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manifesto

Nella terra di nessuno

Marco Revelli

scontri valdisusa2«Ma col passare degli anni, non senza crescente stupore, mi sono accorto di soffrire di un'afflizione rimossa e sgradevole, un male che si dichiara in queste pagine, sia pure velatamente, a partire da una certa data: l'incapacità, o l'impossibilità, di sentirmi un cittadino del mio paese». Sono le parole con cui Cesare Garboli apriva la sua raccolta di Ricordi tristi e civili, nel gennaio del 2001, come ha ricordato, due giorni or sono, sulla piazza di Empoli, Adriano Prosperi in uno splendido ricordo dell'amico troppo presto scomparso.

Esprimono un sentimento privato. La caduta di una speranza. La coscienza di un'impotenza e di una solitudine tra tanta folla e brusio.

Ma anche un atteggiamento collettivo. La coscienza di un pezzo d'Italia che vive da esule la propria cittadinanza. E che con cadenze ricorrenti, ma inesorabili, misura di volta in volta la propria estraneità rispetto al proprio paese. Per Garboli, i primi sintomi di quella malattia della coscienza di luogo

si manifestarono alla fine degli anni Settanta, dopo l'assassinio di Aldo Moro, quando dal sottofondo fangoso della transizione in corso emerse un'Italia incapace di vivere la propria tragedia se non nella forma festosa e vacua dello spettacolo grottesco. Insieme «tartarea», come scrisse, ed «euforica». Per Bobbio, quella linea di non ritorno fu segnata dalle stragi di Falcone e Borsellino, che gli fecero esclamare di vergognarsi di «essere italiano». Per altri - Galante Garrone, mio padre, le generazioni della Resistenza e della Costituzione -, sarà il 1994, il «trionfo della vanità» che portò il guitto delle televisioni al vertice dello Stato. Poi Genova, luglio 2001: lo spettacolo crudele di tutte le vecchie Italie riemerse ad un unico segnale da tutti i loro peggiori passati per infierire sul corpo giovane, esposto, di una nuova generazione che si affacciava, ingenua e curiosa, all'impegno civile. Piazza Alimonda, Corso Italia, Bolzaneto, la scuola Diaz: ancora una volta, sotto gli occhi del mondo, ostentata, offerta allo sguardo nudo dei media, la prova di un'inciviltà atavica mai in realtà superata. Di un arbitrio inseparabile dal potere e dal «senso dello stato» di quelli che ne dovrebbero essere i «tutori» e i garanti. La sentenza di oggi ne è la sanzione. Archivia, con un'alzata di spalle e un ammiccare di sguardi, l'orrore di quelle giornate. Sancisce la normalità dell'abnorme. Proclama l'irrilevanza pubblica della trasgressione estrema. Non sono negati i fatti. Né confutati i testimoni. Anzi: tutto ciò che abbiamo ascoltato, le sevizie, gli oltraggi, i corpi umiliati e colpiti, con sistematicità, per giorni, è assunto come vero. La tortura - il termine indicibile, il confine varcato -, c'è stata. Ma non trova termini giuridici per essere espressa. Nello spazio pubblico e giuridico italiano, la sua pratica non può essere riconosciuta come rilevante. Per questo chi l'ha compita, chi ha varcato quel confine, se ne può andare assolto. O con piccoli, impercettibili graffi sulla fedina penale. Continuerà a rappresentare lo «Stato». Ne interpreterà l'essenza arbitraria. Sarà il «noi» collettivo in cui dovremmo specchiarci. Questo è l'aspetto più odioso di quella sentenza: lo scarto, osceno, che c'è tra i fatti accertati e la loro traduzione giudiziaria. Tra l'enormità della ferita e la leggerezza del giudizio. In quello iato, in quella terra di nessuno tra l'oltraggio dei corpi e il non cale della legge, sta per intero la ragione del nostro esilio civile. Il senso del nostro essere - irrevocabilmente, irreversibilmente (per citare ancora Garboli) - «senza patria».

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