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sole24ore

Nei pollai degli immigrati che hanno costruito Dubai

Angelo Mincuzzi

DUBAI - Rajendra fa segno di togliersi le scarpe, infila la mano in una finestra e apre la serratura bloccata dall'interno. La porta si spalanca su uno sgabuzzino di tre metri per tre. Lungo le pareti sei letti a castello di metallo nero. E nient'altro. Nessun armadio, nessuna sedia, nessun tavolo. Ci siamo tolti le scarpe, ma non c'è pavimento da calpestare. A Sunafur, estrema periferia di Dubai, poco dopo l'aeroporto e al confine con l'emirato di Sharjah, 200mila persone come Rajendra vivono in un buco come questo. Sunafur è il villaggio degli invisibili, il luogo delle non-persone, dove la sera migliaia di pullmini della Tata e della Daewoo scaricano le mani che hanno costruito Dubai.

«Sono arrivato qui dal Nepal, tre anni fa – racconta Rajendra –. Sono aiuto elettricista e guadagno 900 dhiram al mese, circa 180 euro. Faccio undici ore di lavoro al giorno, sei giorni su sette, trenta giorni di ferie ogni anno, e a fine mese riesco a mandare 500 dhiram alla mia famiglia in Nepal».

Sul ballatoio al secondo piano della palazzina color sabbia sono stese ad asciugare centinaia di tute blu: un mare di tute che si agita come le onde rompendo la monocromia del beige pallido che sotto il sole appiattisce tutto e stordisce le menti. «Da questa parte», dice Rajendra. Poco più avanti c'è la cucina comune. Una stanza lunga e stretta. Su tre file sono disposti una quindicina di fornelli e un lavandino dove un uomo pulisce il pesce per la cena. Ancora porte lungo il ballatoio e poi i bagni, allineati come quelli di una caserma. Ogni piano è simile a questo, ma tutto all'interno è pulito e ordinato.

Sunafur è un villaggio di soli uomini. Duecentomila uomini e neppure una donna. È un crogiuolo di nazionalità: indiani, tantissimi, e poi pakistani, bengalesi, nepalesi, iraniani, iracheni. Stipati come polli in palazzi di due o tre piani, in celle dove dormono anche in otto. È il luogo dove i turisti che si ustionano al sole delle spiagge e gli uomini d'affari che gelano nell'aria condizionata degli hotel di lusso non vedranno mai. La vergogna sulla quale è stata edificata la fortuna di Dubai.

Qui ogni immigrato vive in una palazzina che appartiene alla società per cui lavora. Come su un negozio, le insegne delle compagnie sono appese sulla facciata di ogni edificio: Emirates, Looteh contractor, Canadian. Ciascuna con i suoi colori e con i suoi caratteri differenti. Ma tutte su palazzi sempre uguali, dello stesso, identico colore. Come quello della sabbia che impolvera le strade, e della desolazione di un luogo che va nascosto come una discarica.

Rajendra è nervoso. Ha paura che il suo gesto di ospitalità possa creargli dei problemi. Scuote la testa quando viene pronunciata la parola tabù. «I sindacati? – si guarda intorno e gesticola – No, no, qui non ci sono sindacati». E i diritti? «Quali diritti? Noi lavoriamo e basta». E la sicurezza nei cantieri? Rajendra è in difficoltà. Non sa rispondere. Questo ragazzo di 25 anni, basso, dalla pelle scura ma dai modi gentili non sa nemmeno cosa significhi tutto ciò. A pochi chilometri da qui, nei giganteschi mall con migliaia di negozi – i più lussuosi del mondo – ragazzotti ben vestiti della sua stessa età spendono in pochi minuti ciò che lui guadagna in un anno, ma Rajendra i sindacati non sa nemmeno cosa siano. Sebbene quei mall li abbia costruiti anche lui.

Al piano terra dell'edificio Sharad, un indiano anche lui qui da tre anni, ha improvvisato una piccola attività artigianale. Dietro una vecchia macchina da cucire Singer si affanna a riparare l'abito di un suo compagno di lavoro. Spiega: «Guadagno 200 dollari al mese se lavoro otto ore al giorno. Arrivando a undici sono altri 80 dollari. Undici ore sono tante e sul cantiere resto di solito dodici ore perché una è per la pausa. Faccio il sarto per arrotondare». Undici ore al giorno per 26 giorni lavorativi fanno 286 ore. Con una paga di nemmeno un dollaro all'ora questi uomini hanno costruito il più alto grattacielo del mondo, l'isola artificiale più pazzesca che sia mai vista, i centri commerciali più maestosi. Ma restano pur sempre gli invisibili. I più poveri. E i più colpiti dalla crisi.

Rajendra ci tiene a dirlo: «Negli ultimi mesi sono aumentate le società che non pagano gli operai. Si resta per mesi senza stipendio, ma non abbiamo nessun'altra possibilità che restare qui. E sperare che prima o poi riprendano a pagarci». Per far fronte a quello che rischia di diventare un problema esplosivo, il governo di Dubai ha emanato una legge che cancella la licenza di operare alle società che per più di due mesi non versano gli stipendi. Ma occorre che gli operai protestino, con il rischio di espulsione.

Di fronte a questo spauracchio c'è però ben poco da fare. Gli appartamenti vuoti e i progetti bloccati per mancanza di soldi dopo l'esplosione della bolla immobiliare stanno mettendo in ginocchio numerose società. Che per ora ritardano o bloccano il pagamento degli stipendi, ma domani potrebbero chiudere gettando sul lastrico migliaia di immigrati.

Mentre Sharad continua a pigiare sul pedale della sua Singer, Rajendra si avvia verso il vicino supermarket. Nella città delle non-persone, che ha più abitanti di Brescia, ci sono anche i negozi con i loro banchetti di alimenti etnici. Rajendra e gli altri invisibili come lui non hanno nulla da fare nel loro giorno libero. Non ci sono svaghi nelle vie desolate. Se non aspettare l'indomani, quando saliranno sui pullmini della Tata e della Daewoo a costruire un altro pezzo della Disneyland che affonda nei debiti.

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