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lostraniero

Anestetizzati

di Goffredo Fofi

In Italia, si ha da tempo l’impressione di un intero paese, di un’intera cultura anestetizzati. Dalle anestesie, si sa, ci si può risvegliare molto male – con la possibilità di trovarsi di fronte, per esempio, realtà nuove e terribili, come il “figlio di Iorio” di una rivista di Totò che si ridestava nella Roma dell’occupazione tedesca. Ma capita anche che non ci si risvegli affatto, precipitando direttamente nel nulla della morte o nelle nebbie di un coma profondo, irreversibile. Il “ritorno alla vita” è sempre traumatico, anche quando è quello di Lazzaro: se ci sarà, non sarà semplice e a scontarlo maggiormente saranno proprio gli ignavi che si sono lasciati addormentare (fuor di metafora: che si sono lasciati ammazzare la coscienza, cioè la capacità di ragionare sulla propria condizione, nel quadro dello stato del mondo ).

Ad anestetizzarci sono stati – e lo hanno fatto, bisogna dirlo, con molta abilità – giornalisti politici preti insegnanti intrattenitori (ce ne sono che vengono detti animatori, quando il loro lavoro è di disanimare, distraendo da ciò che conta), e nel caso dei giovani lo hanno semplicemente fatto gli adulti, e i mercanti e pubblicitari che stanno alle loro spalle. I mercanti, soprattutto. Mercanti di tutto, perfino del trascendente e del sacro. Le colpe variano, ma sono colpe e vanno chiamate con il loro nome. Si presume di solito che gli alienati abbiano meno colpe degli alienanti, ma anche questo si può ormai metterlo in discussione: non vediamo all’intorno innocenti, nel presente stato delle cose tutti hanno – tutti abbiamo – le nostre responsabilità.

Ci sono molti tipi di anestetizzati. Ci sono quelli – vecchi – che, venuti dalla povertà, hanno sposato tutti i modelli che vengono loro riservati dai diversi poteri, di una ricchezza raggiungibile solo nelle sue parodie e risibili scopiazzature; ci sono quelli – adulti – che semplicemente non hanno avuto altri orizzonti che le merci e hanno assistito, raramente vivendola direttamente, all’epoca delle ribellioni, e dalla loro sconfitta hanno introiettato un quotidiano cinismo, subendo la scomparsa di un’identità di classe che si riduceva via via alle rivendicazioni corporative e si assuefaceva, ora istericamente ora malinconicamente, alla crisi dello stato assistenziale; e ci sono quelli che – giovani e giovanissimi – sono cresciuti dentro un sistema di “pensiero unico”, dentro un’“unica proposta di vendita” che riserva ai suoi clienti-sudditi solo insignificanti e miserabili varianti.

Sono forse questi i più disastrati dei nostri connazionali, perché non hanno avuto e non hanno termini di paragone, non sanno che sono esistiti altri modi di essere e di affrontare la vita. Ma se si dovesse precisare quale categoria di anestetizzati ci sembra la più tipica di questi anni, ebbene, è quella trasversale che va oltre le distinzioni di età e di ceto e perfino di cultura, quella che riguarda noi stessi e i nostri immediati vicini, le aree politiche ed etiche cui pensiamo di appartenere. È qui che le cattive abitudini cresciute dal fallimento dei movimenti e delle speranze di rinnovamento, alla fine degli anni settanta e dentro gli ottanta, si sono radicate e ramificate e hanno compiuto il disastro. Erano gli anni in cui il terrorismo e il socialismo craxiano hanno creato una diffusa falsa coscienza (ma in moltissimi si trattava di mera ipocrisia e di mero cinismo) che ha allontanato chi credeva nell’intervento pulito nelle situazioni, e nella possibilità di una politica (di un movimento) che desse alla pluralità dei modi dell’intervento un senso collettivo. Né bastava ovviamente a produrre nuova morale la pelosa demagogia di questo e di quello, dai Fo ai Di Pietro ai Grillo non c’è altra abbondanza! I militanti di un tempo e gli insoddisfatti da loro sollecitati si sono trovati da un lato spossessati di questa possibilità dalla piccola borghesia stalinista del terrorismo, per quanto numericamente ristretta, e dall’altro dalla pacificazione amorale proposta da Craxi nel segno del denaro (e dai teorici del pensiero debole, della “fine della Storia”).

Si è reagito – credo i migliori – con il fenomeno breve del volontariato, dell’associazionismo e del terzo settore, ma a dar loro cemento non poteva bastare una morale cattolica con un super-io fiacchissimo, accomodante e accomodantissimo, nei confronti della realtà e del potere. Nel mentre che altre indicazioni erano assenti. Questo fallimento è stato il fallimento di un’ultima reazione possibile venuta dalla base, dalla sensibilità ai bisogni più veri e da un rapporto diretto con la realtà, perché, se i “comunisti” si erano fascistizzati (il terrorismo) o adeguati (il Pci, con tutti i suoi successivi, irrefrenabili, ridicoli cambiamenti di nomi e di stemmi e riverniciatura di facce, oggi centrale quella del più americano dei salvatori della patria che si contrappone al più clownesco emblema degli arricchiti, primaria piaga della nazione) i cattolici non se la passavano meglio, con l’invadenza e l’arroganza degli ultimi papa-divi e dei loro ruini, e i primi maestri d’ipocrisia erano pur sempre i cosiddetti laici, capitanati da facce di tolla alla Agnelli (la struttura cioè la rapina) e alla Scalfari (la sovrastruttura cioè l’imbiancamento dei sepolcri, il paravento per la rapina). Col tempo, si è cementificato in tantissimi, e diciamo pure nei migliori o quantomeno in coloro che amano credersi e presentarsi come i migliori, un modo di essere che sarebbe parso, pochi anni prima, inaccettabile e che invece veniva rivendicato come il giusto modo, la scelta più seria: far bene le proprie cose, una presunta onestà nei comportamenti professionali e privata, il tifo per le rivoluzioni altrui (vere o finte, preferibilmente latinoamericane), e magari l’adesione in qualche eclettica maniera alle iniziative di pace e di carità, alle buone azioni (preferibilmente africane), e finalmente la delega ai politici (ai partiti, magari a quelli più sbraitanti) delle scelte collettive. Convinti che il singolo nulla più può, ma che può sentirsi in pace con la sua coscienza per il “ben fare” di incidenza collettiva zero, e che a volte è servito solo a oliare la macchina, a dare fiacco vigore a meccanismi sgangheratissimi. Ci si accontenta davvero di poco, e sembra una gran fatica anche la ricerca di analisi e idee più serie, quando è così facile avere a portata di mano un mucchio di idee tranquillizzanti, che ci fanno sentire migliori a buonissimo mercato.

È questa l’anestesia peggiore e la più grave, quella di chi ancora pensa di stare nel giusto; è questa la forma di viltà più detestabile, la più ipocrita di tutte. Ne consegue per esempio, tra i tanti danni, che gli anestetizzati non avvertono più i cambiamenti di clima, il crescere delle corruzioni, lo scollamento delle persone e dei gruppi e perfino dei territori da qualsiasi progetto o idea comune che non sia di denaro e di consumo. Nessuno sembra più avvertire la necessità, oggi davvero assoluta, di legare i fatti alle idee, le azioni al pensiero, e di non accontentarsi di quella parodia di salvezza che è l’eterno farsi i fatti propri magari gridando convinzioni radicali... L’anestesia peggiore è quella nostra e dei nostri amici, con la sua accettazione di un quieto vivere sonnambulico e la soggiacente, incancrenita paura di ogni rischio, di ogni possibilità di affidarsi alla propria diretta e personale responsabilità. Mentre la rovina cresce, e i tempi stringono.

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