un respiro antropologico: si sforzano di spingere le proprie radici fino al nucleo basilare dell’azione umana e di indagare addirittura la costituzione dell’ordine cosmico, su cui poggia ogni possibile consesso civile. Cercherò di dimostrare, nelle prossime pagine, che questa dimensione antropologica del neoliberalismo è tutto fuorché un’appendice ideologica di scarso valore. È, al contrario, il solo terreno su cui possa situarsi un confronto davvero intenzionato a capire cosa stia succedendo nei nostri anni senza gloria: anni il cui marchio più evidente, come si sarà capito, è proprio la rapida ascesa del neoliberalismo, seguita a ruota dal suo attuale, irreparabile tramonto.

Solo su questo terreno è davvero possibile avvicinarsi al problema cui il neoliberalismo ha offerto una risposta: l’unica risposta, come si vedrà, che sia stata in grado di tradursi, all’atto pratico, in un congegno di governo vero e proprio, deciso a far emergere e a sfruttare le potenzialità positive dei grandi processi sociali che, da almeno un secolo, stavano erodendo le fondamenta dell’ordine civile moderno. Dovrebbe venire alla luce, così, anche quella che è stata, con tutta probabilità, la vera carta vincente del neoliberalismo: la chiave del suo potere di fascinazione, prima ancora che del suo successo politico. È l’evidente propensione a cogliere la virtuale valenza positiva degli stessi processi che i filosofi europei tendevano in quegli anni a registrare sotto rubriche come «nichilismo» o «alienazione», accentuandone così (spesso loro malgrado) la valenza più cupa e minacciosa. Il significato della «crisi», in questo modo, ne veniva capovolto o, se vogliamo, ricondotto al suo calco originario: quello di un bivio, un’alternativa, una sfida carica di incognite e di rischi, ma anche ricca di opportunità creative.

Va detto che, negli anni senza gloria, questa attitudine si è spesso atrofizzata nell’ideologia imprenditoriale più corriva, nel mito della creatività di cui si fregia un sistema di mercato sempre più dominato, in realtà, da mastodontici e ottusi agglomerati di potere. Nelle sue versioni nobili, però, lo spirito neoliberale di fatto ha contrastato con efficacia un limite uguale e contrario, di cui la letteratura sulla crisi offre fin troppi esempi: la tendenza a fissare lo sguardo quasi esclusivamente sulla scena del disfacimento dell’ordine moderno, rischiando così di trascurare i possibili segni di un ordine civile alternativo, latente forse fin da principio nella modernità, e che, sotto la spinta delle trasformazioni sociali più recenti, potrebbe essere divenuto ormai definitivamente incontenibile .

Mettendo a confronto, insomma, le teorie maturate negli anni fondativi, in diretta risposta alla crisi generale della modernità, e i processi reali innescati a partire dagli anni Ottanta su scala planetaria, cercheremo di portare alla luce la dimensione più profonda del neoliberalismo, ignorata per lo più tanto dai critici quanto dagli apologeti. Il che ovviamente non vuol dire affatto volerne nascondere i limiti o minimizzare il fallimento. È vero invece l’esatto contrario. La tesi che emergerà dalle prossime pagine, infatti, è che a spingere, ai nostri giorni, il neoliberalismo verso il suo inesorabile tramonto non siano le urgenze economiche o gli equilibri politici fluttuanti, ma principalmente la sua incapacità di riconoscere, capire e governare fino in fondo proprio la dimensione antropologica primaria che esso stesso ha contribuito a far emergere. La neoliberalizzazione della società, in altre parole, ha finito col generare un mondo che né le teorie, né i metodi di calcolo né le strategie politiche messe a punto dal neoliberalismo sono minimamente in grado di descrivere e capire. E non per un qualche difetto contingente, ma per un limite intrinseco, un vero e proprio «punto cieco» da cui il progetto neoliberale era segnato fin dal primo momento.

Lo scopo principale del confronto speculativo che tenteremo nelle prossime pagine è portare alla luce questo punto cieco, creando così le condizioni per una lettura alternativa della società presente, capace di muovere almeno qualche passo al di là del ristagno in cui sembra essere caduta, in questi anni, la riflessione teorica nel suo complesso. Quello che stiamo per ingaggiare, insomma, è un confronto radicalmente critico col modello di ordine civile che ha dominato gli ultimi trent’anni. Allo stesso tempo, cercheremo di evitare qualsiasi residuale nostalgia per una sedicente età «gloriosa», nella quale di fatto la crisi della civiltà moderna era già dilagante, tamponata a fatica e riconosciuta più nelle parole che nei fatti. Come in un film di genere che si rispetti, insomma, gli inglorious basterds non si trasformano affatto, alla fine, in eroi positivi. Proprio per questo hanno però qualcosa da insegnarci su noi stessi.

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