“L’entropia è il prezzo della struttura”, questa famosa frase di Ilya Prigogine schiude come un vaso di Pandora l’origine di gran parte dei mali che si stanno abbattendo su di un’umanità che credeva di aver oramai acquisito il controllo del Pianeta.
Perché? Perché tutte le grandi conquiste di cui andiamo (in molti casi giustamente) orgogliosi sono il prodotto di processi fisici: abbiamo dissipato dell’energia per ottenere un incremento del nostro capitale complessivo. Che si tratti del numero di persone (popolazione), di infrastrutture ed oggetti materiali di ogni genere (capitale materiale), di denaro (capitale finanziario) di conoscenze (capitale culturale) e quant'altro, la fisica del sistema non cambia: si dissipa energia per aumentare la quantità di informazione contenuta in una parte del meta-sistema, scaricando l’entropia corrispondente su altri sotto sistemi. Da quando Claude. Shannon dimostrò la corrispondenza inversa fra informazione ed entropia, sappiamo che qualcuno o qualcosa deve pagare affinché qualcun altro possa acquisire conoscenze supplementari, così come qualcuno o qualcosa deve pagare perché altri possano realizzare strumenti, case, oggetti e quant'altro.
"A partire dal 2008, una crisi "strutturale" sta scuotendo il capitalismo. Di contro, le analisi economiche svolte dalle nuove lotte sociali rimagono limitate. Ad essere criticate, sono solo le banche e la finanza: basterebbe tassare gli speculatori e redistribuire la ricchezza, per uscire dalla crisi. Un simile discorso appare ispirato dalla vulgata marxista-leninista, in cui scompare anche la stessa prospettiva di un'appropriazione dei mezzi di produzione. Il modo di produzione capitalista, controllato dallo Stato o auto-diretto, produce solo sfruttamento e distruzione, ma la crisi del capitalismo si accompagna ad una crisi dell'anti-capitalismo, dove quest'ultimo appare accontentarsi solamente di critiche superficiali o edulcorate."
Eric Martin e Maxime Ouellet, a questo proposito, curano un libro - intitolato "La tirannia del valore" - in cui, attraverso una serie di contributi ed interventi, mostrano l'originalità della critica del valore. Un ritorno a Marx che permette di sbarazzarsi della vulgata marxista ortodossa. Marx non è affatto un economista, e considerava il capitalismo come un fatto sociale, con le sue istituzioni e le sue logiche che attraversano tutte le sfere e tutti i settori della vita.
Il capitale nel XXI secolo di Thomas Piketty è un libro che a sinistra fa tendenza citare, ma non è detto che chi lo fa lo abbia anche letto, visto che la versione italiana consta di ben 928 pagine e richiede molta pazienza per addentrarsi nella notevole quantità di grafici e tabelle sulla distribuzione del reddito di cui è infarcito. Il reale valore del volume. Su Scenari ne ha già parlato con appropriate argomentazioni Andrea Zhok, il quale non mette però in discussione l’impianto analitico del testo, ed è questo aspetto che può per qualche verso giustificare questo mio contributo sul tema.
Piketty propone un’analisi – nei metodi, nei contenuti, nelle conseguenze e, in parte, nelle ricette – simile a quella avanzata negli anni ’70 da John K. Galbraith e ora da suo figlio James K. Galbraith, da Amartya Sen in La diseguaglianza (1992) e da Joseph Stiglitz in Il prezzo della diseguaglianza.Come la società divisa di oggi minaccia il nostro futuro (2012), tanto che poco più che alla metà del volume l’economista francese fa un’affermazione che evoca persino il sottotitolo di quest’ultimo testo: «l’imprenditore tende inevitabilmente a diventare un rentier sempre più dominante su coloro che non posseggono altro che il proprio lavoro, il capitale si riproduce più velocemente dell’aumento della produzione e il passato divora il futuro» (p. 571).
La saga delle menzogne sull'abbattimento del volo MH17 è sempre di più, ogni giorno che passa, la metafora della fine della illusione democratica del mondo occidentale. Ma è anche una epifania tragica del disastro intellettuale e morale dell'esercito di untori che continuano a sostenerla. Per stare alle sue regole hanno dovuto mentire spudoratamente.
Ora, di fronte all'emergere della verità, sono costretti a ripetere, coatti e sconcertati, ingigantendo la menzogna, inventandone, più o meno fantasiosamente, varianti sempre meno credibili, scivolando spesso nel comico involontario, contraddicendosi. Oppure - la cosa più semplice e meno compromettente - tacendo tetragoni su ogni scampolo di verità che sfila davanti ai loro occhi.
È il ritratto del giornalismo servile di questi tempi. Ci sarà di peggio, nei tempi a venire, perché gli untori che usurpano il titolo di giornalisti sono pronti alle future, più ripugnanti delazioni, alle quali saranno costretti dai padroni che li pagano. Ma la parabola dello squallore si trova già nei pressi del punto più basso dell'intera storia del giornalismo occidentale.
Da ogni parte si leva sempre più ossessiva la richiesta della Decisione. Dalle chiacchiere da bar ai luccicanti talk-show, dalle assemblee elettive ai think-tank, dai summit delle diplomazie ai forum dei poteri economici. Più se ne invoca la presenza più se ne constata l’assenza. Eppure, il trionfo della tecnica mette a disposizione conoscenze e strumenti mai visti prima che dovrebbero creare le migliori condizioni per prendere decisioni.
Il trentennio liberista è cominciato proprio in polemica con la presunta irresolutezza delle istituzioni del trentennio Glorioso. Fin dalla Trilaterale la causa venne attribuita al sovraccarico di domande che bloccava le democrazie occidentali e si è proceduto a restringere la rappresentanza sociale per delegare alle oligarchie burocratiche ed economiche le soluzioni dei problemi1. Tuttavia all’esaurimento del ciclo si è rivelata clamorosamente l’incertezza delle classi dirigenti nel governare la grande Crisi. Gli americani sono stati col fiato sospeso per il rischio di bancarotta del Fiscal Cliff. Gli europei hanno messo in pericolo l’euro per non aver saputo risolvere il problema davvero modesto del debito greco.
Non è bastato alleggerire il “sovraccarico della democrazia” per risolvere il problema del governo di società complesse. Perciò la Decisione viene invocata di nuovo con la stessa intensità degli anni settanta, quando maturò la crisi del modello keynesiano. Ma la delusione è oggi più grande proprio perché la promessa era nel cuore del liberismo.
L’intervento verte su due tematiche principali.
La prima intende presentare un tentativo (ancora embrionale) di periodizzazione della crisi che ha attraverso il sistema economico-finanziario dal 2007 a oggi.
La seconda discute, all’interno delle traiettorie geo-economiche che la dinamica della crisi ha delineato, delle diverse forme della valorizzazione capitalistica, tra estrazione di ricchezza e espropriazione del comune da un lato (dispossession) e evoluzione delle forme di sfruttamento sempre più riferite alla vita nel suo complesso, dall’altro.
Le traiettorie della crisi
Entrati, ormai, nel settimo anno della crisi economico-finanziaria, possiamo affermare che oggi la crisi non è la stessa che esplose nel 2007. A nostro avviso, si possono oggi individuare alcuni snodi fondamentali, che consentono di definire tre fasi principali. Tali passaggi possono essere in modo molto sommario i seguenti:
Fase 1. 2007-09: scoppio della bolla dei sub-prime e fine della convenzione immobiliare, che, dopo aver sostituito la convenzione internettiana dell’ultima decade dello scorso secolo, era diventata il motore dell’accumulazione finanziaria. L’epicentro della crisi è negli Usa e raggiunge il suo culmine nel settembre 2008 con il fallimento della Lehmann-Brothers.
La maxi-inchiesta sulla cupola affaristica romana impone alcune riflessioni.
1. Un simbolo della politica oligarchica
C'è in primo luogo un errore da evitare: quello di considerare questa inchiesta come una delle tante. Non è così. Siccome la quantità modifica anche la qualità delle cose, è evidente come questa vicenda sia destinata a diventare uno dei simboli più rappresentativi di cosa sia diventata la politica in un paese come l'Italia. Si può anche discutere di quanto questa degenerazione sia figlia dell'impronta lasciata dal berlusconismo, ma sarebbe del tutto fuorviante limitarsi a ciò.
C'è infatti una verità ben più profonda che va colta, ed essa consiste nel rapporto tra «politica» e «politici», questi ultimi intesi come «uomini delle istituzioni». Se la politica si fa sempre più oligarchica, e dunque a-democratica, è naturale che gli corrisponda un tipo di «politico» e di amministratore espresso direttamente dai vari gruppi di potere, dalle varie lobby in cui si struttura il blocco dominante.
2. Le differenze tra la corruzione della prima repubblica e quella attuale
Siamo ormai a ventidue anni da Tangentopoli, a ventuno dal referendum che portò alla cancellazione del sistema proporzionale, a venti dall'introduzione di quello maggioritario.
Il secondo tomo delle «Sfere» di Peter Sloterdijk, per Cortina editore. Una disamina dei territori della globalizzazione a partire dal movimento della palla
«Nessun animale crea una sfera», solo l’uomo. Nel De Ludo Globi, terminato nel 1463, anno che ne precede la morte, Nicolo Cusano mette in scena un dialogo su un gioco – così afferma — «scoperto da poco e da tutti compreso».
Non è un gioco qualsiasi, tutt’altro: è ludus globi, il gioco della palla o della sfera. Disegnati a terra, nove cerchi concentrici delimitano il campo su un piano circolare. Al centro, la figura di Cristo. La palla, lanciata dai partecipanti al gioco, si muoverà — così Giovanni, figlio del duca di Baviera, uno dei dialoganti che Cusano mette in scena nell’operetta filosofica — «come dalla tenebra alla luce», percorrendo i nove cerchi. Dove si fermerà la sfera? In quello esterno, che è segno di caos e imperfezione? O nel secondo cerchio, che è quello della virtù elementare? O nel terzo, che delimita la virtù minerale, a cui seguono quello della virtù vegetativa, della virtù sensibile, della virtù immaginativa, della virtù razionale? O, invece, arriverà al cerchio della virtù dell’intelletto – il più vicino al centro della perfezione e al contempo il più distante dal caos esterno? Ogni corona circolare ha un punteggio e il punteggio per la vittoria è fissato da Cusano nel numero trentaquattro.
Ogni tanto qualche politico italiano, e anche qualche giornalista, in vena di "rinnovamenti" e proposte "vincenti", menziona la Thachter come modello per le politiche da adottare in Italia; naturalmente, per uscire dalla crisi.
Ad altri, l'accusa di thatcherismo viene invece mossa e cerca di negare, per la verità senza offrire spiegazioni sostanziali, di alcun tipo, rispetto alle accuse.
E' allora utile vedere un po' di dati relativi alla fantastica performance della lady di ferro.
Rammentiamo che ella fu primo ministro dal 1979 al 1990.
Vediamo come andò la crescita dl PIL:
A poco più di un anno dalla pubblicazione sul Financial Times del “monito degli economisti”, la forbice tra paesi creditori e debitori continua ad allargarsi e potrebbe rendere insostenibile l’attuale assetto dell’Unione monetaria europea. Apriamo una discussione a partire da un testo di Brancaccio, uno dei promotori del “monito”, che solleva il problema del “che fare” di fronte alla prospettiva di una implosione della moneta unica
La forbice macroeconomica che da tempo squarcia l’eurozona non sembra affatto destinata a richiudersi. Stando agli ultimi dati della Commissione europea, gli andamenti dei redditi e dei livelli di occupazione nei diversi paesi membri dell’eurozona non mostrano tangibili segni di avvicinamento dopo la lunga divergenza che si è registrata negli anni passati. Alla fine del 2014 il numero degli occupati in Germania dovrebbe segnare un incremento di due milioni e duecentomila unità rispetto al 2007. Di contro, nello stesso arco di tempo Spagna, Italia, Grecia, Portogallo, Irlanda e Francia si ritroveranno con una perdita complessiva di quasi sei milioni e duecentomila posti di lavoro1.
La divaricazione dei redditi e dell’occupazione contribuisce poi a creare faglie più profonde, di carattere strutturale, che riguardano i livelli di solvibilità dei capitali industriali e bancari dei diversi paesi dell’area euro. L’ultimo rapporto di Credit Reform segnala che tra il 2008 e il 2013 le insolvenze annue delle imprese sono aumentate del 22 percento in Francia, del 77 percento in Irlanda, del 120 percento in Italia, del 185 percento in Portogallo e del 2542 percento in Spagna, laddove in Germania nello stesso periodo sono diminuite dell’11 percento. Si tratta di un divario eccezionale, che inevitabilmente si ripercuote sui bilanci degli istituti bancari. Non è un caso che i recenti “stress test” coordinati dalla Banca centrale europea abbiano evidenziato uno scarto superiore alle attese tra gli indici di robustezza patrimoniale delle banche dei diversi paesi dell’eurozona, in particolare tra istituti tedeschi e italiani.
Di questi tempi appare abbastanza evidente come la sinistra sia la parte politica maggiormente responsabile del disastro verso cui si avvia il nostro paese, e come il suo “popolo” sia totalmente incapace di capire questo semplice dato di fatto. Occorre naturalmente distinguere fra le tendenze di fondo del nostro tempo e il modo in cui esse si concretizzano nei diversi contesti. Non c'è dubbio che, rispetto al tema di cui stiamo discutendo, la tendenza generale è quella della trasformazione, da tempo compiuta, della sinistra europea da forza di emancipazione e difesa dei ceti subalterni (il che ovviamente non vuol dire: forza rivoluzionaria) a forza totalmente asservita agli interessi dei ceti dominanti, e funzionale alla distruzione dei diritti degli stessi ceti subalterni. Questa trasformazione richiede ovviamente un certo tasso di inganno e autoinganno, perché i ceti dirigenti della sinistra devono distruggere diritti e redditi dei ceti subalterni continuando a richiamarsi ad una tradizione dove si faceva il contrario, e i loro elettori devono in qualche modo credergli. La mia impressione è che questo gioco sia particolarmente evidente e “spudorato” nel nostro Paese, cioè che in esso appaia in maniera particolarmente evidente, rispetto ad altri paesi, l'inganno perpetrato dai ceti dirigenti della sinistra, e la radicata volontà del “popolo di sinistra” di non prendere coscienza dell'inganno. Nella sinistra del nostro paese vi è una scissione, particolarmente evidente, fra le parole e le cose, fra quello che si dice e quello che si fa. Ripeto, questo è un dato generale, ma mi sembra più accentuato in Italia. Se è davvero così, sarebbe il caso di chiedersi perché.
Quelli del 1844, stesi da Marx durante il soggiorno parigino, vengono indicati come «manoscritti» in un’ottica esclusivamente filologica. Essi sono, in vero, una raccolta asistematica di appunti, glosse, abbozzi di argomentazioni o, in certi casi, di vere e proprie trascrizioni o ancora, in altri punti, di “traduzioni”. Perché ‘trascrizioni’? Perché molte pagine sono un’enumerazione di numerose citazioni degli autori che hanno fondato l’economia politica classica inglese e francese (Smith, Ricardo, Malthus, Say, Chevalier), inframezzate da brevissime e quasi inibite aggiunte dell’autore; in sostanza, degli inserimenti controllati al cospetto di certi passi dal carattere totemico. Altre note, letteralmente copiate dai testi, non ricevono neppure un commento, pur sì stringato. Questi, ricordiamo, sono fatti noti, poiché il soggiorno parigino è un periodo di continua alfabetizzazione per Marx. Per dirla in termini dialettici: Marx non era ancora diventato Marx.
Serviamoci ancora della dialettica per illustrare il secondo punto. Perché ‘traduzioni’? Perché Marx in queste pagine, attraverso le sue fugaci comparse, testa e abbozza le prime prove con il famoso “rovesciamento” della filosofia hegeliana: un rapporto, quello con la filosofia di Hegel, in sé e per sé hegeliano. Il tentativo di Marx è quello di trasporre in termini storici e corporei il movimento autodissolvente e progressivo della logica hegeliana. Prima di procedere con questa ambiziosa operazione occorre riallineare i due piani, bisogna rintracciare gli sgoccioli del pensiero che non riescono più a dissetare e assaporare l’humus dei processi mondani.
La radice del male capitolino non emerge certo con le inchieste di Pignatone né relegando tutta la faccenda allo schema “legami della malavita con la destra eversiva”. Il male di Roma è politico, non amministrativo. Ed è con la politica che si risolve, non con le inchieste giudiziarie. Sebbene sia anche necessario il contributo della magistratura, impossibile nasconderlo, non è con questa che verranno risolti i problemi della Capitale, perché tali problemi esulano dagli accordi malavitosi sulla gestione degli appalti pubblici. Insomma, dovremmo cercare di evitare una lettura unicamente giudiziaria/legale, o peggio ancora una schiacciata sui rapporti tra destra e malavita. La radice del problema di gestione della città di Roma è la politica. Da decenni, potremmo dire da sempre, a Roma vige il regime delle grandi intese oggi di moda anche a livello nazionale. Da sempre a Roma comandano i costruttori edili, e da sempre il sindaco è il frutto della sintesi del direttivo dell’ACER, cioè dell’associazione dei costruttori romani. Sono loro i veri padroni di Roma, coloro i quali hanno creato e alimentato la più importante delle emergenze sociali della città, quella abitativa, origine di tutti i problemi cittadini.
Nel bunker
Alla fine del 2013 un gruppo di attivisti della Baia di San Francisco lanciò una protesta contro i Google bus che portano ogni giorni i lavoratori cognitivi dalla città a Mountain View, 60 chilometri di distanza. I Google bus sono degli ingombranti mezzi di trasporto che funzionano in realtà come uffici mobili per i lavoratori della net-corporation. A bordo del bus i nerd lavorano con l’allegra coscienza di essere i protagonisti della virtualizzazione finale e della bunkerizzazione definitiva. Al di là dei suoi aspetti immediati (difesa dello spazio pubblico dall’invadenza di mezzi privati) quella protesta illumina la nuova stratificazione del lavoro. Una stratificazione che richiede concetti nuovi.
La composizione della società globale contemporanea si articola intorno a una fondamentale separazione tra sfera sociale bunkerizzata e sfera sociale non bunkerizzata.
Il bunker è l’area tecno-produttiva e urbano-esistenziale in cui agiscono la classe finanziaria e i lavoratori cognitivi. E’ la sfera in cui si svolgono le due funzioni sociali connesse e ricombinanti: quella della decisione finanziaria che domina e sfrutta il ciclo del lavoro sociale complessivo, e quella del lavoro cognitivo prevalentemente precarizzato, ma parzialmente protetto dal bunker in quanto lavoro necessario all’accumulazione di capitale.
Sembra proprio che valga, per il banchiere centrale, la celebre massima che l’immenso Stevenson mise il bocca al suo dottor Jekyll allorquando scoprì che “l’uomo non è veracemente uno, ma veracemente due”. D’altronde mi dico pure che non dovrei stupirmi: anche un banchiere centrale è un uomo, dopotutto e malgrado faccia del suo meglio per sembrare una calcolatrice dotata di spirito.
Peraltro mentre mi convinco di tale circostanza, mi accorgo pure di poterne avere un esempio pleclaro sotto gli occhi guardando allo strano caso, per dirla con le parole dello scrittore inglese, del dottor Draghi e mister Weidmann.
Impossibile non notarlo. I due eminenti banchieri europei sono ormai assurti allo scomodo ruolo di macchietta l’uno dell’altro, ovvero una versione affievolita, per non dire bancaria, della celebre coppia poliziotto buono/poliziotto cattivo che affolla le fiction di genere. D’altronde, mi dico pure, anche il central banking ormai è una fiction di genere.
Tanto Draghi è clemente e ridanciano, tanto Weidmann, forse perché boss della temutissima Bundesbank, è acido e sibilante. Le sue parole affilate risuonano nell’aere bancario come revolverate, ogni volta.
Come quando il 21 novembre scorso, parlando di regolazione bancaria al Frankfurt European Banking Congress, ha iniziato il suo atteso, e come sempre temuto, intervento ricordando che nel 1300 i banchieri catalani che non erano in grado di onorare le proprie obbligazioni erano costretti a nutrirsi di pane e acqua finché non avessero adempiuto ai loro doveri verso i clienti.
di ilsimplicissimus
Siamo di fronte a un apparente controsenso: lo scandalo della cupola romana che dovrebbe colpire soprattutto la gestione Alemanno e il suo mondo sotterraneo, finisce invece per mettere sul banco degli imputati il Pd che emerge come corresponsabile ai massimi livelli, non più testimone reticente ma complice e almeno in alcune componenti, socio d’affari. Così l’ex fascio e sfascio sindaco se la cava fingendosi cretino piuttosto che connivente quando in realtà non c’è ragione perché le due cose debbano essere in contrasto e dimenticando il twitter di qualche tempo fa dopo una trasmissione di Report sulla corruzione nella capitale: “Alla Gabanelli solo una risposta: querela per diffamazione e risarcimento danni per le menzogne contro Roma in onda su Report” ).
di Caprimulgus
L’inchiesta «Mafia Capitale» ha finalmente scoperchiato agli occhi dell’opinione pubblica e della stampa una realtà che i movimenti dei migranti denunciano da tempo: il razzismo istituzionale è un grande affare. Lo è per molti motivi. Nelle ultime settimane, una città che sembrava in preda al disagio delle periferie si è scoperta ostaggio di assemblaggi di potere tanto sofisticati quanto evidentemente più attenti alle politiche sull’immigrazione di tanti fautori dell’integrazione. Il sistema era perfetto: prima di tutto c’è l’emergenza immigrazione, che nasce da un nuovo modo di utilizzare la classificazione internazionale dei migranti che distingue tra quelli che si muovono per lavoro e i rifugiati e prevede percorsi specifici per i minori non accompagnati.
Questa mattina ha avuto inizio a Roma una maxi operazione per associazione di stampo mafioso che ha visto 37 persone sottoposte a misure cautelari, 29 in carcere ed 8 ai domiciliari, e sequestri di beni per oltre 200 milioni di euro.
Al centro dell’operazione c’è Massimo Carminati che dalle ricostruzioni dell’inchiesta fornite dai media viene indicato come il capo di questa organizzazione mafiosa. Personaggio che ormai da quarant’anni si trova sempre coinvolto nelle vicende più buie di questa città. Ex Nar e grande amico di Fioravanti e Alibrandi, Carminati ha giocato e continua a giocare il ruolo chiave di connessione fra organizzazioni politiche di estrema destra e criminalità organizzata.
Written by Aldo Giannuli
Vecchia conoscenza per chiunque si occupi di eversione nera, Massimo Carminati: dalle imprese dei Nar a quelle della Banda della Magliana, così nei casi degli omicidi Pecorelli, Fausto e Iaio, Pugliese, nel depistaggio per la strage di Bologna, nella rapina alla Chase Manhattan Bank dell’Eur, nella “strana” vicenda del deposito d’armi presso la sede di via Liszt del Ministero della Sanità, il suo nome torna sempre.
Spesso è stato imputato, ma alla fine se l’è sempre cavata e con assoluzioni con formula piena (Pecorelli, depistaggi Bologna, Fausto e Iaio). Per altri casi (ad esempio il furto al caveau della Banca di Roma, nel Palazzo di Giustizia di Piazzale Clodio, a Roma) e per uno degli scandali del calcio scommesse è ancora indagato.
Miguel Martinez
Sto seguendo, un po’ distrattamente visto che ho molto lavoro, la vicenda di Roma.
E quello che ho capito finora è questo.
Esiste gente che si trova sotto casa da un giorno all’altro un migliaio di Rom senza arte né parte, in immense distese mantenute con i soldi pubblici. E quindi votano a Destra perché sperano che la Destra “rimandi” i Rom nella loro mitica patria, la Zingaria. O se non in Zingaria, almeno a Zagarolo.
Esiste invece gente che trova brutto prendersela con un povero disgraziato senza arte né parte,e vorrebbe che lo Stato investisse soldi per “accoglierlo” e “integrarlo”. E quindi votano a Sinistra. Dove per “Destra” e “Sinistra” intendiamo quelle realmente esistenti, quelle che ci passa il convento del sistema elettorale attuale.
di Emiliano Viccaro
"Il Nero e il Rosso". Il rischio che l'inchiesta "Mafia Capitale" diventi la terza serie, dozzinale, di una nota fiction è dietro l'angolo. Ma il rischio più forte è la sua traduzione politica, amministrativa, economica, da parte degli stessi poteri che sono finiti al centro dello scandalo più annunciato della storia. Se è vero, come ha detto un dirigente del Pd romano, "che siamo davanti al nostro '92", meglio attrezzarsi subito per non finire in una nuova brace giustizialista e iperliberista.
Qualche giorno fa, su queste pagine, nel recensire il film La Trattativa, disegnavamo una sorta di cartografia sociale del "capitale che si fa mafia", utile alla descrizione dei processi di saccheggio, legali o illegali poco importa, che investono le nostre città. La tempesta di questi giorni conferma e travalica clamorosamente quelle ipotesi di governo spurio delle metropoli.
Alessandro Dal Lago
Quando qualcuno strepita in nome della sicurezza, si sente invariabilmente odore di corruzione. Vi ricordare Penati, lo sceriffo di Sesto san Giovanni ossessionato dalla legalità e salvato dalla prescrizione? E che dire di Bossi, l’uomo che si faceva rifare la casa con i rimborsi elettorali, mentre scagliava la Lega contro gli immigrati? La storia d’Italia degli ultimi venticinque anni abbonda di episodi come questi. L’ipotesi di fondo è sempre stata che i tutori della legge e dell’ordine volessero deviare l’attenzione del pubblico su capri espiatori facili facili. Ma ora, la straordinaria vicenda della cupola romana permette di aggiustare il tiro.
Andiamo con ordine. Una gang guidata da uno della Magliana si infiltra nell’amministrazione locale in collaborazione con uomini delle cooperative «rosse» e del terzo settore.
Ripartiamo dal “mondo di sotto”
Rete dei Comunisti
L’inchiesta “Mondo di mezzo”, ribattezzata dai giornali “Mafia Capitale”, che ha portato nei giorni scorsi all’arresto a Roma di 38 tra malavitosi, fascisti, politici e affaristi, e oltre cento indagati, rimette in luce un “mondo” noto, l’intreccio sistemico tra pezzi diversi di società che, in qualche modo, nella Capitale ha sempre formato quel “comitato di scopo” che mette assieme interessi diversi, ma nel quale ognuno trova il vantaggio nell’alleanza con l’altro per poter realizzare il suo.
Un modello che però, almeno attraverso le inchieste giudiziarie, non aveva ancora completamente manifestato tutta la sua complessità.
Militant
La radice del male capitolino non emerge certo con le inchieste di Pignatone né relegando tutta la faccenda allo schema “legami della malavita con la destra eversiva”. Il male di Roma è politico, non amministrativo. Ed è con la politica che si risolve, non con le inchieste giudiziarie. Sebbene sia anche necessario il contributo della magistratura, impossibile nasconderlo, non è con questa che verranno risolti i problemi della Capitale, perché tali problemi esulano dagli accordi malavitosi sulla gestione degli appalti pubblici. Insomma, dovremmo cercare di evitare una lettura unicamente giudiziaria/legale, o peggio ancora una schiacciata sui rapporti tra destra e malavita. La radice del problema di gestione della città di Roma è la politica.
L’inchiesta “Mondo di mezzo”, ribattezzata dai giornali “Mafia Capitale”, che ha portato nei giorni scorsi all’arresto a Roma di 38 tra malavitosi, fascisti, politici e affaristi, e oltre cento indagati, rimette in luce un “mondo” noto, l’intreccio sistemico tra pezzi diversi di società che, in qualche modo, nella Capitale ha sempre formato quel “comitato di scopo” che mette assieme interessi diversi, ma nel quale ognuno trova il vantaggio nell’alleanza con l’altro per poter realizzare il suo.
Un modello che però, almeno attraverso le inchieste giudiziarie, non aveva ancora completamente manifestato tutta la sua complessità.
L’intreccio losco tra palazzinari e politica è stato il leitmotiv che a Roma ha accompagnato la crescita e l’espansione dell’area metropolitana dal secondo dopoguerra ad oggi, dove la borghesia capitolina, e non solo, per decenni ha innescato meccanismi di profittabilità attraverso strumenti di accumulazione primitiva: piani regolatori ad hoc, cambi di destinazione d’uso, evasione fiscale, incentivi statali, leggi di sostegno, regimi monopolistici, privatizzazioni, svendite del patrimonio pubblico, deroghe, sanatorie. E dove non bastavano i sistemi “legali” interveniva e sosteneva il meccanismo l’illegalità, con corruzione e concussione.
Quando qualcuno strepita in nome della sicurezza, si sente invariabilmente odore di corruzione. Vi ricordare Penati, lo sceriffo di Sesto san Giovanni ossessionato dalla legalità e salvato dalla prescrizione? E che dire di Bossi, l’uomo che si faceva rifare la casa con i rimborsi elettorali, mentre scagliava la Lega contro gli immigrati? La storia d’Italia degli ultimi venticinque anni abbonda di episodi come questi. L’ipotesi di fondo è sempre stata che i tutori della legge e dell’ordine volessero deviare l’attenzione del pubblico su capri espiatori facili facili. Ma ora, la straordinaria vicenda della cupola romana permette di aggiustare il tiro.
Andiamo con ordine. Una gang guidata da uno della Magliana si infiltra nell’amministrazione locale in collaborazione con uomini delle cooperative «rosse» e del terzo settore. Questa gente di «sotto» collabora nella terra di «mezzo» (terminologia di Tolkien presa da qualche nostalgico dei campi Hobbit) per fare affari con quelli di «sopra», ovvero politici fascisti, piddini e pidiellini incardinati nei luoghi di potere. La meravigliosa fotografia in cui si vede Poletti parlare cheek to cheek con Buzzi, l’omicida redento, davanti ad Alemanno, descrive perfettamente la compagnia: terzo settore, destra, sinistra, amministratori locali e, sullo sfondo, uno della banda Casamonica. E qual è il business di queste allegre tavolate? L’accoglienza dei rifugiati, la gestione dei campi rom, la spazzatura e le case sfitte, insomma i problemi umani e sociali delle periferie.
"Il Nero e il Rosso". Il rischio che l'inchiesta "Mafia Capitale" diventi la terza serie, dozzinale, di una nota fiction è dietro l'angolo. Ma il rischio più forte è la sua traduzione politica, amministrativa, economica, da parte degli stessi poteri che sono finiti al centro dello scandalo più annunciato della storia. Se è vero, come ha detto un dirigente del Pd romano, "che siamo davanti al nostro '92", meglio attrezzarsi subito per non finire in una nuova brace giustizialista e iperliberista.
Qualche giorno fa, su queste pagine, nel recensire il film La Trattativa, disegnavamo una sorta di cartografia sociale del "capitale che si fa mafia", utile alla descrizione dei processi di saccheggio, legali o illegali poco importa, che investono le nostre città. La tempesta di questi giorni conferma e travalica clamorosamente quelle ipotesi di governo spurio delle metropoli.
Facciamo un passo indietro. Tra la fine del "compromesso fordista" e l'avvento della crisi economica globale si è formata una città segnata da un sistema trasversale e flessibile di governance, in cui si mischiano e si integrano rendita finanziaria, speculazione fondiaria, economia dello spettacolo, pezzi di rappresentanza politica, burocrazia dei servizi e centri di spesa lottizzati equamente.
Sto seguendo, un po’ distrattamente visto che ho molto lavoro, la vicenda di Roma.
E quello che ho capito finora è questo.
Esiste gente che si trova sotto casa da un giorno all’altro un migliaio di Rom senza arte né parte, in immense distese mantenute con i soldi pubblici. E quindi votano a Destra perché sperano che la Destra “rimandi” i Rom nella loro mitica patria, la Zingaria. O se non in Zingaria, almeno a Zagarolo.
Esiste invece gente che trova brutto prendersela con un povero disgraziato senza arte né parte,e vorrebbe che lo Stato investisse soldi per “accoglierlo” e “integrarlo”. E quindi votano a Sinistra. Dove per “Destra” e “Sinistra” intendiamo quelle realmente esistenti, quelle che ci passa il convento del sistema elettorale attuale.
Tra un’elezione e l’altra, gli elettori delle due parti si insultano iperbolicamente sul Libro de’ Ceffi.
Vecchia conoscenza per chiunque si occupi di eversione nera, Massimo Carminati: dalle imprese dei Nar a quelle della Banda della Magliana, così nei casi degli omicidi Pecorelli, Fausto e Iaio, Pugliese, nel depistaggio per la strage di Bologna, nella rapina alla Chase Manhattan Bank dell’Eur, nella “strana” vicenda del deposito d’armi presso la sede di via Liszt del Ministero della Sanità, il suo nome torna sempre.
Spesso è stato imputato, ma alla fine se l’è sempre cavata e con assoluzioni con formula piena (Pecorelli, depistaggi Bologna, Fausto e Iaio). Per altri casi (ad esempio il furto al caveau della Banca di Roma, nel Palazzo di Giustizia di Piazzale Clodio, a Roma) e per uno degli scandali del calcio scommesse è ancora indagato.
L’unica condanna seria (10 anni) se la beccò nel secondo grado del processo alla Banda della Magliana iniziato nel 1995. Nella maggior parte del tempo è stato sempre libero ed instancabile… Oggi lo rivediamo ancora al centro di uno dei grandi scandali capitolini: tutto in regola. Sarà, ma ho il dubbio che anche questa volta riuscirà a passare indenne. Staremo a vedere.
Questa mattina ha avuto inizio a Roma una maxi operazione per associazione di stampo mafioso che ha visto 37 persone sottoposte a misure cautelari, 29 in carcere ed 8 ai domiciliari, e sequestri di beni per oltre 200 milioni di euro.
Al centro dell’operazione c’è Massimo Carminati che dalle ricostruzioni dell’inchiesta fornite dai media viene indicato come il capo di questa organizzazione mafiosa. Personaggio che ormai da quarant’anni si trova sempre coinvolto nelle vicende più buie di questa città. Ex Nar e grande amico di Fioravanti e Alibrandi, Carminati ha giocato e continua a giocare il ruolo chiave di connessione fra organizzazioni politiche di estrema destra e criminalità organizzata. Proprio perchè anello di congiunzione fra questi due mondi gode da anni di rispetto e ammirazione indiscussi all’interno di questi ambienti.
Il cerchio, partendo da Carminati, si allarga comprendendo quelli che vengono considerati suoi “uomini” e sono stati quindi coinvolti nell’operazione anche personaggi come Riccardo Brugia, considerato il suo braccio destro, che sono riconducibili al gruppo dei vecchi fascisti legati ai Nar da cui parte l’inizio di questi intrecci e conoscenze.
L’inchiesta «Mafia Capitale» ha finalmente scoperchiato agli occhi dell’opinione pubblica e della stampa una realtà che i movimenti dei migranti denunciano da tempo: il razzismo istituzionale è un grande affare. Lo è per molti motivi. Nelle ultime settimane, una città che sembrava in preda al disagio delle periferie si è scoperta ostaggio di assemblaggi di potere tanto sofisticati quanto evidentemente più attenti alle politiche sull’immigrazione di tanti fautori dell’integrazione. Il sistema era perfetto: prima di tutto c’è l’emergenza immigrazione, che nasce da un nuovo modo di utilizzare la classificazione internazionale dei migranti che distingue tra quelli che si muovono per lavoro e i rifugiati e prevede percorsi specifici per i minori non accompagnati. Grazie a questa distinzione, ai rifugiati e ai minori è dovuta una minima assistenza da parte dello Stato «ospitante», con lo scopo dichiarato di favorirne l’integrazione. Siccome è impossibile entrare in Italia in modo regolare, ora i migranti in ingresso sono in gran parte considerati «rifugiati». Sentiamo quotidianamente ripetere questo mantra: «qui non si tratta di immigrati clandestini, ma di rifugiati». Una volta stabilito questo, ai numeri fanno seguito i soldi. Sì perché lo Stato e le amministrazioni locali devono a questi uomini e donne percorsi di accoglienza.
Siamo di fronte a un apparente controsenso: lo scandalo della cupola romana che dovrebbe colpire soprattutto la gestione Alemanno e il suo mondo sotterraneo, finisce invece per mettere sul banco degli imputati il Pd che emerge come corresponsabile ai massimi livelli, non più testimone reticente ma complice e almeno in alcune componenti, socio d’affari. Così l’ex fascio e sfascio sindaco se la cava fingendosi cretino piuttosto che connivente quando in realtà non c’è ragione perché le due cose debbano essere in contrasto e dimenticando il twitter di qualche tempo fa dopo una trasmissione di Report sulla corruzione nella capitale: “Alla Gabanelli solo una risposta: querela per diffamazione e risarcimento danni per le menzogne contro Roma in onda su Report” ). Ma chi è rimasto impigliato mani e piedi è proprio il Pd. Sia nelle sue bande romane che a livello più generale: le foto di Poletti attovagliato con alcuni dei protagonisti della vicenda e la notizia che Buzzi, il mazzettaro rosso, fosse con Renzi ( e con l’assegno da mille euro, immagino) ad una delle cene di autofinanziamento non possono che inquietare.
La crisi dell’economia capitalistica colpisce i paesi occidentali ormai da molti anni, eppure a leggere i giornali (o ascoltando i dibattiti in televisione o alla radio) sembra che nulla sia cambiato nelle analisi e nelle proposte di politica economica. Oggi, come prima della crisi, il liberismo economico resta l’unica visione dell’economia e sembra che nessuno lo metta in discussione. Se davvero questa crisi è paragonabile a quella del 1929, la resistenza del liberismo rappresenta una differenza significativa.
La lotta ideologica in economia
Come osservava Marx
“nel campo dell’economia politica la libera ricerca scientifica non trova solo gli stessi nemici che trova in tutti gli altri campi. La natura propria della materia che tratta richiama a battaglia contro di lei le passioni più forti, più meschine e più brutte del cuore umano, le furie dell’interesse privato.”
Lo studio dell’economia è stato fortemente influenzato dai mutamenti politici che sono avvenuti negli ultimi decenni. Proprio a causa dei forti interessi in gioco, l’economia rappresenta un campo di lotta che oltrepassa i semplici confronti scientifici: in questo campo i normali criteri di selezione delle idee e degli studiosi vengono abbandonati, e a prevalere non è più la semplice contesa accademica, ma una selezione fondata sulla vicinanza o meno agli interessi dominanti.
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