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punto rosso

La sinistra nella crisi italiana

Mimmo Porcaro

Contributo al seminario Punto Rosso/Rosa Luxemburg Stiftung Milano, 20 ottobre 2009

classe dirPer comprendere il quadro in cui agisce la sinistra italiana è necessario prendere le mosse da una pur sommaria analisi della composizione delle classi dominanti italiane e dai loro interni conflitti.

Se, in seguito alla crisi, il compito fondamentale delle classi dominanti è quello di inventare una nuova direzione politica dell’economia e di finanziare e gestire un crescente debito pubblico in forme socialmente accettabili, nessuna delle frazioni delle classi dominanti italiane è all’altezza del compito.

Fino agli anni ’90 le classi dominanti italiane erano sostanzialmente unite intorno al dominio del blocco finanziario ed industriale pubblico, al quale si alleava la grande industria privata, mentre la PMI era in parte sovvenzionata pubblicamente ed in parte incapace di politica autonoma. Il dominio del blocco pubblico e dei suoi alleati era, per ovvie ragioni, contemporaneamente economico e politico.

Dopo gli anni ’90 il polo pubblico è stato dissolto: il sistema industriale di Stato è stato dimesso e tutte le banche sono state privatizzate. All’alleanza tra blocco pubblico e grande impresa si è sostituita l’alleanza tra capitale bancario privato e grande impresa (col capitale bancario in posizione di preminenza), mentre la PMI ha assunto una posizione sempre più autonoma. Inoltre, non c’è più coincidenza immediata tra classi economicamente dominanti e classi politicamente dominanti: poiché non esiste più una “borghesia di Stato” (e cioè una borghesia che è per definizione espressione o base del Governo), il dominio politico non è più una conseguenza “naturale” del dominio economico.

E infatti la borghesia italiana si divide in una frazione europeista e mondialista (alleanza banca/grande industria) ed una frazione nazionalista (PMI). La prima ha il potere economico, ma non ha immediatamente, oggi, quello politico (anche se può comunque esercitare una grandissima influenza): il PD non è riuscito a costruire consenso di massa intorno al grande capitale che ha ormai scelto come proprio referente, né il grande capitale è finora riuscito a dar vita ad un altro soggetto politico (il cosiddetto “nuovo centro”). La seconda è relativamente debole dal punto di vista economico – perché è costituita in gran parte da PMI ed è meno radicata nel gran mondo bancario-finanziario – ma riesce a costruire il consenso (Berlusconi).

Di fronte alla crisi le forze politiche si dividono in questo modo: il PD ed il centro sinistra lamentano l’esiguità delle risorse messe in campo dal governo, ma d’altra parte contrastano ogni tentativo di limitare il potere delle banche e così rendono impossibile ogni effettiva politica economica. Il centro-destra (attraverso Tremonti) tenta di contrastare le grandi banche, ma non riesce nel compito sia per orientamento di classe sia per l’assenza di risorse cagionata anche dall’avallo dato all’evasione fiscale. Il governo di centro destra dà comunque l’impressione di agire unitariamente ed efficacemente come governo, e così aumenta fino ad un certo punto il proprio consenso, che rischia di essere indebolito, piuttosto, dal suo stesso punto di forza, ossia dalla figura di Berlusconi.

E’ importante capire l’estensione del consenso del centro destra, perché è questo a spiegare la crisi della sinistra. Mentre la base sociale del centro destra è data dalle PMI e da una gran parte delle libere professioni, la sua base di massa è data dagli individui più marginali, sia dal punto di vista del genere, che dell’età, che del mercato del lavoro: casalinghe, pensionati, disoccupati, giovani e lavoratori precari. In particolare: mentre il centro destra ottiene circa la metà dei voti dei lavoratori “stabili” della grande industria ed è minoritario trai lavoratori del settore pubblico, ottiene invece la netta maggioranza trai lavoratori delle PMI, più esposti alla concorrenza, e trai lavoratori marginali. Insomma: il proletariato, quando vota, si rivolge in grandissima parte verso la destra, anche se non deve essere sottovalutato il fatto che la maggior parte dei voti operai persi sia dal PD che dalla sinistra radicale non sono andati a destra ma si sono rifugiati nell’astensione. E a destra vota soprattutto la parte più debole del proletariato, e cioè proprio quei lavoratori precari che la sinistra radicale ha preteso di rappresentare nella sfera politica, e che invece l’hanno percepita come partito dei lavoratori “garantiti”.

Il conflitto tra le diverse frazioni delle classi dominanti, la strategia personalistica di Berlusconi e gli effetti della crisi sociale rendono molto instabile il quadro politico italiano, che oscilla tra il rischio di precipitazioni autoritarie ed una (forse più probabile) forma esplicita o implicita di grosse koalition facente perno sulla Banca d’Italia e sul suo sempre più autorevole Governatore.

Non sarebbe peraltro impossibile una nuova e inedita soluzione di sinistra. Infatti, dal punto di vista elettorale, l’Italia può essere divisa in 4 zone: Nord Est, Nord Ovest, Centro e Sud. Mentre Nord Est e Centro sono relativamente stabili, il Nord Ovest e soprattutto il Sud sono molto più instabili: è stato proprio lo slittamento di voti in queste due zone a determinare il disastro del 2008. Lo sviluppo della crisi potrebbe allontanare dal governo molti operai del Nord Ovest e molti precari e giovani del Sud.

Gli ostacoli a questa possibile soluzione sono due. Il primo, e più importante, è la natura del PD, partito che ha scelto apertamente di rappresentare la frazione economicamente dominante del capitalismo italiano, e che, rispetto alla crisi, rimane attardato sull’idea del governo esterno del mercato piuttosto che dell’intervento politico diretto. Il secondo è l’irrisolta crisi della sinistra radicale, generata senz’altro dall’esperienza del Governo Prodi e dalla gestione verticistica ed affrettata dell’Arcobaleno, ma dettata soprattutto dalle sue incapacità di analizzare la realtà italiana e la frattura tra lavoratori garantiti e non garantiti.

La ripresa della sinistra radicale è possibile a tre condizioni: la definizione di un programma di governo (necessario anche per una politica di opposizione), il cambiamento dell’azione politica nella direzione del partito sociale, la costruzione di un soggetto politico fortemente autonomo dal PD e concorrenziale rispetto ad esso, ma pragmatico e capace di espansione.

Quanto al programma, esso dovrebbe basarsi prima di tutto sull’idea di un polo pubblico capace di attuare una politica industriale ed ambientale che sottragga il paese alla sua dipendenza dall’importazione di prodotti ad alta tecnologia, sostenga l’aggregazione delle PMI, favorisca processi di lavoro basati sulla competenza e sull’apporto dei lavoratori, lanci un piano di risanamento ambientale del Paese. L’assenza di questo polo pubblico è carattere specifico dell’Italia e causa principale delle sue arretratezze, ed è anche il punto che distingue una politica di sinistra all’altezza della situazione da una politica di sinistra inconcludente, astratta ed alla fine servile rispetto al capitale bancario. Il PD è del tutto sordo rispetto a questa idea, mentre gran parte della sinistra radicale sfugge alla questione ponendo l’accento soltanto su una sinistra dei diritti civili. Solo Rifondazione Comunista e la Federazione della Sinistra d’alternativa hanno posto con nettezza la questione, ma lo hanno fatto nella forma, in parte datata, della nazionalizzazione, mentre il problema attuale è soprattutto quello della direzione politica, che assume sia la forma della parziale nazionalizzazione che quella del coordinamento di soggetti privati nazionali e stranieri.

Secondariamente il programma deve prevedere il finanziamento del debito pubblico attraverso una dura lotta all’evasione fiscale e l’introduzione di imposte sul patrimonio e sulle plusvalenze finanziarie. Sulla lotta all’evasione è possibile trovare una convergenza col PD, mentre diversi esponenti delle stesse classi dominanti hanno sottolineato la necessità di imposte sul patrimonio. Ma il PD continua a pensare che il finanziamento della protezione sociale dei lavoratori debba essere trovato attraverso la riduzione delle prestazioni pensionistiche, secondo uno schema di sozialismus in einer klasse che serve solo a far pagare la crisi ai lavoratori stessi. Inoltre il programma deve prevedere un deciso superamento della precarietà, pur prevedendo forme di flessibilità “tutelata” laddove essa sia effettivamente necessaria. Sia il superamento della precarietà che la riforma fiscale devono essere condotte avendo sempre in mente la necessità fondamentale di unire mondi del lavoro molto diversi fra loro, tentando di connettere i precari, i garantiti e tutti quei lavoratori che ormai sono stati trasformati bon grè mal grè, in liberi professionisti. Infine, è necessario dar vita ad una autonoma politica estera, non condizionata, come vorrebbe il PD, dal preliminare assenso di Washington, che veda l’Italia rivolgersi al Nord africa, al Medio oriente ad alla stessa Teheran, riprendendo le migliori esperienze geopolitiche del Paese. Questa politica deve avere come scopo principale quello di lavorare per il multipolarismo e di accumulare le forze per imporre una accelerazione della politica unitaria europea. La crisi ha infatti confermato che sulle questioni essenziali la politica europea è politica intergovernativa: solo se è voluta da forti governi nazionali l’Unione europea è davvero possibile, e l’Italia, se è sufficientemente debole per aver bisogno dell’Europa unita, può divenire sufficientemente forte da contribuire ad imporre l’unità.

L’idea del partito sociale è una delle poche acquisizioni positive fatte dalla sinistra radicale italiana in questi tempi. Si tratta di capire che, nell’epoca dell’individualismo crescente e dato il carattere debole del welfare italiano, non è possibile avvicinarsi davvero ai lavoratori ed ai cittadini se non si propongono loro immediate, per quanto parziali, soluzioni concrete e mutualistiche alle loro più serie esigenze. L’importanza dell’autonoma associazionismo popolare in Italia non deve essere sottovalutata: una delle ragioni della persistenza del voto “rosso” nell’Italia centrale è proprio la persistenza e l’eredità di questo associazionismo, che è stata la base del radicamento del movimento socialista prima e del PCI poi.

Infine, la costruzione di un efficace soggetto politico della sinistra di alternativa deve basarsi su due presupposti: l’autonomia dal PD e l’articolazione di diversi soggetti politici e sociali.

Quanto alla necessità di un soggetto autonomo dal PD, la crisi ha dimostrato che senza un soggetto dichiaratamente anticapitalista è impossibile comprendere le ragioni della crisi stessa e i modi per affrontarla. Ha quindi confermato la giustezza della scelta di chi, dentro Rifondazione comunista, ha resistito all’idea di sciogliere il partito dentro un contenitore indistinto, incapace delle chiare scelte che la situazione impone.

Nello stesso tempo, però, ha confermato l’inadeguatezza delle sole forze comuniste e ha posto ulteriormente la necessità di una federazione capace di unire le diverse esperienze che in questi anni si sono mosse a sinistra del PD. Questa federazione, che sta muovendo i primi passi e che già accoglie importanti esperienze sindacali e di movimento, nonché orientamenti di carattere socialista ed ambientalista, può aprirsi anche all’apporto di quei compagni che, fuoriusciti da Rifondazione nonostante avessero la possibilità di una gestione unitaria del partito, stanno sperimentando l’impossibilità di un rapporto privilegiato col PD basato sull’esclusione o sull’indebolimento di Rifondazione.

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