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una citta

Il Riformismo che non c'è

Intervista a Carlo Donolo

Una sinistra che non affronta le grandi questioni nazionali irrisolte difficilmente può dichiararsi riformista; la tendenza a chiamare riforme i tentativi di adeguarsi alla globalizzazione tramite la flessibilizzazione del lavoro; le grandi questioni del divario fra nord e sud, della centralità del lavoro, della sostenibilità ambientale dello sviluppo; un sistema di potere abbastanza impermeabile che vede l’alleanza fra rendita immobiliarista e pubbliche amministrazioni. Intervista a Carlo Donolo, docente di Sociologia Economica all’Università di Roma “La Sapienza”, ha pubblicato, tra l’altro, Sostenere lo sviluppo. Ragioni e speranze oltre la crescita, Bruno Mondadori 2007. L’intervista è stata realizzata prima delle elezioni.


La domanda riguarda i destini della sinistra in Italia…


Già, l’eterna interrogazione sulla sinistra che oggi, nel contesto europeo, forse si può declinare in un’interrogazione sul destino del riformismo. E parto col dire che il riformismo oggi fa parte di uno scenario in disuso. A mio avviso il riformismo è tale se va a toccare alcuni nodi cruciali, che una volta chiamavamo le grandi questioni nazionali.

Oggi, invece, si tende a confondere le questioni del paese con le questioni dell’inserimento del paese nei processi globali. Molte cosiddette riforme sono disegnate per permettere all’Italia di adattarsi alla competizione globale. Questo poi ha delle ripercussioni sociali molto gravi, per esempio in termini di disparità territoriale di tipo nuovo e quant’altro, che questo riformismo comunque non copre più. E’ un riformismo, fra l’altro, talora ispirato da quei teorici che hanno propugnato la flessibilizzazione del lavoro, un certo smantellamento del welfare e via andando. Prima si diceva “lib-lab”, adesso si dice “lib” e basta.

Spesso sono riforme suggerite, in qualche caso imposte, dall’Unione Europea: la riforma della Pubblica Amministrazione, oppure il modo di fare le politiche pubbliche, la politica ambientale, la riforma del 3+2 nell’Università, in una logica di modernizzazione del paese, che confina, ma non coincide, con la definizione del riformismo come capacità culturale e politica di individuare, e attrezzarsi poi per trattare, le grandi questioni nazionali.

Quindi in realtà regna, dal punto di vista della semantica, certamente una grande confusione, ma direi essenzialmente un abuso.


E quali sono le grandi questioni nazionali oggi?


Beh, innanzitutto il divario territoriale, Nord- Sud. Anche senza chiamarla questione meridionale, nuova questione meridionale, c’è molto dibattito su questa questione, sulla natura, anche, di “questa questione”, che non è più la stessa di un tempo. Indubbiamente esiste, lì, un nodo di problemi, gravissimo, che, in quelle dimensioni, non esiste negli altri paesi europei. Il Sud non è affatto una regione in ritardo di sviluppo, è una regione che sta sviluppando un proprio modello di crescita, certo, perverso, in cui gli elementi criminali sono fortemente dominanti, e in cui la politica è implicata fino al collo. Quindi non è nemmeno una cosa facile da risanare, perché se una volta, almeno, la classe politica nazionale poteva dire “esiste una questione che però è esterna a me”, adesso non può più dirlo: tu l’hai prodotta, tu ci sei dentro fino al collo, quindi da te che soluzioni posso mai aspettarmi? Questo è il caso calabrese o siciliano, ma anche il caso campano, adesso, coi rifiuti.

Quindi fra le grandi questioni nazionali, indubbiamente questa del divario territoriale, per dirla gelidamente, senza metterci niente di passione dentro, la metterei tra le prime cose. E’ una cosa intollerabile, inaccettabile, che ha delle conseguenze macroscopiche su tutto quello che siamo, anche fuori dal Sud, naturalmente. Il nostro modo di stare nel mondo, in Europa, è fortemente condizionato da questo.

Una seconda grande questione è quella del lavoro, ovvero del modo in cui il problema del lavoro si declina nel contesto italiano, caratterizzato da aspetti che spesso anche dall’estero ci vengono segnalati. In primo luogo la scarsa partecipazione delle donne al mercato del lavoro, pur in crescita nell’ultimo decennio, che però, guardando le statistiche, presenta ancora una grave distanza rispetto agli altri paesi europei e soprattutto rispetto agli obiettivi della strategia di Lisbona. Una distanza ancor più grave nelle regioni meridionali, dove addirittura è molto diffuso il ritirarsi dal mercato del lavoro, quindi un ritorno a vecchi modelli di famiglia, e pertanto una regressione anche sociale e culturale, molto silenziosa, che poi però le statistiche mostrano abbastanza chiaramente. C’è chi sceglie la non occupazione perché rinuncia a cercare lavoro, dato che il lavoro è così difficile da trovare. Poi ci sono, naturalmente, coloro che insistono a trovarlo, e questo alimenta i flussi migratori dal Sud al Nord, che sono ancora notevoli dal punto di vista numerico, soprattutto per quanto riguarda i giovani scolarizzati, quindi anche donne.

Un secondo aspetto del problema è il modo molto veloce in cui da noi è avvenuta questa transizione da una specie di centralità operaia a un’altra centralità. La centralità del lavoro, un po’ mitizzata, certamente, si era anche realizzata nei fatti con certe strutture di welfare per un verso, ma anche nella partecipazione del sindacato a pieno titolo alla presa delle decisioni di macroeconomia -il cosiddetto neocorporativismo. Il governo, i sindacati e le controparti imprenditoriali, in varie fasi, anni ‘80-90, con vari tipi di patti, in qualche modo hanno dato un contributo significativo non soltanto alla vita economica e sociale, ma proprio agli assetti del potere, in cui queste cose pesavano effettivamente. Sia per la presenza dei partiti di sinistra, sia per la cultura cristiana, il lavoro era l’elemento decisivo della coesione sociale, del fare società. Oggi ne siamo fuori, tutto sommato, forse per un declino del potere sindacale, forse anche della stessa Confindustria. Fatto sta che c’è stata una transizione a qualcos’altro. Ad un certo punto è sembrato che fosse l’impresa l’elemento coesivo, ed effettivamente, nel neoriformismo attuale, l’impresa è il nucleo di tutte le politiche di self help, di creazione d’impresa dei giovani. Si è creata quasi l’illusione che la questione del lavoro svanisse con la diffusione del terziario, dei servizi, e naturalmente del lavoro autonomo in tutte le sue varie forme: tutti sono imprenditori di se stessi. Ora, è chiaro che il lavoro è molto cambiato, ma in questo mutamento per me resta vero, e in questo concordo con Luciano Gallino, che una società che non è in grado di riconoscere la centralità del lavoro nelle sue nuove forme, è come se perdesse l’anima. Allora vuol dire che se al centro non c’è il lavoro, c’è un’altra cosa a far da collante, e sarà il denaro, la finanza. Non a caso, la finanziarizzazione dell’economia da noi ha degli effetti ancora più perversi che negli altri paesi, non soltanto per gli scandali finanziari ripetuti e diffusi, ma per quello che trasmette al senso comune: l’importanza del denaro, dell’arricchirsi in un certo modo, del tesaurizzare, del patrimonializzarsi, con il culto delle seconde e terze case, e comunque dell’investimento nel mattone, eccetera eccetera. Mentre, di converso, aumenta la marginalizzazione sociale di chi non ha abbastanza per vivere. Di qui la questione delle nuove povertà, che si estendono anche ad ampie fasce della piccola borghesia a reddito fisso. Stiamo assistendo a una decadenza e a una crisi di questi ceti, che una volta erano quelli che però tenevano la schiena del paese, anche numericamente, per le funzioni che svolgevano. Penso agli insegnanti, per esempio, che sono una delle categorie decisamente più in crisi, da ogni punto di vista, in termini di competenza, di status, di stipendio, di riconoscibilità sociale. Fare l’insegnante di scuola è diventato un lavoro impossibile, da testimone, quasi.

Quindi, il lavoro è senz’altro una grande questione nazionale. Tenendo anche presente che, entrando nei flussi globali, in cui la scienza e la tecnica sono contenuti dirimenti per qualunque attività, la decisione di non investire in queste dimensioni, tecnologiche e cognitive (e questo non c’è nemmeno nei programmi attuali dei cosiddetti riformisti), equivale a dare per scontata un’emarginazione. Il lavoro come tale è emarginato, e poi il lavoro cognitivo, il lavoro esperto, il lavoro vicino alle fonti della scienza e della tecnica, non è valorizzato, anzi, è decisamente svalorizzato.

Anche qui, se tu vai a vedere in casi e contesti delimitati, in Veneto, in Lombardia, certamente trovi ampie eccezioni di cui spesso parla anche Aldo Bonomi, però, a mio avviso, queste eccezioni non fanno sistema. La verità sociale è un’altra. E’ vero che ci sono queste cose, come è vero che a Napoli, che è un’area tra le più degradate in Europa e forse nel mondo, ci sono delle eccellenze, non soltanto culturali, ma perfino tecnologiche. Però sappiamo che queste eccezioni, per quanto numerose, non fanno ancora quella massa critica che possa definire un modello diverso. Prevalente è il modello di un lavoro sostanzialmente destrutturato, dequalificato e non riconosciuto socialmente, in definitiva svalorizzato. Quando ai laureati in ingegneria dai 800 euro al mese, o anche meno, vuol dire che proprio non ti aspetti niente da loro, se non un lavoro da amanuense, che facciano qualche cosetta al computer.

Qui, chiaramente, l’Italia si separa da paesi come la Francia e la Germania che invece hanno ben capito che questo è un punto dirimente per il futuro: investire sui giovani, sui giovani scolarizzati, sul lavoro competente, quindi naturalmente sulle attività formative, sulla ricerca, eccetera. Di questo non vedo traccia. La scusa, si sa bene, è sempre la stessa: “Non ci sono le risorse, perché è una cosa grossa, dove le troviamo…”. Però di questo si può discutere, diciamo che è una scelta decidere che non ci sono risorse.

Direi quindi che la questione del lavoro era ed è il tema centrale del riformismo. Io ho messo avanti, nel caso italiano, il tema della questione territoriale perché le due cose, in realtà, sono anche profondamente intrecciate.


Tu poi vedi nella questione ambientale una terza grande questione nazionale…


Sì, la questione ambientale o territoriale. Una questione in parte nuova, anche se da molto tempo in ebollizione. La società italiana, piuttosto densa dal punto di vista demografico, e quindi con un territorio con certe caratteristiche storiche di infrastrutturazione urbana, ha conosciuto negli ultimi vent’anni un dilagare ingovernato di cemento. L’aspetto che la fa diventare una questione nazionale è per l’appunto il “non governo” del territorio. E qui i partiti riformisti condividono appieno la cultura liberista, perché le stesse regioni “virtuose” stanno cambiando sotto la pressione della rendita immobiliarista, che non è più rappresentata solo dal costruttore, ma da un intero universo di attori interessati alla messa in valore del territorio, cioè dei suoli. Si pensi, per esempio, a tutti gli ipermercati, agli svincoli, alla mobilità che viene attivata. A Roma, per esempio, questo si sente molto. Attorno a Roma c’era sempre stata la grande campagna romana, sostanzialmente poco o niente abitata e, oltre, una corona di paesi. Adesso tutto questo vuoto intermedio tende a riempirsi con le infrastrutture rese necessarie dalla dislocazione in queste aree, una volta periferiche, di importanti centri commerciali. Il “partito delle rendite”, in senso lato, ha stabilito ovunque una coalizione forte con la classe politica locale, un rapporto di mutua dipendenza. E questo succede anche se chi governa è virtuoso, perché qui non si tratta di mazzette, ma del fatto che ovunque il modello di sviluppo locale è orientato alla valorizzazione del territorio in condizioni di non sostenibilità. Il tutto poi si accompagna alle varie forme di privatizzazione dei beni comuni, dell’acqua in particolare, che in futuro ci creeranno parecchi problemi.

Questo ci propone due problemi a valle, ugualmente importanti.

Il primo è la non sostenibilità dei processi territoriali. Quindi i territorialisti, come Rullani e Bonomi, farebbero bene a preoccuparsene un po’ di più. La loro attenzione è così tanto centrata sull’impresa, e sul successo dell’impresa, che rischiano di non vedere quello che si fa al contorno delle imprese. Non si può escludere una crisi ambientale, che da noi potrebbe avere delle implicazioni più drastiche che altrove perché siamo meno preparati a gestirla e abbiamo prodotto più guasti sul territorio.

Il secondo problema riguarda, nel territorio, i beni culturali e ambientali. Si dice che valorizzare il territorio significa mettere in valore questo tipo di beni, quasi principalmente, se non del tutto, in funzione dei flussi turistici. Lo vediamo a Roma: dopo il Giubileo c’è stata un’esplosione dei flussi turistici con un incremento dell’ordine del 5-10% l’anno, un anno sull’altro. Cosa porti questo non si sa bene. Certamente arricchiscono alcuni, albergatori, ristoratori, tour operator, eccetera, ma che cosa questo lasci alle città non è molto chiaro. C’è già la crisi evidente di Venezia e di Firenze, dove le lamentele dei residenti si fanno sentire, tant’è che Cacciari chiede il numero chiuso. Si avverte che c’è qualcosa di fortemente squilibrato, a Firenze in modo ancora più marcato vista la mercantilizzazione estrema della città in funzione del turismo. Ma, a parte le situazioni estreme, in generale non siamo capaci di governare bene la valorizzazione dei beni ambientali e culturali in una prospettiva di sostenibilità. Tendiamo a giocarceli abbastanza a breve termine. C’è un’usura molto veloce di questi beni. Ora tutto questo trova proprio adesso il suo contraltare nel nuovo Codice dei beni culturali e del paesaggio, di Salvatore Settis, che è molto rigorista, molto vincolista, ispirato da un principio di precauzione molto forte, ma in realtà poi i processi locali restano molto virulenti. Basta girare per la Toscana e per l’Umbria.

Quindi io metterei fra le grandi questioni nazionali le forme particolarmente critiche che la questione ambientale, energetica e territoriale assume in Italia. Ma anche questa, come le altre due, il Sud e il lavoro, non appare come una priorità necessaria. Ora, mentre mi spiego il fatto che al Sud non si pensi più tanto, per via di una certa rassegnazione dovuta al fatto che non si sono prodotti grandi risultati, per cui c’è un po’ il senso di dire: “Va beh, ormai, cosa fai?”; e posso pure capire che nel caso del lavoro prevalga un malinteso principio di realtà: “Ma, vedi, tutto il mondo è flessibile, quindi anche noi, trallallà trallallà”, e con una specie di allegria, a mio avviso impropria, non facciamo altro che seguire i modelli necessari, necessitati, in questo mondo (il che poi non è nemmeno vero); per quest’ultima questione, invece, mancano proprio i presupposti culturali. L’idea della sostenibilità come problema mainstream in tutte le politiche, in tutte le strategie, non è assolutamente passata. Poi abbiamo dei Verdi che sono totalmente squalificati per proporre questa tematica. Ecco, questo ci spiazza un po’ rispetto agli altri. In molti paesi europei, negli ultimi anni, c’è stata una notevole accelerazione di attenzione al governo del territorio e dell’ambiente, perché si sa che da lì possono venire delle crisi anche molto gravi. L’Italia invece è molto indietro.


Torniamo all’assenza di riformismo nella sinistra…


Definirei conclusivamente riformismo quella cultura politica o quella programmatica politica che è in grado di proporre al paese, come propri compiti, il trattamento delle grandi questioni nazionali e aggiungerei (dato che la globalizzazione è una cosa seria), che è capace di trattare i grandi dilemmi epocali che ci vengono dai processi globali.

Ora, lasciando da parte il massimalismo, chiamiamolo così, della sinistra Arcobaleno, che non ha contenuti da proporre a una società come la nostra, quello che si autopropone come riformismo, i programmi, cioè, del Partito democratico, in realtà non dà rilevanza a questo tipo di questioni nazionali. Sembrano dire: “Ne abbiamo già discusso, ma non si è arrivati a niente”, oppure: “Non siamo in grado di trattarli, tanto ormai siamo nell’Unione Europea e le priorità sono altre, dobbiamo pensare alla competizione globale, eccetera, eccetera”.

La parola crescita viene messa sempre al primo posto, senza aggettivi, senza qualificazioni. Alla fine siamo sempre a quel punto: prima la crescita, poi l’intendenza. Ma il riformismo classico, socialdemocratico, anche quello liberale, ha sempre immaginato che il mercato andasse pesantemente regolato, guidato. Non ha mai pensato che la crescita fosse l’obiettivo. Se sei riformista, non puoi mettere la crescita al primo posto. Mi devi dire che c’è bisogno della crescita in queste forme, in queste dimensioni, in questa misura e subordinatamente insieme a tutta una serie di altre qualificazioni.

Se tu metti la crescita come obiettivo fondamentale evidentemente hai deciso che il riformismo non è più possibile, ma allora andrebbe detto.


Ma lo stato di salute della società qual è?


Beh, io penso che siamo di fronte a una società che nel suo intimo è pesantemente sfasciata. E’ sfasciata per tanti motivi che si sanno. Il ruolo della famiglia, il ruolo del denaro, la comunicazione di massa, la televisione in particolare, l’analfabetismo di ritorno, i comportamenti negli spazi pubblici... Ci sono una serie di cose per cui l’Italia è tornata a differenziarsi in peggio dagli altri paesi in Europa. Questo ce lo dicono molti osservatori.

Guardando poi le grandi aree metropolitane meridionali, si vede che la situazione è peggiorata da tutti i punti vista: droga, vandalismo, delinquenza organizzata e disorganizzata, sottoccupazione, violenza nelle famiglie, disgregazione familiare. Se uno mette insieme tutto questo calderone, più il degrado fisico dei quartieri, che sono le vecchie periferie costruite negli anni ‘50 e ‘60, pessime, schifose già allora, ma oggi certamente non messe in sicurezza, non più manutenute (e bisogna vederle in un giorno di pioggia, quando tutto cola), beh, si ha l’impressione di una situazione alla lettera ingestibile, e non si capisce proprio da dove si potrebbe cominciare. Se l’immagine dell’Italia all’estero è molto deteriorata non è solo a causa del ceto politico, degli scandali, ma anche del fatto che si sente che è una società che dal punto di vista civico va regredendo nel suo insieme.

Ovviamente, si sa bene che proprio nella regressione si formano degli anticorpi, per cui tu non puoi mai dire se una società è civile o incivile, c’è un po’ dell’una e un po’ dell’altra, però bisogna sapere in che proporzioni. Quello che non mi ha mai convinto nei discorsi dei territorialisti in generale, soprattutto negli articoli sul Sole 24 ore, è questa immagine che viene data dell’impresa, un’impresa che innova, che esporta, che si globalizza, che addirittura è molto sociale, molto socievole, magari è sostenibile, eccetera eccetera. Il che, senz’altro, è verissimo. Io stesso ho verificato che nei sistemi locali ci sono molte pratiche virtuose, molte di più di quanto non appaia. Tuttavia, di nuovo, il dubbio è che questi casi non siano in grado di replicarsi, di fare sistema, che, cioè vadano solo a correggere un’immagine ancor più negativa piuttosto che rispecchiarne una diversa nel suo insieme.

Però per discutere di questo bisognerebbe esaminare casi più specifici. Ci sono casi positivi come quello di Torino, ci sono casi molto negativi come quello di Napoli. Ci sono casi intermedi di antica tradizione, in cui la gestione del governo cittadino, che tutto sommato era di buon livello, tende a deteriorarsi, perché incapace di far fronte alle nuove sfide, ai nuovi compiti. Ora, per arrivare a una sintesi che dica “l’Italia sta così”, non abbiamo i dati, però a me sembra che l’Italia, per dirlo con un linguaggio più sociologico, si caratterizzi come una società nel suo insieme molto destrutturata e molto disordinata. Questo sempre in confronto con gli altri paesi europei, perché tutto è relativo, naturalmente.

Dopodiché, ripeto, in questa società disordinata ci sono tanti anticorpi. Spesso si evoca il terzo settore, però anch’esso è una realtà troppo disparata per poterlo trattare univocamente, c’è di tutto anche lì, come nel resto della società. Ci sono poi organizzazioni che sono in grado di difendersi, perché utilizzano la tecnologia, magari semplicemente isolandosi dal contesto, come fanno molte imprese di buona qualità del Meridione. Si isolano fisicamente dal contesto, ne fanno a meno, perché guai se dovessero entrarci in contatto, si troverebbero subito ad aver a che fare con la mazzetta del politico, o, peggio, con qualche ricatto camorrista. Quindi hanno l’isolamento come strategia, semmai stabiliscono una rete, una coalizione altrove, molto distante, magari in un altro paese. Quel che dico è che non si capisce bene come gli elementi innovativi e civili si rapportino a un contesto che in generale è molto disordinato, spesso addirittura molto degradato.


Ma la società civile?


La società civile, sì, persiste, ma è attraversata da infinite contraddizioni e da una cronica incapacità di manifestarsi. Prendiamo il caso estremo e drammatico dei rifiuti in Campania. Come si è arrivati a quel punto? Perché sembra una cosa che supera la fantasia. La storia adesso l’hanno ricostruita e si sanno gli errori, le omissioni e poi tutte le altre implicazioni ancora peggiori del ceto politico, delle amministrazioni, delle imprese, eccetera, e questo indubbiamente dice gran parte della storia.

Però vien da chiedersi: la società locale cosa ha fatto? Non so, i parroci, i vescovi, le parrocchie, oppure i boy scout, quel che si vuole. Com’è che si sono adattati a questo progressivo degrado? E allora le risposte possono essere il ricatto per cui è pericoloso parlare, oppure i vantaggi che, tutto sommato, si ottengono a fare le cose così. Si pensi, ad esempio, a tutti quei contadini che avranno preso dei soldi dalla camorra per farsi mettere nei campi delle schifezze non altrimenti riciclabili. Quando ci sono forme di degrado così estreme, il problema è che nessuno è innocente.

Naturalmente facendo le differenze nelle responsabilità, un conto è Bassolino, un altro il singolo cittadino. Però il singolo cittadino ha contribuito moltissimo, e questo va ammesso anche se è terribile doverlo dire. Con le sue omissioni, col suo opportunismo, col suo adattarsi, col suo tirare a campare, con il suo “tengo famiglia”, col fatto, cioè, che girano posti di lavoro, girano soldi, che le opportunità dell’economia informale e criminale sono infinite e sono coinvolgenti... Ecco, credo che siano pochi gli innocenti. Questo lo dico, non per scaricare le responsabilità su tutti, ma solo per renderci conto che la correzione di questo degrado è una faccenda assai più implicante di quanto non possa apparire.

Certamente Bassolino doveva dare le dimissioni, è una vergogna che non le dia, e però per correggere il circuito vizioso, quello che gli economisti dello sviluppo chiamano le “trappole” in cui le popolazioni si vanno a mettere con le proprie mani, ci vuole ben più che le dimissioni di Bassolino. Lì si tratterebbe veramente di rifare la società, una ricostruzione sociale che, al giorno d’oggi, è molto costosa e anche molto difficile. Non abbiamo più a che fare, infatti, con le antiche miserie, quando si occupavano le terre e non si avevano da perdere che le proprie catene. Adesso tutti hanno dei legami, tutti hanno delle micro-rendite da difendere, per quanto possano sembrare miserabili ai nostri occhi. E’ tutto un sistema di cointeressenze così vischioso che io vedo estremamente difficile uscirne.


Ridare speranza in un cambiamento è una condizione decisiva?


Certo, sotto l’incombere di questioni non trattate, una società tende a disfarsi, perde coesione, unità, voglia di fare cose insieme. Ma anche perché manca una prospettiva. Qui ha ragione Rullani: senza speranze collettive non è possibile che la società si rappattumi in qualche modo, intorno a qualcosa. Queste speranze ancora trent’anni fa erano mitologiche, sono poi diventate più banali e quotidiane, ma comunque importanti obiettivi sono stati raggiunti. Oggi è difficile, e sotto questo profilo non è che altrove vada molto meglio, però è abbastanza evidente che gli altri paesi europei, in genere, sono più coesi, più robusti, più strutturati da ogni punto di vista. Hanno problemi, ma li contengono, per così dire. Noi invece ci troviamo di fronte ai nuovi problemi “già sfatti”, quindi avremmo bisogno di un surplus di speranze, di fiducia nel futuro, per trovare un motivo per agire insieme, per fare delle cose insieme.

Purtroppo la politica non propone nulla di tutto questo, anzi. Le forme della partecipazione dal basso sono tutte molto frenate, regolate, proceduralizzate, perché il ceto politico teme molto l’elemento insorgente comunque implicito nel partecipare. Ovunque si dotano di regolamenti di procedura, per ascoltare, far parlare, per poi mantenere il monopolio della presa della decisione all’interno del ceto politico. Il ceto politico da una parte si legittima con l’argomento delle competenze per le scelte, dall’altra con la considerazione che la società civile si manifesta spesso in sindromi tipo Nimby, il che è anche vero. Allora diventa facile, in quel caso, dire: “Vedete? Sì, bella partecipazione, bloccano tutto, non si riesce a fare niente”, oppure “egoismi locali contro interessi generali”, tutti discorsi che si sentono.

Ma questo è un tema complicato, che va trattato nel merito. Qui lo cito soltanto per dire che anche le forme della partecipazione, non essendoci un orizzonte di aspettative condiviso, tendono a refluire in un orizzonte di cose ritenute più semplici, più praticabili, più vicine, magari anche molto virtuose, ma molto locali. Così gli elementi della società civile restano frammentari, in disaccordo tra di loro, dissonanti talora, soltanto blandamente coalizzati, senza un peso sufficiente da trasmettere un messaggio forte alla politica, la quale, da un lato non vuole sentire queste voci, dall’altra elabora un proprio discorso che con queste voci non ha niente a che vedere. La politica è distante non soltanto per i privilegi di cui si è dotata, che fanno abbastanza schifo, ma per l’autodefinizione, che poi giustificherebbe quei privilegi, di mandante depositario della voce del paese, grazie a un mandato in bianco: “Fa’ e poi ti giudicheremo tra cinque anni”. Ma questo per la democrazia è mortale, soprattutto per una democrazia fragile come la nostra.


Pessimismo nero, quindi…


Naturalmente qualcuno potrebbe dire: “No, guarda che in realtà il paese va molto meglio di così, c’è già molto di più di questo”. Dipende molto da dove si sta, da che lavoro si fa, perché i dati oggettivi e strutturali su questo mi sembrano estremamente scarsi. Quindi i pareri possono rimanere anche legittimamente diversi, e non c’è da dividersi fra il partito degli ottimisti e quello dei pessimisti. A parte il fatto che a mio avviso sarebbe compito degli intellettuali essere pessimisti per professione, cioè critici. Nel partito degli ottimisti ci sono persone, come Aldo Bonomi stesso, come De Rita, molto vicini a una “cultura del fare”, come si dice oggi. Ecco, come ho già detto, il mio dubbio è che a volte non siano in grado di ricostruire le premesse a monte e a valle di questo fare, anche del fare delle imprese. Pertanto io resto un pochino problematico e scettico. Poi dipende naturalmente da quello che si vuol vedere. Vedendo io soprattutto le regioni meridionali, per tanti motivi, sono forse più legittimato a sottolineare l’estrema difficoltà di una possibile ricostruzione di società, e di società civile in particolare.

Ieri qui a Roma c’è stato un dibattito tra alcuni economisti sul Sud. Ora sul Sud si dicono sempre le stesse cose, dipende anche lì che cosa si vuol vedere, però, in sostanza, gira che ti rigira, si è arrivati a un nodo che nessuno riusciva a formulare. Bene, è intervenuto Lo Bello, quello della Confindustria siciliana, quello che si è ribellato al pizzo, e mi ha colpito: “Sì, va beh, tutto bene, questo c’è, questo lo facciamo, però...”, e alla fine si vedeva che era in imbarazzo, perché in fondo era anche difficile dirlo: “Guardate che però c’è anche un blocco culturale”. Lui l’ha detto con parole molto semplici, non è uno studioso, è un imprenditore, che però adesso, per il lavoro di antimafia, ha fatto molta esperienza di relazioni politiche e sociali: “C’è un blocco, c’è un blocco...”. Che blocco? Che natura ha questo cemento? “Sì, la magistratura fa le cose, i singoli anche, però guardate che la cultura, la cultura media degli imprenditori e la cultura politica degli amministratori in Sicilia è quella di intercettare i flussi di denaro pubblico”. Ecco, ricordiamoci che su questo porsi come intermediari dei flussi di denaro pubblico, principalmente, o anche degli altri flussi che vengono da attività più prettamente criminali, che vanno comunque riciclati, si è creata una coalizione, una coesione fortissima, fra la funzione del politico, dell’amministratore pubblico e dell’imprenditore.

Curiosamente gli analisti presenti davano poco peso a questa dimensione culturale, invece lui, operatore, gli dava grande peso. Lui da questo punto di vista criticava anche le erogazioni dell’ultimo decennio, che sono state intercettate da questo blocco. In realtà, pian piano si è creata una koiné culturale che in parte, in gran parte, lui descriveva come la vecchia idea che “la politica che ci sta a fare? Ci deve dare dei soldi, se non produce questo risultato non serve”. Una cultura opportunistica, molto strumentale, che ha riciclato a un livello più sofisticato le antiche arti dell’intermediazione, quindi perfino il ruolo dei notabili locali, del clientelismo, del familismo. Tutte queste cose emergevano dal suo discorso come una questione forte, che si è consolidata grazie a questo nuovo flusso di risorse, ingente, ingentissimo, arrivato grazie ai flussi comunitari.

Ecco, pensiamo all’impatto sulla società, sulla società civile che può avere una simile alluvione. Anche se tu fai delle cose buone, la tua è una goccia in un fiume enorme che va tutto in un’altra direzione.

 

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