L‘altro ieri il filosofo polacco Marcin Król ha voluto condividere con l’opinione pubblica mondiale una scoperta di portata davvero capitale: «La rivoluzione è possibile». Capite? La rivoluzione è ancora possibile in Occidente! Forse ho capito male, forse sto nutrendo e vendendo false speranze. Meglio continuare nella lettura: «È sbagliato credere che dei giovani arrabbiati contro il sistema, ma privi del linguaggio abituale dei partiti politici e dei movimenti politici organizzati, non siano capaci di portare a termine una rivolta organizzata. La rivoluzione non si è mai fatta in nome di una misura particolare, per esempio un maggiore controllo bancario, ma perché non è più possibile vivere in queste condizioni» (La rivoluzione è possibile, Wprost di Varsavia, 10 aprile 2013). Certo, la locuzione «giovani arrabbiati» adoperata da Król è alquanto aleatoria e ambigua, soprattutto per uno che, come chi scrive, è abituato a ragionare, e sovente a pasticciare, con le vecchie categorie marxiane. Ma di questi grami tempi bisogna accontentarsi del famoso bicchiere mezzo pieno: insomma, il realismo inizia a contagiarmi!
Non c’è dubbio: a un certo punto della crisi sociale la rivoluzione si dà, almeno per una parte degli strati sociali «che non hanno nulla da perdere», come una “scelta obbligata”, mentre un’altra parte vi vede senz’altro anche il nuovo mondo che è possibile conquistare una volta distrutto quello vecchio.
Si è spenta in questi giorni Margaret Thatcher, la “lady di ferro”. È forte, in questo caso, la tentazione di recuperare la saggezza greca che dice che è “meglio non essere mai nati”, ma ce ne asterremo. A noi piace ricordarla soprattutto per una frase, che ha inciso profondamente sull’immaginario e che, per ciò stesso, tutti ricordano: “la società non esiste. Esistono gli individui”. Si tratta di un’asserzione a tutti gli effetti filosofica e, in quanto tale, degna di essere presa in considerazione seriamente e in modo spregiudicato, come se provenisse da Hobbes o da Kant. Non so se la “signora di ferro” ne fosse consapevole, ma con quella frase ha magnificamente condensato lo spirito del nostro tempo, che può con diritto essere identificato in quell’individualismo indecente che assume l’io individuale come prioritario sulla comunità, delegittimando quest’ultima come secondaria quando non addirittura come inesistente. In questo senso – avrebbe detto Hegel – per bocca della Thatcher ha parlato direttamente lo Spirito del tempo. In termini per alcuni versi convergenti, Heidegger diceva che noi siamo parlati dal linguaggio.
Né va dimenticato il fatto che, volens nolens, la signora di ferro, pronunciando la frase ricordata, si è riconnessa alla grande tradizione filosofica e, più precisamente, a quello che si configura a tutti gli effetti come il moderno individualismo programmatico. Coessenziali alla genesi del cosmo capitalistico, lo sradicamento comunitario, la destrutturazione di ogni società preesistente al nesso mercatistico e l’imposizione dell’individuo sovrano e astratto come solo soggetto possibile costituiscono la cifra stessa della modernità.
Le interpretazioni dell’esito elettorale del 24/25 febbraio scorso si sono massicciamente concentrate su due fattori: il fenomeno (nel senso comune piuttosto che nel senso scientifico del termine) Grillo, osservato con gli occhiali della performance comunicativa e/o della protesta populista e «antipolitica», ignorando sia il programma politico – dato furbescamente per inesistente – sia le radici di classe del Movimento 5 Stelle; la straordinaria perfomance di Berlusconi, al cui «genio» di comunicatore si è tributato omaggio sorvolando allegramente sui contenuti comunicati e sugli interessi che tali contenuti incarnavano. Se ciò è spiegabile, anche se non giustificabile, per le analisi e le opinioni dei giornalisti impegnati a contemplare il proprio ombelico professionale e guidati dalla bovina certezza che la politica sia riducibile a prassi comunicativa, lo è assai meno – ed è del tutto ingiustificabile – per i politici e gli intellettuali di sinistra che, tramortiti dallo choc, hanno continuato a ripetere luoghi comuni e a marciare nella direzione che li ha portati alla disfatta.
Provo a offrire un’altra chiave di lettura di quel voto (a prescindere dai successivi esiti in termini di formule e programmi governativi che, nel momento in cui scrivo, appaiono nebulosi) a partire da tre dati di fatto: 1) come evidenziato da G.B. Zorzoli su www.alfabeta2.it, centrodestra e centrosinistra hanno perso, complessivamente, rispetto alle elezioni del 2008, più di dieci milioni di voti, il che, se si considera che il centrodestra è quello che ne ha persi di più, ridicolizza i peana sull’«impresa» berlusconiana;
La politica ufficiale e i mass media si arrovellano sul misterioso identikit del prossimo Presidente della Repubblica, che dovrebbe mettere d’accordo tutti, almeno da Vendola a Berlusconi, passando per il Pd e contando sul contributo degli stessi grillini. Il tutto per arrivare alla sua elezione entro i primi tre scrutini quando ci vuole la maggioranza dei due terzi, il che potrebbe permettere poi una soluzione tutta in discesa del rebus del governo, visto che le elezioni a giugno non le vuole proprio nessuno, neppure Grillo essendo già in discesa nei consensi. Intanto il famoso “pilota automatico”, di cui ci ha parlato Mario Draghi, ovvero il governo occulto dell’economia, prosegue indisturbato il suo lavoro.
Anche perché trova una spalla efficace nel governo Monti tuttora in carica per l’ordinaria amministrazione, che però tale non è affatto. Non c’è dubbio che i 5Stelle abbiano ragione a chiedere l’insediamento delle Commissioni permanenti e che faccia loro bene, come a chiunque, tenere sedute serali di lettura collettiva della Costituzione. Ma farebbero ancora meglio, visto che ne hanno i numeri, a presentare, ai sensi dell’art. 94 della suddetta Costituzione, una mozione di sfiducia al governo che il Parlamento dovrebbe discutere.
Invece continuiamo ad essere in una situazione mostruosa sotto il profilo istituzionale.
L’esplosione della povertà nel ricco Occidente costringe a ripensare un fenomeno che sembrava relegato in gran parte ai confini del passato e alle periferie del mondo. A parte rare eccezioni, hanno dominato finora sconcerto, sdegno, rassegnazione. Ed è risuonato il messaggio: «la povertà rende liberi»[1]. Quasi che al filosofo, o al teologo, non restasse, di fronte alla povertà altrui, che condividerla indicandola a stile di vita. C’è da chiedersi se stia nascendo, o sia già nato, un neopauperismo.
Certo si comprende l’esigenza che la vita pubblica non umili ulteriormente chi è nel bisogno. La ricchezza sfacciata ha di questi tempi un aspetto lugubre. E si comprende anche l’urgenza, avvertita da molti, di sottrarsi all’iperconsumo imposto dalla crescita infinita[2]. Ma la stessa regola di Francesco d’Assisi era il progetto di abdicare alla proprietà per una forma di vita comune fondata sull’uso[3].
Appare perciò dubbio il tentativo di anestetizzare con un concetto elevato di povertà il dolore dell’indigenza. Chi è povero subisce una privazione che non può essere in alcun modo giustificata – né come volere divino, né come calamità naturale, né tanto meno come inevitabile esito della storia. Proprio perché non può essere giustificata, reclama giustizia.
La povertà ha a che fare con la schiavitù, non con la libertà. Ed è dunque tra i mali peggiori. Perché il povero è oppresso dalla mancanza, prigioniero del debito. È lo schiavo. Non occorre risalire all’antichità. Le nuove forme di schiavitù – a cominciare dall’indebitamento incoraggiato dal sistema economico – sono sotto gli occhi di tutti.
Demonizzazione e captatio benevolentiae verso il M5S
È da tempo che la crisi di legittimità della casta partitico-statale italiana si esprime nella crescita dell’astensionismo: che è il fenomeno politico maggiormente in crescita di cui poco si parla o se ne parla per liquidarlo come primitivismo antiparlamentare o «qualunquismo». Come forma di protesta politica l’astensionismo cresce perché ha profonde e diffuse motivazioni sociali, alle quali né il centrosinistra né il centrodestra sono in grado di rispondere in modo credibile e accettabile.
Con le recenti elezioni la crisi di legittimità si è trasferita anche all’interno dell’istituzione parlamentare, in conseguenza del successo elettorale del Movimento cinque stelle (M5S): piaccia o no, di fronte ai partiti che da vent’anni governano il paese è il M5S che costituisce il terzo polo, quello della protesta.
È questo che spiega l’ambivalenza dell’atteggiamento di politici e commentatori nei confronti del M5S, che oscilla tra la demonizzazione e la captatio benevolentiae: in questo secondo caso ci si aspetta che Grillo «il demagogo» e i parlamentari della cosiddetta «antipolitica» sappiano anche mostrarsi ragionevoli e costruttivi, consentendo in tal modo la formazione di un governo, possibilmente di centrosinistra.
Tuttavia il M5S rifiuta, certamente non senza tensioni, di giungere ad accordi con il Pd: accordi che in altre circostanze si sarebbero spregiativamente bollati come consociativi e che costituirebbero il definitivo colpo di grazia alla ventennale retorica circa l’alternanza bipartitica (colpo, in effetti, già sferrato dal consenso bipartitico al governo Monti).
Bagnai e Rampini all’alba
Per puro caso, alle 3 di mattina ho potuto vedere, su Sky, una interessante discussione fra Alberto Bagnai e Federico Rampini, sul tema dell’euro, che naturalmente viene trasmessa a quell’ora affinché nessun italiano abbia contezza del dibattito su un tema così strategico. Come al solito, ammiro, nel professor Bagnai, la chiarezza espositiva, la civiltà con cui espone le sue tesi, ed anche una dose di modestia personale. La sua tesi fondamentale è che il prelievo forzoso imposto a Cipro, con il connesso obbligo di restrizione ai movimenti di capitale, abbia di fatto collocato tale Paese al di fuori dell’area-euro, creando un euro di serie B, non liberamente circolante al di fuori del Paese, quindi di minor valore rispetto agli euro che circolano negli altri Paesi dell’area. Inoltre, sostiene che, con la dichiarazione del capo dell’Eurogruppo, l’olandese (specializzato in allevamento di suini) Jeroen Dijsselbloem, secondo cui il prelievo forzoso avrebbe potuto essere esteso anche ad altri Paesi, in caso di crisi bancaria, vengono meno due pilastri fondanti dell’area-euro, ovvero il paradigma della libera mobilità dei capitali e quello della fiducia nell’inviolabilità del risparmio bancario.
Sulla prima affermazione, che peraltro riprende quanto sostenuto anche dalla Morgan Stanley, occorre semplicemente tener presente che Cipro continua a stare dentro all’eurosistema, la sua politica monetaria continua ad essere dettata dalla Bce, e che quindi non sta più fuori dall’euro di quanto non ci stesse fino ad oggi: fino ad oggi, infatti, il sistema bancario cipriota, pur se formalmente “compliant” con tutte le regole di vigilanza europee, era di fatto un buco nero che si autogestiva con regole non proprio prudenziali (che hanno condotto le due principali banche del Paese al fallimento).
E così, dopo la nuova tornata elettorale, riecco sulle bocche di media e politica la parola ‘Ingovernabilità’. questa sarebbe secondo loro la disgrazia del Paese.
La Governabilità, che la politica auspica sin dalla notte dei tempi, è un oggetto misterioso.
Che cosa intenda chi, al potere, la pronuncia, non è mai spiegato con sincerità. Possiamo dire che, espressa in una feroce sintesi di governo, cosa questa comporti all’atto pratico gli italiani lo hanno sperimentato con Mario Monti: un’amministrazione fortemente connotata a destra che, in perfetto accordo con i dettami neoliberisti, preveda, attraverso lo smantellamento del welfare state, una macelleria sociale, nonché la messa al bando di qualunque protezione legislativa per i lavoratori. Nello specifico: risanare le banche con soldi pubblici, tassare i ceti medio-bassi e votare la legge Fornero con l’allegro avallo di Berlusconi e Bersani, il quale, quest’ultimo, è in seguito tornato in campagna elettorale con la vecchia maschera, proponendosi come forza di sinistra, chiamando come fideiussore di fronte al proprio elettorato il mite Vendola. Anche questa è Governabilità e comporta dei premi per i propri attori. Lo stesso Vendola, oggi, accettando di allearsi con il Pd che ha fatto da stampella al governo Monti, in realtà viene a raccogliere un premio per il lavoro sporco fatto ai tempi della candidatura di Veltroni, nel momento in cui questi, nel 2008, aveva deciso di correre da solo – ovvero senza Rifondazione comunista – rimanendo trombato – il che era scritto sulla tabula rasa del suo vuoto politico – ma raggiungendo l’obiettivo di rendersi presentabile agli occhi di Confindustria.
Quasi in conclusione di un libro dedicato all’analisi del sistema industriale tedesco - divenuto poi un classico della sociologia industriale e che quasi trenta anni fa aprì un dibattito tanto ampio quanto inusitato per la complessità e lo specialismo della materia (1) - Horst Kern e Michael Schumann, entrambi docenti all’Università di Gottinga, osservavano come:
Le analisi di Kern e Schumann
Gli stessi autori avevano già condotto, verso la fine degli anni ’60, uno studio poi raccolto in volume (2), nel quale avevano preso decisamente le distanze da chi dava per sicura una positiva correlazione fra progresso tecnico e umanizzazione del lavoro, come sosteneva ad esempio Robert Blauner, secondo cui il processo di automazione avrebbe addirittura eliminato il fenomeno dell’alienazione nel processo produttivo (3).
Ritorniamo a commentare la tesi presentata da Mario Draghi, governatore della Bce, all’ultimo Consiglio europeo del 14-15 marzo 2013, su cui ci siamo intrattenuti pochi giorni fa in merito al falso trade-off tra produttività del lavoro e flessibilità del lavoro (contrattazione sul salario e regolamentazioni del mercato del lavoro) [1].
Lo dobbiamo fare in quanto, fatte salve rare eccezioni (Andrew Watt sul Social Europe Journal[2] e Andrea Baranes su Sbilanciamoci.info [3]), pochi hanno commentato e valutato le implicazioni distributive del reddito che quelle tesi sottintendono. Come Andrew Watt ha fatto osservare nel suo secondo intervento sul Social Europe Journal (link), la “svista” del Governatore rende esplicito il pensiero della Banca centrale europea. Comparare l’andamento delle retribuzioni nominali con quello della produttività reale del lavoro, distinguendo tra Paesi “virtuosi” e Paesi “viziosi” è più che un esercizio contabile errato. Esso esplicita un indirizzo di politica economica ben definito, quando si afferma che le retribuzioni nominali del lavoro hanno ecceduto la crescita della produttività nei Paesi viziosi, e da lì vengono i loro mali, mentre i Paesi virtuosi si son ben guardati dal fare tale errore e hanno governato la dinamica delle retribuzioni nominali, mantenendola al di sotto della produttività del lavoro.
La Corte europea per i diritti umani, in data 2 aprile 2013, ha emesso una sentenza con cui sancisce che il numero chiuso che regola l’accesso in Italia a determinate facoltà universitarie non viola il diritto allo studio.
Otto studenti italiani erano ricorsi alla Corte di Strasburgo perché non avevano superato i test di accesso.
I test di accesso sono legati al numero chiuso delle iscrizioni e, checché ne dica l’Unione Europea, vanificano il principio del diritto allo studio per tutte/i, perché è evidente che non tengono conto del vantaggio che alcuni studenti/e hanno per via dell’estrazione sociale che poi significa anche diversa base culturale.
Di fatto viene meno da una parte il ruolo dell’Università come occasione di socializzazione dei saperi, dall’altro quello di promozione sociale.
Anni di lotte e di conquiste vengono annullati, si ritorna allo spirito degli anni ’60 quando, in quinta elementare, si doveva fare l’esame di Stato, passaggio obbligato per accedere alle Medie, dove si verificava un’ulteriore selezione di classe. Il ragazzo/a, sicuramente non per interessi personali, era costretto/a a scegliere fra le Medie vere e proprie e il così detto “Avviamento” che preludeva al lavoro…
1 – Alle origini della crisi
Nei principali media nazionali e internazionali, la crisi scoppiata nel 2007 è stata raccontata così. La crisi è crisi finanziaria, deriva da una deregolamentazione eccessiva dei mercati finanziari ed è, in ultima analisi, imputabile all’eccessiva avidità degli speculatori e degli operatori finanziari. Ciò che nella terminologia corrente viene definito il greed. La si risolve, o la si attenua, conseguentemente, ponendo un freno all’espansione non controllata della sfera finanziaria e riducendo gli stipendi dei manager delle grandi imprese. La gran parte degli economisti liberisti fa propria questa interpretazione e i principali provvedimenti di politica economica attuati a seguito dei numerosi vertici internazionali dell’ultimo biennio si sono coerentemente mossi lungo questa strada.
La radicale debolezza di questa tesi sta nel fatto che essa presuppone una sfera finanziaria totalmente autonoma rispetto all’economia reale, ovvero che l’economia reale possa risentire dell’instabilità finanziaria ma non generarla. A ben vedere, tuttavia, i nessi di causa-effetto si verificano semmai esattamente in senso contrario.
La crisi è stata causata da un’enorme e crescente disuguaglianza distributiva, sia all’interno dell’economia statunitense, sia su scala globale.
Maurizio Franzini risponde ad un intervento di Sergio Cesaratto sul quaderno che Micromega ha dedicato al tema della disuguaglianza. In calce una replica di Cesaratto
Ringrazio Sergio Cesaratto per i suoi commenti al mio articolo su MicroMega che mi danno l’opportunità di precisare il mio punto di vista e anche di esprimermi sul suo. Le questioni sono diverse e, credo, interessanti al di là della diversità di opinioni tra Cesaratto e me. Per questo, non sarò breve e me ne scuso.
Cesaratto apre il suo commento scrivendo che io accuserei “gli economisti eterodossi di sottovalutare il tema della disuguaglianza al pari degli economisti ortodossi”. No, non penso e non scrivo questo. Ad esempio, nella frase di apertura del mio saggio affermo, in sintesi, che se un economista si preoccupa delle disuguaglianze economiche quasi certamente è un eterodosso (il “quasi” serviva soprattutto a non escludere la possibilità che vi sia almeno un ortodosso eccentrico). E frasi di analogo tenore ricorrono almeno un paio di altre volte nel testo (a p. 240 e 241).
Soprattutto, direi che il mio pensiero al riguardo emerge dalla risposta che dò alla domanda centrale del mio articolo, che Cesaratto non richiama, e cioè quali siano (e quanto solide siano) le idee che gli economisti hanno utilizzato per sostenere che la disuguaglianza non è un problema.
Sebbene muovendo da un punto di vista schiettamente apologetico, Giulio Sapelli mostra di aver capito l’essenza dell’economia basata sul profitto più di quanto si è soliti apprezzare, ad esempio, nei teorici del cosiddetto Capitalismo cognitivo. Pochi passi sono sufficienti a dimostrarlo:
«I paesi industrializzati europei hanno un misuratore infallibile della bassa crescita: il progressivo trasferimento di quote ingenti di capitali dal profitto alla rendita, a quella immobiliare e a quella improduttiva pubblica e privata. Quindi la persistenza di alte quote di risparmio è indice di bassa crescita … Ecco un altro dato fondamentale. Laddove si investe, non si investe più nei tradizionali confini. Si pensi alla Germania. Ebbene la Germania ha potentemente delocalizzato la sua industria e ha promosso investimenti in aree strategiche del nuovo mondo industrializzato … Solo il profitto capitalistico rivoluziona la società, costringe gli operatori all’innovazione e alla benefica e darwiniana lotta per l’esistenza, che rinvigorisce le menti con la progettazione strategica … La dialettica rendita-profitto deve tornare a essere un elemento di misurazione della salute dell’economia e della società. Se la rendita prevale sul profitto la società si ammala, le forze vive dello sviluppo declinano a vantaggio dell’interesse parassitario … I classici da rileggere per meditare come sia difficile vivere in un mondo senza industria manifatturiera, sono quelli che vedevano nell’industria, nel profitto e nella nascita il sale della crescita e della civilizzazione» [1].
Qui si esprime senza infingimenti la lotta furibonda fra i diversi capitali (industriali, commerciali, finanziari) per la spartizione del bottino.
E’ da tempo che diversi economisti non asserviti al sistema sostengono che le politiche di austerità adottate prima dal governo Berlusconi e poi da Monti avrebbero sortito gli stessi effetti di quelle imposte dalla cosiddetta Trojka alla Grecia. Ed è da più di un anno che Monti si vanta invece di aver evitato al nostro paese lo stesso destino grazie alle misure del suo governo, che però sono in gran parte le stesse imposte alla Grecia. Chi ha ragione?
La disoccupazione, la cassa integrazione e il precariato in continua crescita, i redditi da lavoro e i consumi in continua contrazione, le aziende che chiudono una dopo l’altra, il loro know-how che si disperde o emigra all’estero, i loro mercati che si dileguano, i principali gruppi industriali in disarmo, il welfare che si contrae sia a livello statale che municipale, la miseria che avanza, la scuola che avvizzisce, la ricerca che emigra, l’ambiente che si degrada, la burocrazia che si avvita su se stessa, l’ingorgo legislativo, la politica in stallo rendono evidente che l’Italia ha ormai toccato un punto di non ritorno.
Forse che, se domani venissero varate misure economiche di sostegno, come quelle invocate dagli economisti non di regime una spesa pubblica più espansiva, un credito più abbondante, un ribasso dei tassi, un nuovo programma di lavori pubblici, un sostegno alla ricerca (tutte cose peraltro incompatibili con gli accordi imposti da Ue e Bce e sottoscritti dal governo Monti e da tutti i partiti che l’hanno sostenuto), allora la macchina produttiva riprenderebbe a funzionare come prima?
Il dibattito sul declino prima e la crisi poi dell’economia italiana si è focalizzato principalmente sugli elementi “strutturali” dal lato dell’offerta[1]. Generalmente, al contrario, l’andamento negativo della domanda aggregata è considerato come un fattore congiunturale o di breve periodo. Tuttavia, basta guardare i dati senza pregiudizi per capire che la debolezza della crescita della domanda aggregata è stata una costante che per almeno un ventennio ha caratterizzato l’economia italiana. E’ quindi difficile negare che questo sia un vero e proprio elemento strutturale che ha concorso agli effetti così drammatici della crisi attuale. Dal punto di vista teorico ci si può riferire alla legge di Kaldor-Verdoorn. La legge mette in relazione la crescita della produttività del lavoro, la cui debolezza come si sa è uno degli elementi che hanno caratterizzato la nostra economia, con la crescita dell’output, individuando nella crescita dell’output la variabile indipendente. Interpretata dal lato della domanda, la legge afferma che la crescita della produttività è indotta dalla crescita della domanda aggregata[2].
I dati dimostrano chiaramente che dal 1991 ad oggi la crescita della domanda finale aggregata, come mostrato dal grafico 1.a)[3], è molto più debole in Italia rispetto alla media europea e alla Francia e alla Germania per tutto il periodo, anche se il fenomeno si rende ancora più evidente nell’ultimo decennio.
Sul fatto che alle elezioni la sinistra, a ogni latitudine e a ogni gradazione, sia andata incontro all’ennesima sonante sconfitta, non v’è dubbio e, di più, sarebbe una perdita di tempo ricordarlo, magari con documentatissimi grafici di riferimento. Più interessante, per uno sguardo filosoficamente educato, è invece ragionare sui motivi di questa catastrofe annunciata. E i motivi non sono congiunturali né occasionali, ma rispondono a una precisa e profonda logica di sviluppo del capitalismo quale si è venuto strutturalmente ridefinendo negli ultimi quarant’anni. Ne individuerei la scena originaria nel Sessantotto e nell’arcipelago di eventi ad esso legati. In sintesi, il Sessantotto è stato un grandioso evento di contestazione rivolto contro la borghesia e non contro il capitalismo e, per ciò stesso, ha spianato la strada all’odierno capitalismo, che di borghese non ha più nulla: non ha più la grande cultura borghese, né quella sfera valoriale che in forza di tale cultura non era completamente mercificabile.
Non vi è qui lo spazio per approfondire, come sarebbe necessario, questo tema, per il quale mi permetto, tuttavia, di rimandare al mio Minima mercatalia. Filosofia e capitalismo (Bompiani, 2012). Comunque, per capire a fondo questa dinamica di imposizione antiborghese del capitalismo, e dunque per risolvere l’enigma dell’odierna sinistra, basta prestare attenzione alla sostituzione, avviatasi con il Sessantotto, del rivoluzionario con il dissidente: il primo lotta per superare il capitalismo, il secondo per essere più libero individualmente all’interno del capitalismo.
Mentre in Italia il peggiore presidente della storia della nostra Repubblica, Giorgio Napolitano, sta facendo i salti mortali per mantenere lo status quo e preservare la fallimentare classe dirigente eurista, fuori dai palazzi il processo di frantumazione dell’area euro procede a grandi passi. Il recente caso di Cipro ha fatto finalmente emergere a livello mondiale tutti i difetti di costruzione dell’unione monetaria più disastrata del pianeta ed ormai sarà impossibile per la tecnocrazia agire soltanto con la mistificazione e la propaganda mediatica per coprire e nascondere le magagne. In particolare il collasso di Cipro ha evidenziato due aspetti su cui si fondava il tentativo disperato dei menestrelli di regime di cambiare la realtà dei fatti: la crisi dell’eurozona non è una crisi di debito pubblico ma privato (bancario nella fattispecie, visto che in Europa i rapporti di debito-credito, risparmio-investimento sono intermediati principalmente dalle banche) e la liberalizzazione selvaggia e deregolamentata della circolazione dei capitali alla lunga crea insostenibili squilibri fra i paesi coinvolti. Adesso, soltanto i cialtroni patentati o gli analisti finanziari da bar dello sport potranno sostenere sfacciatamente in pubblico il contrario, senza essere zittiti con una sola parola: Cipro.
Ad ogni modo, chiunque voglia informarsi e capire cosa sta accadendo oggi in Europa e in Italia non può di certo affidarsi alla stampa e televisione nostrana, che si tiene ancora ben alla larga dalla tentazione di spiegare onestamente e criticamente agli italiani gli eventi che si succedono dentro e fuori i nostri confini, prefigurando dei possibili scenari futuri.
Quanti sono i lavoratori italiani? Che cosa fanno? Quanto guadagnano? Che tipo di contratto hanno? Da anni la nouvelle vague egemone in certa sinistra ci vorrebbe tutti quanti catapultati nell’era del biocapitalismo cognitario: un’epoca in cui si producono soprattutto simboli e segni e in cui la produzione delle merci è diventata immateriale, sempre più intangibile, frutto di facoltà relazionali, affettive e, per l’appunto, cognitive e in cui è centrale il ruolo dei saperi e della conoscenza. Alcuni, partendo da questi presupposti si sono spinti fino a considerare ormai superata la teoria marxiana del valore. La formula generale del Capitale (D-M-D’) andrebbe pertanto riposta in soffitta tra i vecchi ricordi insieme ad attrezzi e categorie altrettanto vetuste come le classi sociali, l’imperialismo, il potere, ecc. Per contro un’altra scuola di pensiero, quella che Quadrelli in “Noi saremo tutto” individua come l’ipotesi FIOM, si ostina invece a sostenere (in salsa radicale o riformista a seconda della propria ragion d’essere) che in fondo da trent’anni a questa parte nulla è cambiato e che il mondo del lavoro continua a girare sempre nello stesso modo. Chi ha ragione? Chi ha torto? Proviamo a rispondere partendo da alcune “foto di classe” grazie anche a “Il mercato senza lavoro”, un libro molto interessante uscito in questi mesi per i tipi di Edizioni Lavoro, la casa editrice della CISL (ebbene si!). Proseguiamo dunque consapevoli del fatto che ogni istantanea se da un lato è capace di congelare il momento dall’altro è sempre insufficiente a descrivere il movimento, ossia le tendenze in corso.
Cominciamo col dire che a luglio 2012 secondo la Rilevazione continua delle forze del lavoro (RCFL) dell’ISTAT gli occupati (dipendenti e autonomi) erano 23 milioni e 25 mila, dato che corrisponde ad un tasso di occupazione del 56,7%.
Nel 1983 il manifesto bucò la notizia della morte di Piero Sraffa, rimediando poi maldestramente con un obituario di Federico Caffè che Sraffa, francamente, non comprendeva molto. Questo non fu un caso. I rapporti del giornale con l’economia critica sono, infatti, sempre stati tiepidi. Gli economisti critici tollerati, più che ricercati. A tutt’oggi le preferenze del giornale vanno più nella direzione della scuola di Caffè o di economisti “light” (“quelli che gli F35..”). Caffè era un valoroso compagno di strada del movimento operaio, ma non precisamente organico alla teoria critica dell’economia politica che pure dovrebbe essere cara alla tradizione intellettuale del giornale. Per Caffè la buona fede degli economisti di qualsiasi persuasione era fuori discussione, mentre per gli economisti “light” c’è sempre un’economia reale sana a cui si contrappone una finanza malvagia. Il lavoro analitico di distinzione fra teoria dominante e teoria critica è guardato con fastidio. Ambedue le visioni sono facilmente criticabili. Tutto questo dovrebbe essere analizzato nell’ambito del tormentato rapporto che la tradizione comunista italiana ha con l’economia politica, tradizione stretta fra il liberismo Amendoliano e la poetica Ingraiana. Sottolineata la distanza di Caffè dalla critica dell’economia politica, non ne va però sottaciuto il suo sforzo di riempire di riformismo pragmatico il vuoto che c’è nel mezzo.
Cominciamo con una domanda di “riscaldamento”. L’elezione al soglio di Pietro di un argentino – Jorge Mario Bergoglio – anche al di là delle sue eventuali responsabilità o dei suoi silenzi durante gli anni della dittatura, ha fatto pensare a molti a una riedizione del modello Wojtyla, volto a far leva sui sentimenti religiosi delle masse sudamericane per indebolire i governi di sinistra. Certo le differenze non sono poche, a partire dalla forte e sbandierata fede cattolica di molti leaders della regione: un caso esemplare è la dichiarazione di Maduro secondo cui Chavez sarebbe intervenuto dal cielo per favorire l’elezione di Bergoglio.
Per poter dare delle risposte anche riguardo alla religiosità in America Latina bisogna conoscere in profondità quei popoli e quelle culture: in Europa soprattutto la sinistra è imbevuta di forte eurocentrismo e ha un rapporto con l’America Latina di natura neo-coloniale, che impedisce di comprendere che per esempio a Cuba la gente anche iscritta al partito è spesso religiosa – cattolica o legata a varie forme di sincretismo – e lo stesso avviene in Venezuela.
Alcuni mesi fa la trasmissione televisiva In onda ha dedicato una serata [1] alla reintegrazione da parte della Magistratura di 19 operai FIOM nello stabilimento FIAT di Pomigliano D'Arco, una reintegrazione a cui il democratico Amministratore Delegato di FIAT, Sergio Marchionne, aveva risposto licenziandone altri 19 per rappresaglia. La trasmissione aveva richiamato nella piazza di Pomigliano i lavoratori favorevoli e quelli non favorevoli all'accordo che la FIAT aveva imposto allo stabilimento nel 2010. In studio era presente Mario Sechi, direttore del quotidiano il Tempo, poi candidato montiano trombato, per sostenere le ragioni di Marchionne e dei favorevoli, mentre Dario Fo, in collegamento, sosteneva le ragioni della FIOM e dei contrari. In piazza, a fianco dei favorevoli era schierato il sindaco di Pomigliano e a fianco dei contrari era schierato il prete di Pomigliano. In studio il conduttore di destra Nicola Porro – dipendente de Il Giornale - sosteneva i favorevoli, mentre il conduttore “di sinistra” Luca Telese - già dipendente, anch'egli, de Il Giornale - sosteneva i contrari. Una simmetria apparentemente perfetta e “politically correct”. Ma quello che è andato in scena non è stato il semplice scontro tra due diverse visioni delle questioni sindacali; quello che è andato in scena è stato lo scontro tra le ragioni dell'Uomo e le ragioni della Tecnica, per usare una terminologia galimbertiana.
Un problema cronico, la scuola, si presenta sempre più grave. Se ne parla tanto, si propongono soluzioni, eppure si aggrava sempre di più, perché la decadenza della scuola si collega a un problema ben più vasto, una crisi sistemica che ha tante facce. Le facce più vicine sono quelle dei nostri figli in età scolare, ai quali ci sentiamo di dover dare qualche risposta. Partirò insomma dalla scuola, ma dovrò andare oltre.
Sento in giro due discorsi, il primo prevalente nei media, il secondo tra le persone che possiamo considerare in qualche modo affini a noi:
1) «la vecchia scuola va riformata, in buona parte privatizzata, "efficientizzata", finalizzata al mercato»;
2) «dobbiamo conservare a tutti i costi la vecchia scuola, come istituzione parastatale, sostanzialmente libera dal mercato».
Secondo me, dobbiamo invece uscire da questo doppio monologo, così come usciamo dal doppio monologo «destra e sinistra».
Si tratta di capire che la scuola è una delle istituzioni fondamentali dello Stato Nazione. E lo Stato Nazione è in via di collasso in tutto l'Occidente (non parlo per il resto del mondo). Non si tratta semplicemente della prevalenza temporanea di "cattive idee" neoliberali, che si possano esorcizzare con un richiamo alla Costituzione, ma di una cosa enormemente più grande, che ha a che fare sia con il crollo delle basi energetiche dello Stato Nazione, sia con l'esplosione informatica, per citare solo alcuni fattori.
Un fittissimo intrecciarsi di voli militari è in corso mentre il lettore sta scorrendo queste righe. Si tratta di aerei di varia nazionalità, con sigle diverse dipinte sulle loro carlinghe, con equipaggi internazionali, in partenza da aeroporti che spaziano dalla Croazia, alla Turchia, dal Qatar, all’Arabia Saudita, dalla Giordania e da diversi altre basi della Nato. Il New York Times dello scorso 24 marzo parlava di voli che “fanno pensare ad un’operazione militare clandestina ben pianificata e coordinata”.
È in atto la preparazione di quella che è l’ultima fase, che potrebbe precedere l’attacco militare della Nato contro la Siria e produrre la caduta, con relativa uccisione, del “sanguinario dittatore” di turno.
Si tratta di un’operazione che comporta grosse spese, per migliaia di tonnellate di armamenti e munizioni, i cui destinatari sono i ribelli del cosiddetto Esercito Libero Siriano.
L’organizzatore fu l’«ex» David Petraeus, il che ci dice che Barack Obama non ce la raccontava giusta quando voleva far credere all’opinione pubblica occidentale che gli Stati Uniti non erano poi davvero molto interessati alla caduta di Bashar al-Assad.
Il piccolo golpista del Colle ha colpito di nuovo. Non ancora pago dei disastri combinati con l'insediamento a Palazzo Chigi del Quisling al 10% (di consensi), ha ritenuto di ripetersi in coda al suo settennato.
Tra tre settimane - a meno di una rielezione che finora si è rifiutato di prendere in considerazione - sarà solo un ricordo, ma al suo sporco lavoro è proprio affezionato e l'ha voluto dimostrare anche oggi. Il suo disegno è fallito, la «grande coalizione» non ha visto la luce, né prevedibilmente la vedrà. Non per questo la sua mission di uomo fedele alle oligarchie euroatlantiche, che tanto lo amano, è venuta meno.
E' solo partendo da questo punto fermo che si possono davvero capire le mosse del Quirinale. Mosse che travalicano i poteri assegnatigli dalla Costituzione. Forzature inaudite che vorrebbero preludere ad un nuovo commissariamento delle camere appena elette. Cioè l'esatto contrario di quanto hanno improvvidamente detto alcuni "grillini", si spera solo momentaneamente distratti dal clima pasquale.
In breve, cosa ha fatto Napolitano? Prima ha rispedito Bersani a Piacenza per condurre personalmente le trattative tra Pd e Pdl. Poi, di fronte all'impossibilità di conferire comunque un nuovo incarico, ha affidato la risoluzione della crisi politica a due commissioni (una istituzionale, l'altra economica), che dovrebbero elaborare «precise proposte programmatiche che possano divenire in varie forme oggetto di condivisione da parte delle forze politiche».
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