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Miccia corta

di Sergio Segio

Uno stralcio della Prefazione alla nuova edizione di Miccia corta

guerrigliaOltre quattro anni fa, licenziando questo libro, ho provato una sensazione liberatoria: quella di aver portato a termine ciò che si ritiene un proprio dovere, un impegno morale. Non tanto riguardo me stesso: ho fatto da tempo i conti con la mia coscienza, e anche con l’orgoglio; conti talvolta più dolorosi di quelli giudiziari. Non ho nulla da difendere se non, appunto, l’impegno di verità e memoria verso una storia collettiva negata, rimossa o mistificata. Sempre più spesso anche da chi l’ha vissuta in prima persona.

Quando, nel 2006, il regista Renato De Maria mi contattò per propormi di costruire un film a partire da questo libro il sentimento prevalente fu quello della preoccupazione: mi rendevo conto benissimo di quanti attacchi personali e polemiche astiose ciò avrebbe provocato.

D’altro canto, il «ritmo» cinematografico è quello che – da molti punti di vista – ritenevo e ritengo maggiormente adatto a raccontare la vicenda che sta al centro di Miccia corta e, più in generale, la storia degli anni Settanta, bruciati veloci. Come una miccia corta, appunto. In questo senso, l’assalto al carcere di Rovigo, che costituisce il cuore narrativo di queste pagine, non ha solo il sapore crepuscolare di una storia che volge consapevolmente al termine: ha anche la valenza paradigmatica dello scialo di vita, della gioventù e dei sogni che consumano rapidi, senza risparmio e senza cautele.

Dunque il progetto filmico mi apparve come un’occasione, rischiosa ma preziosa, di portare un nuovo contributo alla riflessione pubblica su quegli anni e quelle vicende, che a tutt’oggi costituiscono un passato che non passa, una ferita slabbrata e infetta.

 

Ciò che non avevo del tutto previsto, nella mia ritrovata – e un po’ ingenua – fiducia nella democrazia, era che il film avrebbe dato luogo, oltre che a un mio linciaggio quotidiano a mezzo stampa, a una vera e propria operazione censoria, con ricorrenti tentativi di impedirne la realizzazione, sino all’inaugurazione di quello che è stato definito un novello Minculpop di ventenniana memoria.

[…] Come si vede, a distanza di oltre trent’anni, alcuni esponenti dell’ex Partito comunista italiano insistono non solo nella demonizzazione ma anche nel tentativo di snaturamento dell’identità di quel fenomeno e di quei militanti: allora usavano dire «sedicenti rossi», ora mettono «di sinistra» tra virgolette. Il senso e l’intenzione sono gli stessi. Negare a priori, e con inalterata animosità, all’avversario la sua identità e la buonafede. Con il risultato, anche, di trasformarlo in nemico da zittire e mistificare (una cultura nefasta che era appartenuta sino in fondo anche a noi, che la avevamo anzi portata a estreme e tragiche conseguenze). Così che, ancora oggi, non si può dire e raccontare che le Brigate rosse sono nate nelle sezioni del Pci di Reggio Emilia e del Giambellino a Milano (come ha provato a fare il film Il sol dell’avvenire, di Giovanni Fasanella e Gianfranco Pannone, ricavandone perciò pesanti attacchi; al proposito, si veda qui la postfazione di Cristina Piccinno e Roberto Silvestri) e che Prima linea ha avuto le sue radici nelle fabbriche e nelle scuole di Sesto San Giovanni, la Stalingrado d’Italia, e dell’hinterland milanese. Neppure si può dire e raccontare che, in certe fasi, la lotta armata è stata una proposta politica che ha visto un consenso allargato e un seguito consistente con decine di migliaia di militanti e di simpatizzanti, non un microcosmo criminale, come ora, di falsificazione in falsificazione, si sostiene. E se qualcuno tutto ciò prova egualmente ad affermarlo e ad argomentarlo, gli vanno costruiti attorno un muro di silenzio e una camicia di forza di intimidazione.

Se poi prova a farci un film con ambizioni di diffusa distribuzione, allora si passa alla censura aperta.

[…] Ma forse il dato più impressionante e ancor più inedito è stata la totale assenza di reazioni alla crociata censoria: non un regista, non un critico, non un politico, non un intellettuale hanno ritenuto di prendere parola contro quello che – al di là del film stesso e delle sue caratteristiche – obiettivamente si presentava come un provvedimento liberticida, come un grave precedente contro la libertà artistica e d’espressione.

La minacciosa procedura disposta dal ministro dei Beni culturali, che ha accompagnato lo sviluppo del progetto filmico, non ha in effetti precedenti in nessun paese, quanto meno in quelli a regime democratico.

[…] Si sono insomma imposte condizioni e paletti affinché il film venga scritto e girato «a comando», con la libertà artistica legata al guinzaglio e minacciata di rappresaglia economica, con un meccanismo degno dei tempi di McCarthy. Ma, allora, c’era se non altro un movimento di opposizione alle persecuzioni e ai bavagli. Ora, che la censura si è fatta democratica e bipartisan, tutto tace e tutto va bene.

Giudicheranno gli spettatori del film se e quanto gli effetti di queste continue pressioni e degli infiniti vincoli – di fronte ai quali nulla hanno eccepito regista e produttore, accettandoli in silenzio – sono rintracciabili nel prodotto finale.

Per parte mia, ho ricavato il giudizio che il film La prima linea, assai liberamente ispirato a questo libro, ne tradisce una caratteristica fondamentale: quella che riassume l’albero genealogico, i riferimenti ideologici, culturali, le famiglie di provenienza, le motivazioni, le aspirazioni, per quanto infine pervertite dalle pratiche. Con il rischio che si tratteggi un Romanzo criminale, anziché fornire necessari elementi di lettura, comprensione e contestualizzazione su quello che è stato, comunque, un fenomeno dalla radice politica e sociale.
Anche in questo film – il che mi appare paradossale e beffardo – la verità ufficiale, resa orwellianamente indiscutibile, ci ha invece reso orfani. Meglio: figli di NN, come era scritto una volta nei documenti anagrafici, di genitori ignoti e sconosciuti.

Eppure nostro padre è ampiamente rintracciabile nelle biografie individuali e nei contesti temporali, sociali e politici nei quali siamo nati e cresciuti: si chiamava movimento del ’77, anch’esso, peraltro, banalizzato, criminalizzato e misconosciuto; e prima ancora, per la gran parte di quanti diedero vita a Prima linea, è rintracciabile nella militanza nei gruppi della sinistra extraparlamentare, in particolare Lotta continua e Potere operaio.

Nostra madre veniva invece da un casato più antico, che aveva avuto corso ed era stato assai fecondo lungo tutto il Novecento. Il suo nome era: rottura rivoluzionaria. Un’utopia concreta che aveva preso le mosse dal ’17 sovietico, ma che affondava le robuste radici sin nel rivolgimento francese di fine Settecento e nei moti e nella cultura anarchica, proletaria e socialista dell’Ottocento, nelle aspirazioni alla libertà, all’eguaglianza, alla fraternità e alla giustizia sociale.

Di quell’utopia, pervicacemente organizzata in tutto il mondo in chiave anticolonialista e anticapitalista, noi siamo stati i tardivi e coerenti epigoni, non certo i promotori. La convinzione che la violenza rivoluzionaria fosse levatrice della storia, doloroso ma necessario strumento per favorire la nascita del nuovo e del giusto, noi l’abbiamo semplicemente ereditata dai nostri nonni, dai nostri genitori, dalla vulgata dei partiti comunisti, dai movimenti extraparlamentari della fine degli anni Sessanta, dai gruppi politici e dalle lotte operaie, sociali e studentesche dei primi anni Settanta.

Nulla di originale, dunque. Solo la radicalità, assai determinata, di provare ad andare sino in fondo. Di rompere, sul piano del linguaggio e dei comportamenti – anche individuali, perché il personale è politico, ci aveva insegnato il pensiero femminista –, con l’ipocrisia dei «doppi binari» e delle doppie morali («si fa, ma non si dice»), della separazione tra il politico e il militare, tra i Togliatti e i Secchia, del tirare il sasso e nascondere la mano, della pratica dei tanti «bracci armati» dei gruppi: non solo di Lotta continua e di Potere operaio, ma di tutte le formazioni della sinistra (ma anche della destra) extraparlamentare (e non solo) dell’inizio degli anni Settanta.

Al film La prima linea realizzato dal regista Renato De Maria va senz’altro riconosciuta un’iniziale intenzione coraggiosa: per la prima volta, e per giunta in tempi incattiviti e «revisionisti» come gli attuali, una pellicola prende le mosse da un punto di vista interno alla lotta armata. Come a dire: la storia si può raccontare anche a partire dai vinti e dalla parte del torto. Ma il film risulta alla fine decisamente meno ardito, laddove quel punto di vista, quella memoria soggettiva non vengono rappresentati fedelmente, nella loro completezza e complessità.

[…] Restano così nascoste le origini, le radici, le culture, i movimenti, insomma i capitoli precedenti la lotta armata, senza i quali la storia diventa incomprensibile. Ma risulta omesso anche un concetto per me basilare, per raccontare e comprendere davvero quegli anni: noi armati abbiamo avuto torto, come dice nel film l’attore Riccardo Scamarcio.

Aggiungo: tragicamente torto, terribilmente torto, inescusabilmente torto.

Ma mi permetto di aggiungere anche: Loro, però, non avevano ragione. E per «loro» intendo gli apparati statali compromessi con lo stragismo (e che sono stati compromessi non lo dico io: lo afferma, ad esempio, un ministro dell’Interno democristiano dei tempi come Paolo Emilio Taviani, tra i fondatori di Gladio). Per «loro» intendo il sistema capitalistico di intenso sfruttamento e delle stragi sul lavoro (quanti ricordano che gli operai chiamavano la Fiat, evidentemente con qualche ragione, «la Feroce»?). Per «loro» intendo i rappresentanti politici di governo, gli uomini di partito che hanno alimentato la strategia della tensione, che hanno tramato per costruire svolte autoritarie e golpiste in Italia, dalla Rosa dei Venti alla P2. Forze che, in alcuni momenti della storia di questo paese, sono state preponderanti. E anche chi non era in quella cabina di regia, ne è stato in molti tratti complice omertoso, per realismo politico e fedeltà al «sistema» se non per convinzione. Uomini e apparati che hanno gestito i risvolti sporchi della Guerra fredda e il volto opaco della democrazia italiana. Non bisogna infatti dimenticare che tutti gli allora responsabili dei servizi segreti (coi quali collaborava in funzione antiterrorismo il Partito comunista italiano), i vertici dei carabinieri di Milano e di altre città, numerosi alti funzionari della polizia, magistrati, autorevoli esponenti di partito (e persino il segretario di uno dei partiti di governo), erano attivi nella Loggia P2. Trame che non si limitano agli anni Cinquanta o Sessanta, ma arrivano sino all’inizio degli anni Ottanta. E anche questa non è una affermazione apodittica e provocatoria di un ex terrorista: sono le risultanze di montagne di atti parlamentari. Atti sepolti e dimenticati nei cassetti, e sapientemente fatti scivolare via come acqua corrente dalla coscienza pubblica.

Se si stracciano le pagine di questi capitoli il libro degli anni Settanta risulta monco, e dunque falsato.

[…] Il film La prima linea è stato sottoposto a pressioni, intimidazioni e censure che non sarebbero state tollerate in nessun altro paese democratico. Perché, ormai, si vuole sia questa la Storia, l’unica storia da raccontare di quegli anni: quella che sostiene una ferocia e un’esclusiva responsabilità delle organizzazioni armate di sinistra. Così che tutti continuino a guardare il dito, dimenticandosi della luna, vale a dire degli «armadi della vergogna» e della insanguinata realpolitik delle istituzioni e dei governi della Prima Repubblica. Armadi ben altrimenti zeppi di scheletri. E così che l’attore Scamarcio, nel film, possa infine assumersi la totalità degli errori e delle colpe «politiche, morali e giudiziarie» (l’identica formulazione contenuta nella deliberazione della Commissione ministeriale per la cinematografia), che andrebbero invece assai largamente distribuite e ancor prima indagate. Naturalmente, il problema non consiste nel respingere o minimizzare le nostre colpe e responsabilità: sarebbe disonesto. Il problema risiede nella completezza del racconto, invece amputato di parti fondamentali, e nell’assenza dei necessari riferimenti storici. Il problema è che non viene tollerato racconto diverso dal copione già scritto, e imposto alla memoria e alla coscienza pubbliche, dai custodi degli armadi della vergogna di questo paese.

Come quasi sempre nella Storia, il rancore e la vendetta esigono personificazione, capri espiatori, figure simboliche da mandare al rogo, o almeno al linciaggio morale, se non a quello fisico. È quello che è successo e che sta succedendo riguardo quel frammento di Novecento che sono stati gli anni Settanta italiani e in specie riguardo la mia e nostra storia. Regola del contrappasso, la chiamerà qualcuno, vedendone un carattere di giustizia sostanziale e di pena aggiuntiva a quella del carcere, valutata come insufficiente. Io, che pure assieme a tanti altri in passato mi sono arrogato il diritto di colpire coloro che consideravo nemici politici, giudicandolo atto di giustizia, oggi, quella regola, la considero una forma di barbarie.

 

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