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Crisi della finanza, trasformazioni della democrazia, critica della politica

La moneta e la finanza globale

di Christian Marazzi


Tutto ciò che sembrava delineare un funzionamento normale della finanza negli anni Settanta è oggi scomparso, e per questo le teorie economiche si dimostrano obsolete. Negli ultimi decenni, tutto si è trasformato all’interno della finanza e delle sue regole sia per quello che riguarda la gestione del debito pubblico e il finanziamento degli investimenti sia per quello che riguarda invece la gestione delle imprese e soprattutto la creazione di posti di lavoro. Il fatto più rilevante: la finanza ha ormai preso il posto della creazione monetaria, che era stata una costante nel corso dei famosi trenta gloriosi anni del dopo guerra. Durante questa fase di crescita generalizzata del capitalismo occidentale, grazie al legame tra il Ministero del Tesoro e la Banca centrale, le autorità monetarie disponevano del potere di creare liquidità di moneta. Le autorità monetarie avevano, in questo modo, la possibilità di coprire i debiti generati dalle politiche di deficit spending, prima di tutto attraverso una creazione di moneta ex ante che anticipava il divenire-capitale di questa moneta immessa nel circuito economico dalle autorità statali. La moneta così creata e immessa nelle reti bancarie per acquistare dei titoli - i buoni del Tesoro –costituiva una sorta di creazione di reddito ex ante

che si doveva trasformare in crescita economica, in profitti e in creazione di posti di lavoro. A partire dagli anni Settanta vi è stato un profondo cambiamento in questo approccio monetario della creazione di liquidità e della crescita sostenuta e stimolata dallo Stato. La gestione della crisi fiscale dello Stato [1] di New York, nel 1973, costituisce una vera svolta e la sua analisi è importante per capire le trasformazioni iniziate da allora su scala (finanziaria) globale. All’inizio degli anni Settanta New York aveva conosciuto un forte afflusso di popolazione che emigrava dagli Stati del sud degli Stati Uniti. Si trattava di disoccupati o di persone che occupavano posti poco qualificati. Queste persone, immigrate e povere, esercitavano una forte pressione sullo stato sociale newyorkese. Parallelamente, le imprese industriali fuggivano dalla città di New York, generando un processo di deindustrializzazione e contribuendo così all’affossamento del debito pubblico. Gli investimenti privati hanno seguito l’esodo delle imprese industriali e hanno abbandonato i titoli di debito della città di New York, i city bonds. Si sono rifiutati di finanziare la città aiutandola a sopravvivere dal punto di vista fiscale. La soluzione a questa crisi fiscale è venuta dai sindacati del servizio pubblico che hanno utilizzato i fondi pensione degli impiegati del servizio pubblico per comprare i city bonds, le obbligazioni della città che non trovavano più acquirenti.

Finanza, fondi pensione e biocapitale Nel 1976, Peter F. Drucker [2] riflette su questa trasformazione che interpreta nei termini di un «socialismo dei fondi pensione». Si tratta di un’intuizione straordinaria. Peter F. Drucker, sicuramente uno dei più grandi esperti di management della gestione delle imprese private, coglie in questa nuova gestione del debito un processo di socializzazione dei mezzi di produzione, cioè il fatto che il risparmio della collettività viene utilizzato per acquistare delle azioni, delle obbligazioni. E’ in questo senso che vi sarà una sorta di socializzazione dei mezzi di produzione. Ben inteso, questo è vero solamente in un senso e in un’accezione molto particolare. Questa esperienza apre la strada a ciò che diventerà la finanza nelle forme contemporanee, cioè uno slittamento sui mercati finanziari dei risparmi della collettività: i fondi pensione, i fondi di investimento che raccolgono il risparmio e che finanziano il mercato borsistico. Ma l’aspetto più interessante di questo spostamento dei fondi pensione degli impiegati del settore pubblico si regge sulla sua dimensione politica. A causa di questa operazione, ogni alleanza politica tra gli impiegati del settore pubblico e i proletari che chiedevano sussidi sociali è spezzata, poiché quelli, il cui risparmio è investito nei titoli del debito della città, hanno interesse ad una normalizzazione della vita degli altri, ad una razionalizzazione, ad un disciplinamento dei loro comportamenti. In effetti, fino alla metà degli anni Settanta, si tessevano alleanze al livello di sportelli, di servizi pubblici, di uffici di aiuti sociale che assicuravano la creazione e la distribuzione di un reddito. Queste «complicità» costituivano la «micropolitica» del welfare. Si sono rotte con la messa a valore dei risparmi dei funzionari, sotto forma di city bonds, sui mercati finanziari. Si tratta perciò di disciplinare i poveri che domandano sussidi sociali e che si aspettano una «complicità», un’interazione, un rispetto relativo ai loro bisogni e alla loro vita. Abbiamo qui il più importante elemento anche se il più dimenticato. Che significa la finanziarizzazione del capitale, se non che iniziamo a concepire per la prima volta, una messa a valore della vita? Perché i fondi pensione? Cosa sono fondamentalmente? E’ l’investimento nel salario differito. E’ la nostra vita futura che viene messa nelle mani del capitale. E’ a partire da qui che si può parlare di un biocapitale, della capitalizzazione finanziaria di una parte importante della nostra vita, una parte nella quale noi non lavoriamo più, la pensione. E’ a volte difficile concepire esattamente cos’è la biopolitica, il biocapitale, la messa al lavoro della vita. La vita nella prospettiva di una storia del capitalismo finanziario degli ultimi 35 anni, è la vita dei pensionati. L’esperienza di questi ultimi anni, attraverso le frequenti crisi finanziarie ci ha fatto capire molto bene il senso dell’investimento in borsa del salario differito: intanto che si attende l’età della pensione, si beneficierà di una rendita che sarà la metà di quella che avevamo previsto. Il reddito di vita è legato al destino del capitale, al rischio del capitale. E’ quella la vera forma della società, la vera forma del rischio. Vi sono le centrali nucleari, d’accordo, ma vi è anche il fatto che il destino dei proletari, dei lavoratori, di noi tutti, è legato a quello del capitale. Vi è ora, per la prima volta, un superamento della separazione tra capitale e lavoro. E’ questo il progetto, l’utopia capitalista. La contraddizione cessa di essere «spazializzata» con il capitale da un lato e la forza lavoro dall’altro. La contraddizione attraversa ormai l’essere umano. E’ in noi. E’ facile immaginare questa contraddizione. Se voi siete risparmiatori avete interesse al fatto che l’investimento dei vostri risparmi sia redditizio. In quanto lavoratori, al contrario, ne subite le conseguenze. E’ dunque difficile tradurre le contraddizioni in termini ideologici. E’ la schizofrenia pura e semplice. Diventa molto difficile distinguere il dentro dal fuori poiché il dentro e il fuori sono in noi. Vi è qualcosa di patologico.

Finanza, lavoro cognitivo e divenire rendita del profitto Il blocco della crescita fordista-keynesiana costituisce un secondo fattore esplicativo della finanziarizzazione. Negli anni Settanta vi è stato un fenomeno di determinazione della crescita dei profitti (la famosa «saturazione dei mercati»): gli investimenti massivi in capitale costante (le macchine) non permettevano più l’estrazione di un plusvalore rilevante. Il trasferimento dei capitali sui mercati finanziari ha permesso di realizzare i profitti che la fabbrica non era più in grado di fornire. La finanziarizzazione ha quindi permesso di delineare questo blocco storico. E’ la fine del modello della crescita fordista-keynesiano, il potere di cattura si trasferisce al di fuori della fabbrica, dal momento in cui la fabbrica non è più in grado di generare plusvalore e di innovare. Diventa sempre più oneroso innovare al livello del processo di produzione: le imprese sono divenute enormi, le strutture produttive troppo pesanti per dare il via a nuovi cicli di accumulazione. La crisi del fordismo e il ricorso alla finanza esplicano questo espediente per recuperare all’esterno, sui mercati borsistici, ciò che non si riesce più a produrre all’interno della fabbrica. Questa spiegazione della finanziarizzazione è ripresa dalle forze di sinistra che denunciano la scelta «improduttiva» del capitale rispetto a un «dovere storico» di produrre, di innovare e di creare posti di lavoro. E’ diventato un luogo comune: «al posto di fare profitti, si fanno rendite». Questo modo di interpretare la finanziarizzazione resta molto determinato da una logica fordista: il capitale industriale è il solo ad essere produttivo, tutto ciò che viene prodotto dalla finanza è improduttivo. È vero che da un punto di vista antropologico, i «nuovi barbari» – i rappresentanti della finanza – non ci aiutano a vedere in questo passaggio una nuova configurazione del capitalismo, diciamo «cognitivo». In effetti, questo capitale è altamente produttivo, anche se non lo è direttamente nella fabbrica. L’interpretazione secondo la quale il capitale finanziario sarebbe improduttivo è prigioniera di una rappresentazione che risale al secolo scorso. In questa prospettiva, la separazione tra il profitto e la rendita ricalca la divisione tra la fabbrica e la società, che sembra però essere molto lontana dalla realtà attuale. Per riassumere, a partire dalla fine degli anni Settanta, il blocco dei profitti porta con sé una riduzione degli investimenti ed una debole creazione di posti di lavoro. La «lunga marcia» verso la finanziarizzazione che segue questa crisi del profitto sarà resa possibile dall’attacco diretto contro i sindacati nelle fabbriche. Permetterà dunque di liberare i capitali dei fondi pensione e di orientarli verso i mercati finanziari. Fino a che i sindacati erano forti nelle fabbriche, vi era un ostacolo maggiore alla capitalizzazione dei fondi pensione. Vi era ancora il primato delle redistribuzioni calcolato sulla base dell’attività professionale. Infine sotto la presidenza di Reagan, negli Stati Uniti, il processo si è accelerato e il principio del primato della capitalizzazione ha permesso di far affluire i fondi pensione sui mercati borsistici. Ma bisogna insistere su un punto, spesso fonte di confusione: la finanziarizzazione non costituisce una modalità di finanziamento degli investimenti. Le imprese non ricorrono ai mercati finanziari per finanziare gli investimenti, preferiscono autofinanziarsi; utilizzano i propri fondi fino al 90 % del loro bisogno di finanziamento. Ricorrono ai mercati finanziare per accrescere la parte di «rendita», quella che non è generata all’interno dell’impresa. Vi è effettivamente un elemento molto forte di rendita nella finanziarizzazione. Tuttavia, a questo elemento di rendita non corrisponde più un blocco della crescita industriale, perché la crescita industriale si dà a partire da una cattura di valore che si trova, anche questa, al di fuori dell’impresa. La finanziarizzazione deve essere compresa quindi come un dispositivo di cattura del valore generato al di fuori dell’impresa. Un valore che si dà in forme che sono proprie della dinamica del mercato del lavoro: flessibilità, precarietà, creatività. L’emergenza di una potenza vitale che è la vera fonte del valore economico, e che non si nutre più esclusivamente della messa al lavoro nell’impresa sotto le forme contrattuali o salariali. Carlo Vercellone [3] ha sviluppato un’ottima analisi del «divenire rendita del profitto». Vi è del profitto all’interno della rendita. Prendiamo l’esempio dell’utilizzo dei fondi pensione per valorizzare il capitale finanziario. I fondi pensione danno la possibilità di catturare una parte della vita delle persone pensionate, di dargli un valore che dipenderebbe altrimenti dalla ripartizione tra il valore creato dalla parte attiva e il valore creato dalla popolazione, diciamo «inattiva», quella dei pensionati. La finanaziarizzazione deve essere intesa come un passaggio dalla fabbrica alla società, dall’ Homo oeconomicus fordista all’homo oeconomicus postfordista, o in ogni modo all’operaio sociale che produce anche se non è direttamente legato a un luogo di produzione, che produce con il solo fatto di essere in vita. Alla fine degli anni’70 , nello stesso momento in cui il processo di finanziarizzazione si innesca generando la svolta di cui si parla in questo articolo, nei suoi corsi al College de France pubblicati solamente nel 2004, Michel Foucault analizzava praticamente tutto ciò che noi abbiamo provato a comprendere in seguito. Rifletteva in tempi reali rispetto al passaggio al neoliberalismo e vedeva che si stava passando dall’homo oeconomicus come uomo dello scambio all’homo oeconomicus come uomo della produzione. Segnala un passaggio cruciale: il divenire produttivo dell’essere e della vita. Nel nuovo sistema produttivo ci si aspetta ancora la nostra messa a valore, il lavoro dei nostri affetti, delle nostre emozioni dei nostri sentimenti del nostro linguaggio, delle nostre capacità relazionali. E’ una questione microeconomica che i sociologi del lavoro che hanno studiato il toyotismo hanno ben descritto, ma che va molto al di là dell’impresa e riguarda la nuova configurazione dell’impresa e di quello che sta diventando la società intera. Non vi sono più, oggi dei laboratori di ricerca e sviluppo (R & D) nelle grandi imprese. O piuttosto se vi sono, e sicuramente ci sono, la vera ricerca e la vera innovazione risultano da un processo di incontro dei saperi. Ciò dipende molto dalle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione, ma soprattutto da una nuova forza di lavoro «cognitivo» che è capace di produrre più di tutto ciò che si potrebbe aspettare da una produzione di laboratorio. Vi è un’eccedenza legata ala fatto che non si tratta solo di essere sociali, ma anche di esseri capaci di creazione, innovazione, e di produzione di saperi. Quest’idea è fondamentale, appunto, per capire come la finanziarizzazione permetta di vampirizzare il valore che si crea al di fuori delle imprese.

Gli insegnamenti della crisi finanziaria del credito immobiliare e dei subprime La finanziarizzazione ha bloccato e messo in crisi il ruolo del ministero del Tesoro e della Banca centrale, creatori di moneta in ultima istanza per iniettare denaro, per creare una domanda al di là della domanda creata dall’economia privata, dalle imprese. Oggi, i debiti pubblici sono finanziati dall’acquisto di titoli, come sempre d’altronde, ma i titoli oggi sono acquistati da una comunità di investitori che condizionano terribilmente i margini di manovra delle autorità locali nazionali. Le banche centrali hanno perso l’autonomia relativa, della quale beneficiavano prima, nella loro possibilità di creare moneta. L’indipendenza della Banca centrale al cospetto di quella del ministero del Tesoro è in realtà la forma della sua dipendenza dai mercati. E’ sufficiente ricordare i criteri di Maastricht: se ne uscite, rischiate di esserne penalizzati da una fuga di capitali, vi è una leva di ricatto di grande potenza. Ed è in questo senso si può parlare di una «privatizzazione della moneta», poiché l’autorità monetaria dipende dalle decisioni di investimento sui mercati finanziari. E vi è anche una sorta di «privatizzazione della moneta», nel momento in cui si guarda alle operazioni di fusione-acquisizione. Le imprese che comprano delle altre imprese non lo fanno solamente con il denaro ma con delle azioni, dei pacchetti di azioni che sono una forma di privatizzazione, di metamorfosi della moneta. Ciò vuol dire, da un lato, si utilizzano le azioni come moneta per compiere delle fusioni tra le imprese e, dall’altro le oscillazioni dei valori in borsa condizionano la Banca Centrale, costretta a monetizzare e far circolare liquidità laddove vi è un rischio di prosciugamento dei mercati indotto dai mercati finanziari. Non si può dire che la moneta sia privatizzata propriamente parlando, ma la logica monetaria dipende sempre più dal mercato privato. Questo detiene, dispensa o ritira il denaro secondo i suoi bisogni e desideri. Come conseguenza, non vi è più controllo pubblico sulla circolazione monetaria. Da questo punto di vista, la crisi dei subprime negli Stati Uniti è uno degli esempi più evidenti. Mi limiterò in questa sede a qualche considerazione su questa crisi che meriterebbe invece un’analisi ben più vasta. Per cominciare, la crisi dell’agosto 2007 si è scatenata dopo diversi anni di forte espansione del credito immobiliare, espansione che era seguita alla crisi della bolla Internet. Ciò dimostra che in assenza di un deficit spending pubblico di tipo keynesiano (welfare state), il capitale ha bisogno di altri dispositivi di domanda supplementare a mezzo di indebitamento. In altri termini, si è passati da un deficit spending pubblico ad uno privato per sostenere la domanda globale di beni e servizi. Il debito pubblico non è sicuramente scomparso, sicuramente non negli Stati Uniti, dove la leva fiscale è largamente insufficiente per equilibrare le crescita delle spese pubbliche (tra cui le spese militari ricoprono una voce molte importante). Perciò, il sostegno della domanda globale si fa a mezzo dei mercati finanziari e delle banche, come nel caso dei subprime. Una prima conseguenza di questa privatizzazione del deficit spending keynesiano sta nel fatto di esser passati dai diritti di proprietà sociale ai diritti di proprietà privata: la casa è un diritto, ma un diritto promesso dal capitale, un diritto che non è più un diritto sociale come nell’epoca fordista- keynesiana, ma un diritto privato e dunque condizionato dal ciclo del capitale, dalle sue contrazioni e dalle sue espansioni. La finanziarizzazione dell’economia, attraverso i suoi modi di funzionamento, ha bisogno di includere un numero crescente di economie domestiche nella produzione di valore (immobiliare, ma non solo, come è stato nel caso delle bolle finanziarie). È la faccia espansiva del deficit spending privatizzato. Da una parte, la cartolarizzazione dei subprime rappresenta una leva possibile e formidabile per la creazione di credito. Dall’altra, la distribuzione del rischio nel portafoglio di un gran numero di investitori su scala globale, attraverso i mercati dei titoli di credito, non ha fatto che rendere più fragili i rapporti tra le istituzioni monetarie, dai grandi investitori (i fondi pensione) alle banche di investimento. Cosa che ha ugualmente costretto la Banca centrale a intervenire massicciamente al fine di evitare una crisi catastrofica, in un momento in cui il reddito disponibile delle economie domestiche si è rivelato insufficiente per garantire la continuità del rimborso dei crediti. È il lato oscuro dei diritti della proprietà privata: si ribaltano e diventano dei puri debiti nel momento in cui la fiducia tra i soggetti privati è compromessa, in questo caso preciso, si tratta della fiducia tra le banche. La crisi di fiducia tra soggetti privati segnala in questo senso la crisi della regolazione pubblica della circolazione monetaria. Un altro aspetto della crisi dei subprime riguarda la formazione di ciò che Keynes chiamava «convenzioni». La «convenzione immobiliare» come nel caso della «convenzione Internet», si forma in seguito del processo di elezione/esclusione che costituisce dei veri dispositivi di orientamento delle decisioni degli investitori. Il ruolo del simbolico, della comunicazione massmediatica, dei desideri, è lontano dall’essere secondaria nella formazione di tale convenzione. Ma è importante ricordare che dietro la dimensione simbolico-comunicativa vi sono dei processi strutturali profondi che agiscono. Nel caso della «convenzione immobiliare», il processo di disinflazione è stato un fattore importante. Questo processo riguarda tanto la precarizzazione del lavoro che la stessa globalizzazione, in particolare con l’entrata sulla scena mondiale della Cina e dell’ India. Questi due paesi hanno raddoppiato in molto poco tempo il mercato della forza lavoro. La compressione dei salariati da una parte, il disequilibrio al livello del risparmio globale (assenza di risparmio nei paesi sviluppati, eccedenza di risparmio nei paesi emergenti) d’altra parte, hanno disequilibrato non solamente i flussi di capitali, ma anche i valori dei titoli borsistici. La disinflazione ha portato verso il basso i tassi di interesse e con questi i valori dei titoli della Borsa. Questo processo strutturale ha spostato gli investimenti verso il settore immobiliare. Ci si può attendere a questo punto, dopo la bolla immobiliare, che la prossima «convenzione» si sposti sulle energie alternative. Tutto sembra andare in quella direzione, tanto l’aumento dei prezzi del petrolio che la «cultura» dello sviluppo sostenibile, sempre più apprezzato dalle imprese multinazionali per assecondare gli orientamenti dei consumatori. E’ certo che gli intervalli che separano le due crisi finanziari si sono molto ridotti: in media ogni tre anni dal 1987 e fino ad oggi. Parallelamente a questo stop and go finanziario, assistiamo ad una espansione delle infrastrutture della vita attiva (rete di comunicazione, immobiliare, dell’energia) e un’amplificazione/inclusione sociale della moltitudine. In questa spirale, la creazione e la distribuzione di un reddito sociale che sostituisca la precarietà del reddito privato diventa una necessità, prima ancora di essere un obiettivo politico.

Risocializzazione della moneta e reddito garantito Su quelle basi si può dare una forma monetaria a questa rivendicazione più che legittima? E’ chiaro come prima cosa che oggi il modo di ragionare rispetto alla questione del reddito sociale garantito consiste nel porre e assumere la caratteristica produttiva dell’essere umano. Si tratterebbe di concepire un reddito sociale garantito in quanto reddito primario, come salarizzazione non più di un diritto ma di una potenzialità, nella giusta linea della «biologizzazione del capitale» di cui si è qui trattato. Il reddito sociale garantito ha ormai una storia abbastanza lunga. E’ cominciata negli anni Sessanta e ogni dieci anni diventa oggetto di nuove interpretazioni e di nuovi orientamenti politici. E’ impossibile darne una definizione assoluta, tecnica, modellizzata. Negli anni Ottanta, il reddito sociale garantito era pensato rispetto alla crisi del lavoro indotta dalla crisi del modello di crescita fordista-keynesiano. Vi era allora una disoccupazione di massa e il reddito sociale garantito si ritrovava nell’espressione «meno per lavorare tutti». Poi, negli anni Novanta si forma una nuova concezione, legata questa volta alla flessibilizzazione del lavoro. Vi era l’idea, cioè, che la flessibilità implicasse una produttività transitoria: non si poteva essere flessibili se non si era in qualche modo produttivi, anche quando non si era mai stati impiegati. Vi è stata in seguito un’idea del reddito garantito secondo la quale si era considerati come produttivi anche se non si lavorava, persino tanto più produttivi meno si lavorava. Nel momento in cui si guarda la televisione, per esempio, si produce audience e dunque pubblicità e dunque profitti. Allora poiché si produce non lavorando, si ha diritto ad un salario. Oggi, l’attualità del reddito sociale garantito è legata alla centralità della produzione e del valore in quanto produzione di forme di vita. La questione del finanziamento del reddito sociale garantito s’impone. Si possono riconsiderare [4] alcune idee che circolavano molto negli anni Settanta a proposito della creazione monetaria: la creazione ex nihilo di denaro, la creazione a partire da nulla. Questa idea può sembrare molto misteriosa, ma gli economisti che hanno vissuto questa grande epoca teorica la conoscono molto bene. Quando l’impresa paga i salariati, lo fa a partire da un capitale-denaro preesistente. In realtà il denaro non esiste, è creato sulla base di una promessa di pagamento di una banca secondaria, essa stessa monetizzata dalla Banca centrale. Questo pagamento si effettua quando i lavoratori cominciano a lavorare, dalla loro prima settimana. Allora, questo denaro che è stato creato a partire da nulla ha già un supporto di valore, dal quale viene versato il salario al lavoratore. Vi è dunque un divenire-capitale, un divenire-salario del denaro creato. Questo è lo stesso fondamento della teoria del circuito economico che permette di introdurre la nozione di pagamento. In realtà il denaro non si crea però a partire da nulla. Il denaro è creato ex nihilo dal punto di vista materiale, ma è creato piuttosto «ex separazione», poiché l’impresa possiede i mezzi di produzione, i quali sono separati dalla forza lavoro. E’ sulla base di questa separazione che dispone di un diritto a ricevere la promessa di pagamento da una banca. Un individuo, in quanto individuo qualunque, non beneficia di questo diritto. Dunque, è a partire da un’asimmetria di potere che vi è questa creazione monetaria. Questa idea di creazione monetaria ex nihilo è interessante, perché si può sicuramente prevedere di ristabilire una certa autonomia a partire dalla creazione del denaro, al di là dei limiti della finanziarizzazione. E questi limiti sono veramente ristretti: la finanziarizzazione riduce considerevolmente sia il margine di manovra in ciò che concerne la libertà di creazione di reddito al livello locale sia l’autonomia politica nella creazione e nella gestione monetaria. La creazione di denaro ex nihilo ci permette di riflettere su una cosa che è cruciale nei dibattiti e nei movimenti politici. La questione non è di sapere se la distribuzione di reddito ci rende «complici», se fa di noi, inesorabilmente, delle componenti della macchina, se significa la fine della nostra autonomia, della nostra separazione. L’interesse della creazione di denaro ex nihilo si basa sul fatto che tra la creazione di denaro e il suo divenire-capitae, vi è un tempo: il tempo della soggettività, il tempo della valorizzazione, il tempo in cui noi siamo messi al lavoro e produciamo capitale. Il ragionamento potrebbe essere il seguente: se la produzione di capitale oggi passa attraverso la produzione della vita (la messa al lavoro della nostra vita che fa sì che si possa parlare di bioeconomia e di biocapitale), allora il pagamento (il versamento di una salario), non vuol dire che la nostra vita è inesorabilmente messa al servizio del capitale? Vi è un tempo, il tempo della soggettività, il tempo della trasformazione, un tempo durante il quale si gioca il rischio di una messa al lavoro della vita, ma che non è calcolato esattamente. È ciò che succede con la soggettività quando entra nell’impresa. Era la stessa cosa al tempo di Marx. Quando gli dicevano: «Non serve a niente lottare per l’aumento dei salari, perché allora il capitale va ad aumentare il prezzo, e il salario reale diminuirà lo stesso», egli rispondeva in sostanza: «No attenzione! Vi è un tempo tra l’aumento del salario nominale e la sua regolazione in termini reali. E’ il tempo della vita, il tempo della soggettività che è il tempo delle lotte, dell’organizzazione». Il divenire-capitale del denaro sotto la forma della salarizzazione della vita comporta un lasso di tempo per una vita che può essere altro rispetto alla sua messa al lavoro.

* Traduzione dal francese dell’articolo apparso sul numero 32 del 2008 della rivista Moltitudes (traduzione a cura di Giuliana Visco).

[1] O’ Connor J., 1973, The Fiscal Crisis of the State, Palgrave Macmillan.

[2] Drucker P.F., 1976, The Unseen Revolution: How Pension Fund Socialism Came to America, HarperCollins, New York.

[3] Vercellone C., 2006, Il ritorno del rentier”, in Posse, autunno 2006, pp. 97-114.

[4] Marazzi C., Corsani A., Biorevenu et resocialisation de la monnaie. Conversation in Multitudes, n° 27, inverno 2007
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