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Ciò che è vivo e ciò che è morto della scuola di Don Milani

di Mauro Piras

[Il 26 giugno 1967 moriva, a 44 anni, Don Lorenzo Milani. Dedico questo intervento agli studenti e ai colleghi della 5D Servizi Socio-sanitari dell’Istituto Professionale “Elsa Morante”, Firenze]

Don MilaniUna scuola che seleziona distrugge la cultura.
Ai poveri toglie il mezzo d’espressione.
Ai ricchi toglie la conoscenza delle cose.
(Lettera a una professoressa)

Si parla fin troppo di Don Milani, quest’anno. Tutto è iniziato con un paio di articoli molto polemici. Uno di Lorenzo Tomasin sul Sole24ore, che denuncia nella Lettera a una professoressa una cultura del risentimento e dell’odio di classe (qui). Un altro di Paola Mastrocola, che da diverso tempo, periodicamente, accusa il “donmilanismo” di essere il male della scuola italiana, l’inizio di una decadenza che avrebbe portato all’abbandono dello studio serio “delle nozioni”, dell’italiano e della letteratura, a favore di attività di “intrattenimento” vaghe e inutili (qui). Sono seguiti diversi interventi di segno contrario che hanno, a volte con tono un po’ agiografico, difeso l’idea di scuola di Don Milani, o hanno ricostruito con più attenzione il contesto storico (Vanessa Roghi) o il senso del progetto pedagogico (Italo Fiorin); oppure, ultimamente, hanno cercato di pesare meglio i pro e i contro (Franco Lorenzoni). Fino alla visita del Papa a Barbiana, il 20 giugno scorso. Che fa un po’ l’effetto del volume dei “Meridiani” dedicato a Don Milani: una consacrazione postuma quasi eccessiva, troppo istituzionale, troppo incravattata, per una persona che ha rifiutato di netto la sua appartenenza alla borghesia colta (“Ci ho messo ventidue anni per uscire dalla classe sociale che scrive e legge L’Espresso e Il Mondo. Non devo farmene ricatturare neanche per un giorno solo. Devono snobbarmi, dire che sono ingenuo e demagogo, non onorarmi come uno di loro”, Don Milani, Lettera all’avvocato difensore, 20 ottobre 1965) per umiliarsi, nascondersi, occuparsi di catechismo e acquedotti, insegnare ai figli dei contadini.

In tutti questi interventi, però, quasi nessuno guarda in dettaglio all’idea di scuola che emerge dalla Lettera a una professoressa, pubblicata poco prima della sua morte, nel maggio del 1967, e concepita anch’essa con lo stesso spirito inconciliabile, quasi intrattabile, con cui Don Milani ha intrapreso la sua opera “per gli altri”, senza concessioni per i “piani alti della società”. In quel progetto di scuola ci sono cose attuali, giuste (alcune sono proprio quelle contro cui si scaglia la Mastrocola), altre inaccettabili per la nostra cultura moderna, altre semplicemente legate a un contesto passato, e che quindi non ci interessano direttamente per migliorare la scuola di oggi.

 

1. Statistiche. “Persi alla scuola” e “persi alla classe”

La Lettera a una professoressa è un libro pieno di statistiche. Don Milani amava i numeri, le statistiche riempiono anche il suo primo libro, Esperienze pastorali. Quelle della Lettera riguardano un tema che abbiamo imparato a conoscere: la dispersione scolastica. I dati dell’Istat vengono sintetizzati prendendo a modello una classe che entra in prima elementare nel 1957-58 e seguendone le vicende fino alla conclusione dell’obbligo. Viene fatto quindi una sorta di studio longitudinale. In questo modo Don Milani mostra non solo quanti studenti perde la scuola, ma anche quanti ne perde la classe.

Si ipotizza, all’inizio, una classe di 32 alunni. Alla fine della prima elementare 6 sono bocciati (18,8 %), cioè “persi alla classe”. Di questi, 4 ripetono la prima e 2 lasciano la scuola (“persi alla scuola”: 6,3 %). Alla fine delle elementari, 4 bocciati del gruppo originario hanno lasciato la scuola (12,5 %), mentre altri 13 bocciati ripetono altre classi. Totale: 17 “persi alla classe” (53,1 %), intesa come gruppo originario “dato in consegna” alla maestra. La classe iniziale di 32 è ridotta a 15. Il dato più importante però è quello generale: se si prende tutto il percorso, comprendendo anche gli studenti bocciati provenienti da altre classi, su un totale di 48 alunni che sono passati per la classe i “persi alla scuola” sono 11 (23 %), e i ripetenti sono 18. In totale quindi i “persi alla classe” sono 29 (61 %).

Riformulando: sui cinque anni delle elementari, la dispersione scolastica (i “persi alla scuola”) è del 23 %, mentre la “dispersione della classe” (i “persi alla classe”, quelli che non arrivano in fondo al percorso regolarmente) è del 61 %.

Alle medie l’ecatombe continua, anzi aumenta. Alla fine dell’obbligo (terza media) su un totale di 56 ragazzi che in complesso sono passati per la classe, questa ne ha persi 40 (72 %). Di quei 40, 16 (28,6 % sul totale di 56) sono andati a lavorare prima di aver compiuto l’obbligo; 24 ripetono.

Riformulando: la dispersione scolastica alla fine dell’obbligo è del 28,6 %; la dispersione della classe è del 72%.

“In terza media ci sono solo 11 dei 32 ragazzi che la maestra ha avuto in consegna in prima elementare” (p. 58; da qui in avanti, tutti i rimandi senza altre indicazioni sono a: Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, Libreria Editrice Fiorentina, 1967, ristampa 2017).

Sono cifre impressionanti, che dipingono una scuola molto diversa dalla nostra. Noi sappiamo infatti che oggi la dispersione scolastica nella primaria e nella secondaria di primo grado è quasi inesistente. Quindi il problema riguarda, come è noto, la fine del secondo ciclo: quanti cioè non hanno conseguito una formazione nella secondaria di secondo grado. In questi termini, sappiamo che nel 2015 la dispersione scolastica in Italia era del 14,7 %, calcolata con il metodo degli early leaving from education and training (ELET): la percentuale di persone tra i 18 e i 24 anni che non hanno un diploma di scuola secondaria di secondo grado, né una qualifica professionale almeno triennale. Un dato superiore alla media UE, ma molto meno grave di quel 28,6 % all’uscita della scuola media di cinquant’anni fa. Da questo punto di vista, quindi, c’è una grande differenza tra la scuola della Lettera e la scuola di oggi: quest’ultima è molto più inclusiva.

Le cose però non sono così semplici. Il calcolo degli ELET è il metodo più ristretto per contare i “persi alla scuola”. Se invece procediamo come la Lettera, i dati sono diversi e ben più gravi. Se prendiamo cioè il totale degli ingressi nella scuola secondaria di secondo grado, facendolo uguale a cento, e vediamo poi il totale degli iscritti o dei diplomati al quinto anno, facciamo una sorta di calcolo dei “persi alla classe” come fa Don Milani. Vediamo cioè, tra tutti quelli che sono passati nel sistema scolastico nei cinque anni del corso regolare, quanti ne abbiamo persi perché non siamo riusciti a portarli al quinto anno o al diploma nei tempi giusti. Questo è il metodo seguito da Daniele Checchi, nei suoi studi sulla dispersione scolastica, e dai dossier sul tema prodotti regolarmente da Tuttoscuola.

Checchi, in un articolo del 2014 (“Tante scuole diverse: troppo diverse?”, in il Mulino 6/2014, pp. 955-962), prende in esame gli iscritti alle superiori nel 2005 e i diplomati del 2010: la percentuale di dispersi è del 27,4% (nel 2010 la dispersione calcolata come ELET era del 18,8%). Tuttoscuola, nel dossier sulla dispersione del 2014 (Dispersione nella scuola superiore statale, giugno 2014, scaricabile dal sito www.tuttoscuola.com), prende come ultimo anno di riferimento gli iscritti al 2013-14 e calcola la differenza rispetto agli iscritti nel 2009-10: la percentuale di dispersi è del 27,9% (nel 2013 la dispersione calcolata come ELET era del 17%, nel 2014 del 15 %). Sempre Tuttoscuola (qui: http://www.tuttoscuola.com/dispersione-scolastica-serve-unanalisi-completa-degli-abbandoni/) calcola che quest’anno la differenza tra gli iscritti al primo anno nel 2012-13 e gli iscritti al quinto anno nel 2016-17 è del 25,3% (la dispersione ELET nel 2015, ultimo dato disponibile, è del 14,7 %; ).

Come si vede da questi dati, i “persi alla classe” sono molti di più dei dispersi secondo il calcolo ufficiale (i “persi alla scuola”): questa differenza si spiega con i ripetenti, con i trasferiti nelle scuole paritarie o private, con gli iscritti alla formazione professionale e con quanti ottengono il diploma più tardi, grazie all’istruzione per adulti. Se però il problema è quello di tenere gli studenti a scuola, per dare loro una formazione completa, e per non discriminarli socialmente; e se il problema è dare una formazione qualificata, di alto livello, che non li metta in posizione subordinata nel mercato del lavoro, il dato di cui dobbiamo tenere conto è proprio quello dei “persi alla classe”. È questo infatti che ci mostra il fallimento del nostro sistema scolastico e formativo che, con le bocciature, continua a lasciare indietro “i cretini e gli svogliati”, come diceva Don Milani, perché ritenuti non adatti a studiare.

Questo fallimento appare in modo impietoso se si guarda al tasso di dispersione “alla classe” alla fine del biennio delle superiori, cioè alla fine dell’obbligo scolastico. È questo il dato da confrontare con i numeri della Lettera, che si concentrava appunto sull’obbligo. Oggi questo non è a 14 anni, ma 16, alla fine del biennio delle superiori. Tuttoscuola, nel dossier del 2014, ha calcolato la differenza tra gli iscritti al primo anno e gli iscritti al terzo anno: nel 2013-14 la differenza rispetto agli iscritti nel 2011-12 è del 14,8 %. Cioè più della metà dei dispersi sull’intero quinquennio (27,9%, come abbiamo visto sopra). La nostra scuola non è così inclusiva come appare: seleziona ancora in modo consistente, e lo fa soprattutto nel periodo dell’obbligo scolastico, nel periodo cioè in cui dovrebbe portare tutti fin in fondo.

Inoltre, come la scuola di cinquant’anni fa, per quanto in modo meno evidente, colpisce ancora e soprattutto nei ceti sociali più deboli. Sempre secondo il dossier di Tuttoscuola, la dispersione negli Istituti professionali nel 2013-14, calcolata con il solito metodo, è del 38 % alla fine del quinquennio. Ora, noi sappiamo che negli istituti, e soprattutto nei professionali, si concentrano i figli dei genitori con i titoli di studio più bassi (licenza elementare o media) e delle classi sociali più deboli (http://www.almadiploma.it/info/pdf/convegno2016/02_Rappresentazioni-grafiche-AD2016.pdf). Nella scuola di cinquant’anni fa la stragrande maggioranza dei bocciati e dei dispersi erano figli di contadini e operai, come mostra la Lettera. Anche se il quadro è più complesso, la tendenza generale non cambia: la maggioranza dei bocciati e dei dispersi si concentra negli istituti, soprattutto professionali, e quindi nelle classi sociali più deboli.

 

2. La scuola selettiva

Come è fatta la scuola selettiva di cui parla Don Milani?

È una scuola che offre poco ai suoi allievi. Prima di tutto, in termini di tempo: “ma siete ben miseri educatori voi che offrite 185 giorni di vacanza contro 180 di scuola” (p. 66). Le ore che i ragazzi passano in classe sono poche, rispetto a quelle che passano a casa, cioè al lavoro o comunque lontano dai libri e dallo studio. La scuola chiusa il pomeriggio e nei giorni festivi è per i ricchi, che vivono nella cultura quotidianamente. È una scuola in cui gli insegnati danno poco. La Lettera si scaglia con toni durissimi contro l’orario degli insegnanti, troppo ridotto: “[…] il vostro orario è indecente. Un operaio lavora 2150 ore l’anno. I vostri colleghi impiegati statali 1630. Voi da un massimo di 738 (maestri) a un minimo di 468 (professori di matematica e lingua straniera)” (p. 88).

Questo (poco) tempo, poi, viene sprecato in attività che non sono vero insegnamento: “Attualmente lavorate 210 giorni di cui 30 sciupati negli esami e un’altra trentina nei compiti in classe. Restano 150 giorni di scuola. Metà dell’ora la sciupate a interrogare e fa 75 giorni di scuola contro 135 di processo” (p. 127). Ciò che prevale, in questa scuola, è proprio l’aspetto del processo: interrogazioni, verifiche, esami, sorveglianza (pp. 127-131). In questo contesto, gli studenti si rassegnano ad annoiarsi, a non interessarsi a quello che studiano; tutto è finalizzato invece al voto, all’interrogazione; durante le spiegazioni si studiano le materie in cui si verrà interrogati nelle ore successive. Non si ha voglia di approfondire, ci si limita a sottolineare le parti più importanti del manuale (o addirittura ci si riduce ai Bignami; p. 132).

Questa scuola si irrigidisce su contenuti spesso troppo lontani dalla vita pratica, e comunque molto lontani dalla cultura delle classi popolari: l’ossessione della grammatica nell’apprendimento dell’italiano e delle lingue straniere, invece di insegnare veramente a parlare e scrivere, in entrambi i casi; l’obbligo, spesso, di imparare un italiano letterario morto, lontanissimo dalla lingua moderna, viva; il culto esagerato dell’antichità, della storia antica, dei poemi classici, appresi poi in traduzioni ormai illeggibili (Monti, Annibal Caro; pp. 28, 130). Insomma, una “cultura” che si concepisce come patrimonio di una classe sociale autoreferenziale e che sembra fatta apposta per escludere chi non vi appartiene. L’ossessione per questi programmi impedisce di occuparsi dell’attualità, della storia viva, contemporanea, e della Costituzione, che di fatto non viene mai studiata; non si risponde mai alle curiosità dei ragazzi, che non hanno il diritto di intervenire e di dire la propria (pp. 27, 129).

Ma soprattutto è una scuola selettiva nell’intenzione, che fin dalle elementari distingue gli studenti in tre categorie: i capaci, i cretini e gli svogliati. Solo i primi meritano di passare, sulla base dei risultati; i secondi non sono all’altezza, non ce la fanno, sono troppo lenti, e quindi vengono bocciati, devono ripetere perché possano finalmente imparare; e i terzi, gli svogliati, sono considerati dei semidelinquenti, con loro non si può fare nulla, bisogna levarseli di torno al più presto. Peccato che i secondi, i “cretini”, vengano inchiodati alla ripetizione inutile degli stessi contenuti, invecchiando tra i loro compagni, finché si stufano e se ne vanno. E i terzi, gli svogliati, i “delinquenti”, cercano al più presto di lasciare la scuola, restando analfabeti (pp. 16-20, 79-80).

È una scuola che seleziona appellandosi ai principi più alti: l’onore della scuola, il bene stesso dei ragazzi, la giustizia. Si guardano i risultati, e non il contesto d’origine dei ragazzi. Così vengono eliminati sistematicamente i figli dei contadini e degli operai, molto più di quelli della media o grande borghesia. E questo avviene, come abbiamo visto, in primo luogo nella scuola dell’obbligo. Dopo, i ragazzi sono già selezionati.

Quanto è distante la nostra scuola da questo quadro? In prima battuta, molto. La nostra è una scuola che, nelle intenzioni esplicite e nella parte predominante delle sue pratiche, vuole essere inclusiva. Il tasso di bocciature è molto più basso (per quanto non irrilevante, come vedremo più avanti), e l’atteggiamento generale dei docenti e di tutta l’istituzione non è di escludere, ma di comprendere e includere: si fa di tutto per capire le condizioni di provenienza degli studenti (fino alla formalizzazione di questa attitudine con la definizione dei BES, “bisogni educativi speciali”) e per evitare di colpire duramente proprio i più deboli. Da qui vengono le accuse di “lassismo” (Galli della Loggia), che alcuni interpretano proprio come l’eredità negativa che ci avrebbe lasciato Don Milani (Mastrocola).

Tuttavia, alcune delle cose denunciata da Don Milani e dai suoi allievi suonano stranamente familiari.

Il problema del tempo. Da quando ha adottato il tempo pieno, la scuola italiana ha abbandonato quella divisione del tempo condannata da Don Milani, e ha esteso le opportunità di tutti. Tuttavia, il tempo pieno è distribuito in modo molto diseguale. In primo luogo, ormai è presente solo nella scuola primaria, mentre ci sarebbe da chiedersi quanto potrebbe essere utile anche nella secondaria di primo grado, almeno. Inoltre, anche nella primaria è diffuso al nord e al centro, ma molto di meno, a volte quasi assente, al sud e nelle isole. Questo crea grandi disparità nelle opportunità formative, e lascia la scuola in molte regioni quasi nelle condizioni descritte da Don Milani.

Poi c’è il problema di come viene utilizzato questo tempo: il quadro descritto da Don Milani sembra ancora quello di molte scuole secondarie, di primo o di secondo grado. Un tempo scandito, in modo irregolare e differenziato per discipline, e quindi irrazionale, da interrogazioni e verifiche; e in cui un ruolo importante è quello della “sorveglianza”. Un tempo quindi che induce a un rapporto docenti-alunni fondato sulla sfiducia: lo studente viene sempre valutato e controllato, perché non ci si fida di lui (“se non sono sotto pressione non studiano”, “se non li controlli copiano”, “se non li interroghi continuamente non imparano niente”, “se non li sorvegli commettono delle scorrettezze” ecc.). Reciprocamente, lo studente assume un atteggiamento rigorosamente strumentale: punta solo a ottenere buoni voti (o i voti che gli servono), studia in funzione delle verifiche, a scuola si annoia, accetta come ovvia la superficiale schematicità di molte cose che deve imparare più o meno a memoria. Al di là degli sforzi di molti docenti per rendere più attiva la partecipazione degli studenti, tutti noi riconosciamo in questi tratti il sistema dominante nella scuola secondaria, soprattutto di secondo grado. Il meccanismo spiegazione-verifica, centrato sui “programmi da svolgere” nelle singole discipline, crea questo sistema, che nella struttura di fondo resta invariato da cinquant’anni a questa parte. E l’imperativo del programma espelle fuori dalla scuola, ora come allora, una formazione seria sull’attualità, sulla vita sociale contemporanea (l’educazione civica), sulla Costituzione e i diritti.

Su quest’ultimo punto la somiglianza è impressionante: “Un’altra materia che non fate […] è educazione civica. Qualche professore si difende dicendo che la insegna sottintesa dentro le altre materie. Se fosse vero sarebbe troppo bello” (p. 123). Questa è la fotografia esatta della materia “Cittadinanza e Costituzione” oggi, che è prevista esplicitamente negli ordinamenti, in tutti i gradi di scuola, a partire dalla riforma Gelmini (2009-2010), ma che di fatto non si fa, perché è affidata “a tutti i docenti”: non viene previsto un docente che faccia esplicitamente questa materia, non c’è un monte ore definito, e non ci sono valutazioni obbligatorie su questa materia, quindi non viene svolta, perché il professore di storia o quello di italiano, a cui di fatto viene chiesto di farla, devono finire il programma di storia o di italiano, e quindi non fanno la Costituzione per non restare indietro: alla fine dell’anno, in scrutinio, nel registro elettronico non c’è la colonnina dei voti di “Cittadinanza e Costituzione”, mentre c’è quella di “Storia” e di “Italiano”, quindi, nella logica implacabile del voto, è chiaro quali sono le priorità.

Insomma, alla fine la scuola condannata da Don Milani è, per certe strutture di fondo, ancora molto simile alla nostra. Questo deriva da un impianto di fondo che, in tutta la secondaria, di primo e secondo grado, risente ancora del predominio del modello liceale: dopo la primaria, in cui il metodo di lavoro è molto diverso, si passa all’improvviso a un sistema che è una fotocopia sbiadita del liceo: pluralità di discipline, ognuna delle quali procede per conto suo, metodo di lavoro in classe prevalentemente cattedratico, interrogazioni e verifiche, il programma da svolgere. E tutto questo anche in una fascia di età, quella tra gli undici e i quattordici anni, in cui si dovrebbero continuare a sviluppare le competenze fondamentali (parlare e scrivere in italiano, apprendere i fondamenti della matematica, delle scienze e della conoscenza storica), mentre ci si disperde in un quadro frammentato che impedisce la costituzione di questi fondamentali. E questo è ancora più grave se si tiene conto che ci si trova dentro l’obbligo fino a sedici anni, quando la frammentazione, con la differenziazione degli indirizzi, diventa ancora più grave.

E così si viene alla questione delle bocciature (da cui dipende, ovviamente, la dispersione scolastica). Nella primaria e nella secondaria di primo grado quasi non si boccia, ma il solo fatto che la bocciatura sia prevista in questi gradi di scuola, e non la si sia voluta abolire neanche con l’ultima riforma, mostra che qualcosa della scuola selettiva di cinquant’anni fa resiste ancora. Ma le cose si aggravano notevolmente se si guarda al primo biennio delle superiori. La vulgata dominante in molta opinione pubblica, soprattutto tra gli intellettuali, è che la scuola italiana promuova tutti. Questo perché all’esame di “maturità”, di cui si parla sempre molto quando arriva, vengono ammessi quasi tutti (96,3 % di ammessi quest’anno) e promossi sostanzialmente tutti. Questi dati però nascondono una situazione più complessa, più selettiva. Le bocciature ci sono, e colpiscono soprattutto gli ordini di scuola “non liceali”: istituti tecnici e professionali, e soprattutto il biennio delle superiori. Nel 2015 mentre nei licei i bocciati erano solo il 9 % del totale degli iscritti, nei tecnici erano il 13,3 %, e nei professionali il 17,4 % (http://www.tuttoscuola.com/secondarie-il-miur-pubblica-i-dati-degli-scrutini/). Se si incrociano questi dati con quelli sulla provenienza sociale degli studenti degli istituti, come sempre le bocciature colpiscono le fasce sociali più deboli. L’impressione che la scuola “bocci poco” deriva dal suo carattere selettivo: certi ragazzi vengono per definizione “scaricati” verso gli istituti, quindi la popolazione dei licei è impostata in modo tale da garantire bassi tassi di bocciature; negli istituti o si ritirano prima o vengono bocciati e ripetono. Quindi, per quanto con percentuali di bocciati più bassi, si ripetono gli scenari denunciati da Don Milani.

 

3. La scuola dell’eguaglianza

Come è fatta invece la scuola “giusta”, non selettiva, che propone la Lettera? Prima, bisogna chiarire da dove parlano Don Milani e i suoi studenti. Cioè da quale visione generale.

La scuola selettiva non è frutto del caso o di cattiva volontà, ma del dominio di una classe sociale (la borghesia) sulle classi lavoratrici (contadini e operai). È coerente con un sistema sociale in cui la borghesia, con la sua cultura, con i suoi titoli accademici, domina nell’università, in Parlamento, nei partiti. L’unico luogo in cui i lavoratori possono esprimersi sono i sindacati. La “mamma di Pierino”, colta, laureata, sposata con un laureato, entrambi figli della borghesia, “non è una belva”: quando iscrive suo figlio, Pierino, in prima elementare a cinque anni, in anticipo, sta semplicemente riproducendo la sua classe sociale. Se ha potuto studiare fino a 24 anni è perché ha sfruttato inconsapevolmente chi invece ha dovuto lavorare da subito: “Tutto il tempo che ora le avanza è un dono dei poveri o forse un furto dei signori. Perché non lo spartisce? […] sommando migliaia di piccoli egoismi come il suo si fa l’egoismo di una classe che vuole per sé la parte del leone. Una classe che non ha esitato a scatenare il fascismo, il razzismo, la guerra, la disoccupazione” (p. 74).

Di conseguenza gli insegnanti, quando difendono il loro modello di scuola e i loro diritti (anche sindacali), difendono, spesso inconsapevolmente, un sistema di dominio sociale: si mettono dalla parte dei ricchi contro i più poveri. Il conflitto tra insegnanti e genitori diventa un riflesso del conflitto di classe. Si pensi già alla prima frase della Lettera: “Questo libro non è scritto per gli insegnanti, ma per i genitori. È un invito a organizzarsi” (p. 5). Come si potrebbero controllare gli insegnanti che abusano del loro potere e bocciano senza pietà i ragazzi come Gianni e Sandro, figli di contadini, lenti o svogliati, mentre portano avanti con gloria Pierino, il figlio dei ricchi in anticipo di un anno? Ecco la risposta: “Un bel sindacato di babbi e mamme capace di ricordarvi che vi paghiamo noi e vi paghiamo per servirci, non per buttarci fuori” (p. 26). Il conflitto di classe, secondo lo schema della contrapposizione padroni-sindacati, è replicato fedelmente nella scuola.

Il dominio della cultura, in queste condizioni, è dominio di classe. La cultura “alta”, i contenuti della tradizione occidentale, la letteratura, la filosofia, la scienza, sono il patrimonio di un’élite autoreferenziale che ha letto gli stessi libri e “riconosce i suoi”. Per farne parte bisogna accettare questo sapere, spesso lontano dalla vita reale, sicuramente lontano dalla vita dei lavoratori (pp. 29, 105). Questa visione spiega alcuni tratti radicalmente antimoderni della Lettera. Il rifiuto dell’individualismo e del credo del “Libero Sviluppo della Personalità”, in primo luogo (p. 112). Il rifiuto di ogni forma di interesse egoistico, anche in vista della propria realizzazione personale o professionale (p. 96). Il rifiuto dell’amore per la cultura fine a se stessa: “[…] questa è la più brutta tentazione. Il sapere serve solo per darlo” (p. 110). Il disprezzo per la cultura umanistica, che serve a selezionare la classe dominante (p. 29) e a cui viene contrapposta l’unica verità del Vangelo (p. 120). E anche il rifiuto della cultura scientifica: “Neanche per la scienza non ti dar pensiero. Basteranno gli avari a coltivarla. Faranno anche le scoperte che servono per noi. […] Non dannarti l’anima per cose che andranno avanti anche da sé” (p. 97).

Questo rifiuto in blocco della cultura moderna, in quasi tutti i suoi principi portanti, si giustifica da due punti di vista: uno profondamente religioso, la fedeltà al Vangelo, e uno sociale, l’idea che quella cultura è frutto e espressione della classe dominante. Le due prospettive si saldano nell’assumere il punto di vista degli ultimi. E questo punto di vista spiega invece perché l’unico principio della modernità che si salva è l’eguaglianza: un’eguaglianza non solo morale (non è solo il messaggio cristiano che parla, qui), ma politica e sociale. La cultura che serve davvero, che deve essere insegnata a scuola, è quella che rende “sovrani”. Questa è la vera idea fondante della Lettera. La scuola giusta non è quella che forma individui autonomi o persone individualmente libere, né quella che garantisce le pari opportunità di carriera o i diritti soggettivi; la scuola giusta obbedisce a una sorta di imperativo rousseauiano: “Siamo sovrani. Non è più il tempo delle elemosine, ma delle scelte. Contro i classisti che siete voi, contro la fame, l’analfabetismo, il razzismo, le guerre coloniali” (p. 94).

Essere sovrani significa saper parlare, dominare lo strumento della comunicazione. È la parola che rende eguali, anche quando non si è eguali nella ricchezza: “Perché è solo la lingua che fa eguali. Eguale è chi sa esprimersi e intende l’espressione altrui. Che sia ricco o povero importa meno” (p. 96). “Quando il povero saprà dominare le parole […], la tirannia del farmacista, del comiziante e del fattore sarà spezzata” (Don Milani, Lettera a Ettore Bernabei, 28 marzo 1956). I Costituenti hanno sbagliato a pensare che la scuola serva a permettere ai “capaci e meritevoli” di “raggiungere i gradi più alti degli studi” (Cost., art. 34): “Tentiamo invece di educare i ragazzi a più ambizione. Diventare sovrani!” (96). La sfera dell’azione collettiva, politica, è il fine più alto a cui deve tendere la persona, perché solo in essa si realizza il fine più alto da realizzare per l’uomo, cioè il bene degli altri.

Questa visione generale fonda e spiega i caratteri della “scuola giusta” proposta da Don Milani e dalla Lettera.

È una scuola guidata da questa utopia: il “sogno di una lingua che possa essere letta da tutti, fatta di parole di ogni giorno” (p. 133). La disciplina più importante quindi è l’apprendimento, pratico, vivo, della lingua. Della lingua italiana (quella della vita reale, però, non quella della tradizione letteraria) e delle lingue straniere. Apprese senza soffermarsi troppo sulle regole di grammatica, che si possono assimilare in seguito, dopo la pratica. La disciplina che deve avere più spazio, e che invece non ne trova nella scuola selettiva, è “l’arte dello scrivere” (pp. 20-23, 124-127). Un’arte fondata su poche regole semplici: prendere appunti su quello che si vuole dire, riordinarli per argomenti, unificare, semplificare, creare dei paragrafi; si cercano le parole da levare (“aggettivi di troppo, ripetizioni, bugie, parole difficili, frasi troppo lunghe, due concetti in una frase sola”: p. 126), si sottopone il testo a un estraneo per renderlo chiaro. Un lavoro collettivo (pp. 126-127).

Rispetto alla centralità della lingua, le altre discipline hanno un ruolo secondario: le scienze, come abbiamo visto, non sono fondamentali; persino la matematica viene ridotta notevolmente, quanto basta per la vita pratica di una persona adulta. Della letteratura si parla quasi sempre male, certo in riferimento ai classici antichi letti in traduzioni incomprensibili o alla lingua morta dell’italiano letterario (ne fa le spese Foscolo), ma in ogni caso non è chiaro quale può essere il suo ruolo positivo, se non quello di facilitare l’apprendimento della lingua italiana, più che altro per contrasto (per evitare di diventare come i “vostri signorini esperti nel frigger aria e nel rifriggere luoghi comuni”: p. 21). Il latino, ovviamente, è uno strumento del dominio di classe, non solo alle medie, ma anche in quelle scuole superiori in cui non serve, come per esempio le magistrali (pp. 117-118).

Molta più importanza viene data alla storia, ma non quella degli antichi che ossessiona gli insegnanti, né, soprattutto, la sequela di re e potenti: “un raccontino provinciale e interessato fatto dal vincitore al contadino” (p. 123). La storia da fare è quella viva, vicina a noi (l’ultima guerra, la resistenza, le lotte dei lavoratori e dei popoli colonizzati), e soprattutto va fatta insieme all’attualità e all’educazione civica, rispondendo alle curiosità e alle richieste dei ragazzi, coinvolgendoli nella discussione. Una storia fatta per educare alla partecipazione politica. Per questo bisogna leggere il giornale, ogni giorno: “politica e cronaca cioè le sofferenze degli altri valgono più di voi e di noi stessi” (p. 27).

Il metodo di lavoro. La scuola di Barbiana è una scuola senza vacanze né ricreazione, in cui tutto il tempo è dedicato allo studio, all’insegnamento e all’apprendimento. Non ci sono cattedra né lavagna, ma solo grandi tavoli intorno a cui ci si riunisce per leggere e discutere. Non ci sono voti, né interrogazioni, né registro. I ragazzi studiano perché vengono coinvolti (chi pensa di copiare viene guardato con scherno); devono “fare delle cose”, cioè realizzare qualcosa a partire dal proprio studio. E tutti sono insegnanti, oltre che allievi: fin dall’inizio i più grandi insegnano ai più piccoli, e imparano così molto di più. Si riprende all’infinito il discorso, ciò che si fa fatica a imparare viene ripreso, ripetuto, rifatto, approfondito: “chi era senza basi, lento o svogliato si sentiva il preferito” (p. 12).

Questi tratti della “scuola egualitaria”, cioè della scuola di Barbiana, difficilmente possono essere riportati tutti in un intero sistema scolastico. Certo, però, due o tre cose che ci sembrano ovvie ci sono invece ancora lontane, nella pratica quotidiana: l’inutilità e il danno delle interrogazioni, per esempio (e anche sui voti ci sarebbe da ridire); il bisogno di far realizzare dei progetti ai ragazzi a partire dallo studio; e l’insegnamento tra pari, relegato solo a situazioni marginali. Anche la strutturazione degli spazi di apprendimento, senza cattedra, ma con grandi tavoli condivisi, va presa in considerazione.

Certo, riprendere all’infinito il discorso in parte l’abbiamo imparato, ma ossessionati dai programmi, e rassicurati, in un certo senso, dalla possibilità di escludere chi non ce la fa, forse non lo facciamo fino in fondo. Perché alla fine il punto fondamentale è sempre quello: le bocciature.

La parte più importante della proposta di Don Milani infatti è quella che rivolge all’intero sistema scolastico, non il modello, difficilmente imitabile, di Barbiana. E questa proposta è molto semplice, molto nota:

Perché il sogno dell’eguaglianza non resti un sogno vi proponiamo tre riforme.

I – Non bocciare

II – A quelli che sembrano cretini dargli la scuola a tempo pieno.

III – Agli svogliati basta dargli uno scopo (p. 80).

Dopo tutto quello che si è visto, il primo punto ormai si giustifica da sé. Ma ricordiamo ancora questo: “Se ognuno di voi sapesse che ha da portare innanzi a ogni costo tutti i ragazzi in tutte le materie, aguzzerebbe l’ingegno per farli funzionare” (p. 82). La bocciatura diventa un alibi per rinunciare a insistere nel riprendere e chiarire per i più deboli; il totem del programma da svolgere ci autorizzerà a sacrificare qualcuno. Invece, anche oggi, la sfida è portare tutti in fondo nella scuola dell’obbligo. È una sfida molto più alta, dal momento che l’obbligo è stato portato a sedici anni. Ma è qui che si gioca il carattere veramente inclusivo della nostra scuola. E solo su questo terreno si può contrastare veramente la dispersione scolastica: con una didattica che abbandoni quanto resta di un impianto da “processo penale” (p. 127) e con l’abolizione totale delle bocciature nella scuola dell’obbligo.

Sul secondo punto anche abbiamo detto: il tempo scuola va allungato, ancora. Il tempo pieno va esteso dove adesso non arriva. E anche nella secondaria le attività didattiche devono occupare più tempo. La stessa durata e scansione dell’anno scolastico andrebbe ripensata.

Quanto agli scopi dell’insegnamento, l’ultimo punto. Abbiamo visto che Don Milani ha una visione etica molto forte: l’unico fine onesto e grande della vita umana è “servire il prossimo”, con la politica, o con il sindacato, o con la scuola (p. 94). Altri fini – la realizzazione personale, la carriera, i diritti individuali ecc. – non sono contemplati. Questo però è il fine ultimo. Il fine immediato è “intendere gli altri e farsi intendere” (p. 94). Quindi, come abbiamo visto, apprendere l’italiano e le lingue. Nelle lingue entrano le parole delle discipline: “Essere dilettanti in tutto e specialisti solo nell’arte del parlare” (p. 95). Questo è lo scopo che dobbiamo dare agli svogliati.

Questa visione così alta e così unilaterale dei fini della propria formazione non può essere importata in un intero sistema scolastico di una società altamente differenziata e pluralista. Non è questo il terreno su cui Don Milani può essere seguito, a meno di proporre una forte eticizzazione dell’insegnamento, che dovrebbe mirare a formare solo coscienze morali altruiste, dedite al bene degli altri. La scuola deve comprendere in sé diversi fini: la formazione culturale della persona, la consapevolezza dei diritti di cittadinanza, lo sviluppo di una coscienza politica partecipativa, ma anche lo sviluppo di competenze che possano garantire una realizzazione professionale, una collocazione adeguata nel mondo del lavoro. La contrapposizione tra queste esigenze economiche e di equità sociale, da una parte, e le esigenze di sviluppo della persona e della coscienza civica, dall’altra, è un errore. Non si può pensare che lo sviluppo del lato più “etico” e “culturale” della persona basti poi a dargli la sua collocazione sociale dignitosa, perché questa dipende anche da competenze specifiche, che a un certo momento del processo formativo vanno sviluppate. Ecco perché è inaccettabile il rifiuto delle scienze e la riduzione della matematica, operate da Don Milani. Inoltre, anche lo sviluppo di una attitudine culturale per se stessa, cioè la ricerca della formazione culturale (in ogni ambito: non solo umanistico, ma anche scientifico) per il suo proprio valore, non può cadere sotto la tagliola del moralismo, come accade in Don Milani. Le ragioni sono tante, ma mi limito a questa famosa citazione da Wilhelm von Humboldt messa da John Stuart Mill a epigrafe del suo On Liberty: “Il più grande principio guida verso cui convergono tutte le argomentazioni presentate in queste pagine è l’importanza assoluta, fondamentale, dello sviluppo umano nella sua più ricca varietà”.

Resta la validità dell’intuizione: per motivare gli “svogliati” bisogna dargli un fine. La didattica non deve essere una rappresentazione (le lezioni del professore), più o meno noiosa, seguita da un processo (interrogazioni e verifiche). Deve essere un progetto di cui l’allievo stesso è responsabile: qualcosa che gli si chiede di fare, di portare in fondo, perché in qualche modo ci crede. E ci crederà se è qualcosa che muove i suoi interessi, e se fa parte di un suo progetto più generale di realizzazione personale. Quindi, nella scuola secondaria, il terreno su cui intervenire è quello della opzionalità del curriculum, che superi la rigida omogeneità di un percorso uguale per tutti.

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