La libera circolazione di merci e di capitali ha favorito l’arrivo di nuovi e maggiori flussi migratori che hanno determinato l’acuirsi di alcune contraddizioni anche in seno alla classe operaia. Veniamo da anni bui per un pensiero critico, in materia di immigrazione la bussola di orientamento è stata rappresentata dai diritti umani o al massimo quelli civili, un approccio umanitario di stampo cattolico progressista (assai più avanzato, per intenderci, del pensiero democratico americaneggiante se non proprio liberista del centro sinistra) che non ha saputo indagare alcuni aspetti dirimenti dei flussi migratori.
Se vogliamo entrare nel merito delle questioni non possiamo eludere alcuni fatti storici come il crollo del Muro di Berlino, le politiche di assalto neo liberiste che hanno spinto all’immigrazione i popoli dell’est Europa, le guerre scatenate dalla Nato che a loro volta hanno disegnato nuove rotte immigratorie (ad esempio dalla Siria e dai paesi africani).
Se poi pensiamo alla Ue dovremmo aprire prima una seria riflessione sugli interessi reali che hanno portato al pareggio di bilancio nella Costituzione Italiana, ai flussi migratori verso i paesi europei alimentati anche dalla necessità di alcuni paesi di quella manodopera a basso costo indispensabile per le loro aziende. Il rapporto tra guerra e immigrazione dovrebbe alimentare la nostra analisi; basterebbe guardare ai numeri della popolazione ucraina in uscita verso i paesi Ue, da qui ogni ulteriore considerazione sul ruolo della Nato. Proviamo allora a riflettere, in maniera volutamente schematica, su alcuni punti dirimenti per non farci sommergere da una lettura parziale e spesso acritica.
Abbiamo appreso con immenso dispiacere della scomparsa di Luigi Pasinetti, uno dei grandi maestri del pensiero economico italiano. Pasinetti è stato uno straordinario interprete del pensiero di Ricardo e dei Classici ed uno dei protagonisti del dibattito tra le due Cambridge sulla teoria del capitale e della distribuzione. Tra i suoi scritti non possiamo non ricordare il paper “The myth (or folly) of the 3% deficit-GDP Maastricht parameter”, pubblicato nel 1998 dal “Cambridge Journal of Economics” in cui dimostrò – senza mai avere smentita – l’idiozia dei parametri di Maastricht relativi al deficit e al debito. Pasinetti era uomo pacato e anche raffinato, tanto nei modi quanto nel pensiero. E con raffinatezza e pacata determinazione lottò con tutte le sue forze per evitare che la valutazione della ricerca nel nostro Paese divenisse uno strumento di orientamento della ricerca scientifica volto a screditare le tradizioni di ricerca eterodosse [Si veda a tal riguardo La Nota di dissenso del 2006 che abbiamo ripubblicato alcuni anni fa su questa rivista https://www.economiaepolitica.it/editoriale/la-qualita-della-ricerca-scientifica-vqr-e-la-nota-di-dissenso-di-pasinetti/]. La sua è una grande perdita. Pubblichiamo qui di seguito uno dei suoi ultimi scritti, la prefazione alla edizione giapponese del libro Keynes e i Keynesiani di Cambridge, apparsa originariamente nel 2017 e mai tradotta in italiano.
La redazione di Economia e Politica
La bozza (originale) del mio libro Keynes and the Cambridge Keynesians. A Revolution in Economics to be Accomplished è stata consegnata alla Cambridge University Press per la pubblicazione nel maggio 2006. Ciò significa che il libro è stato scritto prima dello scoppio della catastrofica crisi economica che ancora oggi attanaglia le economie di tutto il mondo.
Pubblichiamo un articolo di Andrea Pannone, economista già intervenuto nella sezione Transuenze negli scorsi mesi (https://www.machina-deriveapprodi.com/post/capitalismo-delle-piattaforme-capital-gain-e-revolving-doors). In questo contributo, Pannone si sofferma su una tendenza «strutturale» e poco discussa degli ultimi decenni, il persistente sottoutilizzo della capacità produttiva, che nella sua analisi contraddice la visione neoclassica della capacità autoregolativa dell’economia capitalistica, attraverso appunto la periodica rimozione del capitale in eccesso (in altre parole, le crisi congiunturali). Il sottoutilizzo di capacità produttiva, in questa lettura, è uno dei sottostanti che alimentano la duplice tendenza alla concentrazione dei capitali e alla centralizzazione proprietaria, ma anche il lungo ciclo di espansione finanziaria che ha segnato gli ultimi decenni. E non certo per ultimo, l’acuirsi delle tensioni geopolitiche in corso.
Il contenuto dell'articolo è esclusiva responsabilità dell'autore e non coincide necessariamente con la posizione dell'Ente in cui lavora.
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Introduzione
Già nelle prime pagine del Capitale Karl Marx individua chiaramente la contraddizione intrinseca alla dinamica dell’economia capitalista: la competizione tra capitalisti per incrementare la produttività richiede un incessante investimento nella crescita dei mezzi di produzione che conduce a una condizione generalizzata di sovraccumulazione del capitale costante (e della composizione organica del capitale, ossia del rapporto tra capitale costante e capitale variabile), caratterizzata da un eccesso di capacità produttiva, un’elevata disoccupazione e da un declino del tasso di profitto.
Paolo Mossetti è uno scrittore e giornalista che ha lavorato nel marketing editoriale e come traduttore. Si occupa di cultura economica, politica e conflitti su diverse riviste tra cui N+1 e le edizioni italiane di Esquire, Wired e Forbes
Era il settembre 1955 e l’attentato a Plaza de Mayo aveva già cambiato la storia dell’Argentina. Il 16 di quel mese, con il bombardamento della Casa Rosada, si era scatenato a Buenos Aires il colpo di stato definitivo contro il governo di Juan Domingo Perón. Tre giorni dopo Perón si dimise e il 23 il generale Eduardo Lonardi entrò in carica. Perón andò in esilio. La maggior parte dei partiti politici, dei settori militari, della chiesa cattolica e degli uomini d’affari festeggiò l’evento, applaudendo all’installazione di una dittatura non meno brutale di quella appena rimossa.
Il nuovo corso fu chiamato Revoluciòn libertadora, e l’ambasciata statunitense affermò che il neogoverno era il più “amichevole” che avesse avuto da anni. Presto arrivarono le sparatorie e la proscrizione dei peronisti. L’odio nell’aria era tale che il contrammiraglio Arturo Rial disse agli operai comunali: “Dovete sapere che la Rivoluzione Liberatrice fu fatta perché in questo benedetto paese il figlio dello spazzino morisse spazzino”.
All’epoca, gran parte degli intellettuali argentini era militante contro il peronismo. Non era estraneo a questa tendenza lo scrittore Ernesto Sábato, protagonista per mezzo secolo del dibattito pubblico. Tuttavia questo ex militante comunista era perplesso. Come qualche altro sparuto pensatore non ancora accecato per dalla libertà conquistata, provava empatia per la tristezza che gran parte del popolo argentino provò quando il caudillo fu rovesciato. Nei mesi successivi alla caduta di Perón, Sábato pubblicò un breve saggio sotto forma di lettera aperta, mai tradotto né ripubblicato dopo la prima edizione del 1956, nel quale si interrogava sulla violenza e la natura degli eventi appena trascorsi.
Il terzo appuntamento del «Diario della crisi» mette a fuoco una questione di grande importanza politica e di decisiva attualità: il reddito. In questo importante articolo, Andrea Fumagalli e Cristina Morini propongono una precisa genealogia del tema ed evidenziano la rilevanza strategica della partita che attorno al reddito si gioca. Da un lato, l’attacco condotto dall’attuale esecutivo di destra al pur limitato Reddito di Cittadinanza introdotto dal primo governo Conte ha come obiettivo un ulteriore giro di vite nelle politiche di obbedienza e impoverimento, coazione al lavoro precario e asservimento delle forme di vita; dall’altro, riprendere e sviluppare con forza il dibattito sul welfare e sul reddito è imprescindibile per inventare e reinventare percorsi e prospettive di liberazione.
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Strette e stretti nella morsa di un capitalismo «tutto intorno a noi», che colonizza immaginari oltre che spazi-tempi e forme di vita, non è strano sentirsi stanche e stanchi.
Ebbene, proprio per questo è più urgente che mai guardare da un lato ai meccanismi espropriativi che aggrediscono i campi propri del vivere nel sociale, della riproduzione sociale, dall’altro all’attacco organizzato contro gli strati sociali meno abbienti il cui scopo è facilitare, ancora e ancora, la separazione tra salvati e sommersi, facendo mancare, per questi ultimi, anche le forme minime di assistenza sociale.
La repressione economica
Il libro “La Guerra Capitalista. Competizione, centralizzazione, nuovo conflitto imperialista” individua nella centralizzazione dei capitali uno dei fattori decisivi di squilibrio del sistema economico e politico internazionale ed un fattore fondamentale di stravolgimento delle nostre democrazie
Quali sono le cause economiche dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia di Putin e quali le cause dello scontro strategico tra Stati Uniti e Cina? Dopo la Prima Guerra Mondiale John Maynard Keynes spiegò nel suo best seller “Le conseguenze economiche della pace”[1] che il principale fattore di conflitto tra gli Stati è il debito: il rapporto tra i debitori e i creditori porta molto facilmente, se non inevitabilmente, alla guerra. Emiliano Brancaccio, Raffaele Giammetti e Stefano Lucarelli nel nuovo libro “La Guerra Capitalista. Competizione, centralizzazione, nuovo conflitto imperialista” edito da Mimemis (2022) offrono un’interpretazione molto interessante e per alcuni aspetti anche molto keynesiana dei conflitti geopolitici in corso.
Secondo gli autori gli Stati Uniti hanno perso la guerra della globalizzazione e lo scontro attuale tra le grandi potenze è legato al gigantesco contrasto tra debitori e creditori: non è certamente un caso che gli Stati Uniti d’America con 14 trilioni di dollari di posizione finanziaria netta negativa verso l’estero (64% del suo PIL, dati 2021) siano il maggior debitore del pianeta e che Cina e Russia siano (insieme al Giappone e alla Germania) tra i paesi maggiori creditori del mondo. Il declino della potenza americana è quindi legato alla sua enorme posizione debitoria con l’estero: gli Stati Uniti possono reggere il loro pluriennale e crescente doppio deficit (deficit commerciale e deficit di bilancio pubblico) solo grazie all’”impero del dollaro”, e dunque al fatto che il dollaro – che la FED può stampare in quantità illimitata – è la moneta mondiale di riserva e, come tale, è richiesta da tutti i Paesi del mondo per commerciare. Gli USA difendono la loro posizione debitoria e il dominio del dollaro anche grazie al fatto che sono di gran lunga la maggiore potenza militare del mondo.
Joshua Clover, Riot. Sciopero. Riot. Una nuova epoca di rivolte, Meltemi editore, Milano 2023, pp. 244, 20,00 euro
Fa piacere trovare e recensire un testo come questo, soprattutto per chi da anni cerca di svincolare logiche e strategie dei movimento antagonista dal pensiero operaista oppure da quello ancora basato su una concezione di classe operaia che, nel bene e nel male, le derive della storia economica, sociale e politica hanno fortemente ridimensionato.
Il secondo motivo per ringraziare Meltemi per averlo pubblicato, nella collana “Culture radicali” diretta dal Gruppo Ippolita, sta nel fatto che, al di là del bizzarro anti-americanismo culturale che ancora agita i sogni di tanti compagni di antica maniera che dimenticano che tale tipo di superficiale approccio a tante ricerche e produzioni culturali statunitensi è stata in realtà tipica dell’epoca fascista e dei suoi esponenti intellettuali e susseguentemente ereditata dallo stalinismo e dalle sue derive togliattiane, dal cuore dell’impero occidentale, e proprio perché tale, arrivano segnali di grande vitalità teorica, spesso derivata da una prassi diffusa di conflitto sociale. Vitalità che si presenta anche sotto le forme di una rivitalizzazione del pensiero di Marx, che sa, però, scartare sapientemente le interpretazione muffite di tanti suoi interpreti “ortodossi”1.
L’autore, Joshua Clover, oltre tutto, non è un marxista “di professione”, anzi questo, uscito negli States nel 2016 ma oggi accompagnato da un Poscritto all’edizione italiana che lo aggiorna al 2022, è il suo primo studio di carattere politico, poiché è professore di English and Comparative Literature alla University of California”Davis”, motivo per cui Clover è autore sia di libri di poesia che di saggi di critica culturale, tra i quali va segnalato 1989: Bob Dylan Didn’t Have This to Sing About del 2009.
Riepilogo ragionato del conflitto fino all’attuale quarta fase, trasformativa, della guerra
In questo scritto ripercorro, con la massima brevità e chiarezza, il percorso e le dinamiche strategiche che hanno condotto alla presente quarta fase della guerra in Ucraina, una fase che ritengo trasformativa. Non inserisco note tranne una, relativa a un significativo studio della RAND Corp., pubblicato mentre elaboravo questo testo, a fine gennaio 2023. Chi desidera informarsi sulle mie analisi precedenti, e trovare la documentazione dei fatti e delle interpretazioni a cui qui mi riferisco, può visitare i siti italiaeilmondo.com e l’antidiplomatico.it, inserendo nella funzione di ricerca il mio nome e la parola “Ucraina”, e/o le altre parole chiave presenti nel testo.
Ringrazio sentitamente il generale Marco Bertolini, lo storico Giacomo Gabellini, e il responsabile del sito italiaeilmondo.com Giuseppe Germinario, che mi hanno usato la bontà di leggere in bozza questo testo e consigliarmi. Ovviamente è solo mia la responsabilità dei difetti e dei limiti dell’articolo.
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Sull’eziologia della guerra in Ucraina condivido l’interpretazione storica del prof. John Mearsheimer. È la conseguenza dell’espansione a Est della NATO, e della volontà statunitense di creare un bastione militare occidentale alla frontiera russa, integrando l’Ucraina nella NATO: una strategia che la Federazione russa ha dichiarato assolutamente inaccettabile sin dal Summit NATO di Bucarest 2008 in cui venne annunciata l’intenzione di integrare nell’Alleanza Atlantica Georgia e Ucraina.
Anche se gruppi di umani sopravviveranno, l’umanità non può sopravvivere. Una riflessione sulla sconfitta in compagnia di Amitav Ghosh, Swimmers e il documentario Rai su Lotta Continua
Nei giorni di Lutzerath, mentre qualche migliaia di ragazzine e ragazzini col cappuccio di lana calato sulle orecchie giocava a nascondino con la polizia dello Stato tedesco per impedire l’apertura di una miniera di carbone, ho visto Lotta Continua il documentario Rai di Tony Saccucci.
È pieno di immagini straordinarie sulle lotte Fiat, e offre prospettive diverse, anche contraddittorie, sulla storia di quella organizzazione e sul panorama sociale degli anni successivi al ’68.
Voglio precisare che non ho partecipato all’esperienza di Lotta Continua, perché dal 1967 mi riconoscevo nelle posizione di Potere Operaio, ma voglio anche precisare che fin da quegli anni mi sentivo spesso più vicino allo spontaneismo di Lotta Continua che al severo tardo-leninismo che dopo l’autunno del ‘69 prese il sopravvento in Potere Operaio.
Tra le tante cose interessanti mi ha colpito una frase di Vicky Franzinetti: “Noi abbiamo perso, e chi perde ha un debito immenso verso le generazioni successive.”
Mi ha fatto pensare, mi sta facendo pensare.
“Abbiamo perso.” Frase problematica. Avremmo potuto vincere? E come avremmo potuto vincere? Trasformandoci in forza politica parlamentare (tentativo peraltro compiuto e fallito) o prendendo le armi in centomila fino al bagno di sangue? O forse avviando un processo di secessione pacifica di un’intera generazione? Più o meno le abbiamo tentate tutte, queste strade, e nessuna era all’altezza del problema.
1. La critica radicale di Sraffa al marginalismo
La funzione di produzione Q=f(L,K>) implica la conoscenza delle quantità di L, K e Q (lavoro, “capitale” e prodotto). Se si può supporre che tutti i lavori siano riducibili a lavoro generico e misurabili in tempo di lavoro e che sia possibile una misurazione in termini fisici del prodotto (ove si escluda la produzione congiunta) sorge il problema di misurare il capitale, che è composto da merci eterogenee. Ciò nonostante questa funzione fa ancora da padrona nell’accademia, ove si sorvola anche sulla circostanza che il problema di una misurazione rigorosa del capitale era già stato affrontato da Ricardo, sia pure in modo insoddisfacente, attraverso la finzione della produzione di grano a mezzo di grano. Lo stesso problema, come abbiamo fuggevolmente riferito nel nostro precedente articolo1, era stato segnalato da Keynes, per quanto quest'ultimo non ne abbia tratto la conclusione di una rottura con il paradigma marginalista. L'argomento diventerà invece cruciale nel contributo di Piero Sraffa.
Italiano e antifascista, dopo avere svolto l'incarico di direttore dell'Ufficio del lavoro di Milano, vinse nel 1926 il concorso come professore ordinario presso l’Università di Cagliari. Tuttavia, l’anno seguente, dopo la carcerazione di Gramsci e dopo le minacce di cui fu oggetto egli stesso, dovette recarsi in Inghilterra, a Cambridge, chiamato proprio da Keynes, che lo aveva conosciuto in un precedente soggiorno dell'economista italiano in Inghilterra e che gli trovò l'occupazione come bibliotecario della Marshall library. Lì rimase fino al 1983, anno della sua morte. A Cambridge accettò, su invito di Keynes, di tenere dei corsi all’Università sulla teoria del valore e sui sistemi finanziari italiano e tedesco.
In un acuto articolo reperibile sulla rete[1], l’antropologo francese Emmanuel Todd ha sviluppato alcune riflessioni sugli accadimenti ucraini che andrebbero valutate da chi dispone del potere di evitare che questa guerra ci conduca nel baratro.
Di seguito i punti cruciali delle riflessioni di Todd, con commenti a margine di chi scrive, quando non diversamente indicato, tenendo a mente che le rappresentazioni della narrazione dominante non sorgono da quel ramo del Lago di Como come i monti manzoniani, essendo fabbricate a tavolino da coloro che muovono i fili della manipolazione, per interesse o sudditanza[2].
L’antropologo citato rileva che all’avvio del conflitto due erano i postulati che gli eventi successivi hanno poi smentito: a) l’Ucraina non resisterà alla pressione militare russa; b) la Russia verrà schiacciata dalle sanzioni occidentali e il suo sistema produttivo, commerciale e finanziario sarà messo in ginocchio.
Inizialmente il conflitto aveva una dimensione territoriale, con un rischio espansivo limitato, sebbene i propositi di Nato-Usa erano stati prefabbricati e avessero obiettivi più estesi. Col passare dei mesi, l’obiettivo dell’Occidente è emerso nella sua evidenza, il dissanguamento della Russia e a caduta l’indebolimento della Cina. In parallelo, da una dimensione circoscritta la guerra è diventata mondiale, seppure con proprie caratteristiche e una bassa intensità militare rispetto a quelle precedenti.
1. Il libro di Brancaccio, Giammetti e Lucarelli La guerra capitalista. Competizione, centralizzazione, nuovo conflitto imperialista (Brancaccio et al. 2022 e’ probabilmente il lavoro di ispirazione marxista più diffuso e apprezzato oggi in Italia ( vedi Cremaschi 2022, Schettino 2023, Zolea 2023, Ciccarelli 2023; per una valutazione più critica, vedi Bargigli 2023). Il fatto stesso che uno studio come questo abbia raggiunto un certo grado di popolarità e di diffusione e’ certamente un fatto positivo. Queste brevi note, dando quasi per scontata la correttezza della principale tesi di fondo che gli autori corroborano con nuovi risultati statistici ed econometrici di grande valore, si focalizzano su quella che io ritengo essere una debolezza di fondo della loro analisi, che può purtroppo indurre i lettori a una grande confusione su un punto cruciale: which side are you on1? (da che parte stai?).
2. Brancaccio et al. criticano giustamente la timidezza degli scienziati sociali “gli studiosi contemporanei appaiono in larghissima parte timorati dinanzi a qualsiasi tentativo di generalizzazione del corso degli eventi storici. 2 Al punto che la negazione di ogni “legge” generale di tendenza potrebbe esser considerata la base metodologica comune dell’economia, della sociologia, della storiografia, e di tutto il complesso delle scienze sociali del nostro tempo. ”3 (p.8). Al contrario, gli autori rivendicano la legittimità e la necessità di identificare, analizzare e dimostrare empiricamente le leggi di movimento del capitalismo. Una tra le più importanti e’ la legge della centralizzazione (LC), che afferma che in regime capitalista la proprietà e il controllo del capitale- già di per sé diseguale, per definizione, in questo modo di produzione – tendono a concentrarsi sempre di più in poche mani.4
L’abilità dei politici sta spesso nella capacità di non dire, dando tuttavia l’impressione di aver detto. L’importante è ammiccare al proprio elettorato senza tuttavia cadere, nel contempo, nell’errore di provocare inutili reazioni in campi avversi e, soprattutto, senza scoprire il fianco con affermazioni troppo marcate o addirittura infondate che possano fornire all’opposizione argomenti utili a costruire analisi critiche, polemiche, attacchi politici. Il “dire non dicendo” è un esercizio molto difficile che richiede anni di gavetta e di formazione nella scuola della politica, come avveniva in passato con modalità ben organizzate all’interno del Partito Comunista e all’interno della Democrazia Cristiana. I parvenus della politica cadono molto facilmente nell’errore e le loro dichiarazioni, non adeguatamente auto-controllate, li trasformano spesso in facili bersagli per l’opposizione.
“Dire e non dire” rende più difficile per l’ascoltatore l’interpretazione del reale pensiero, dell’ideologia che sta a monte degli orientamenti che danno impronta alle scelte politiche e rende più difficile il lavoro dell’opposizione. Ha scritto Keynes nella Teoria Generale che “le idee degli economisti e dei filosofi politici, così quelle giuste come quelle sbagliate, sono più potenti di quanto comunemente si ritenga. In realtà il mondo è governato da poche cose all’infuori di quelle. Gli uomini pratici, che si ritengono completamente liberi da ogni influenza intellettuale, sono generalmente schiavi di qualche economista defunto”.
Spesso tale influenza viene oscurata per ragioni contingenti di convenienza politica ed è compito del lavoro critico, intellettuale, togliere il velo, metterla in luce, fare i conti con essa, responsabilizzare nei suoi confronti.
«…non vogliamo dire che tutto quello che fa un governo sia sbagliato perché capitalista. Ma una sana diffidenza di classe è d’obbligo, perché la scienza non è neutra ma può essere usata per uno scopo o per un altro, così come la tecnologia. Occorre valutare caso per caso le misure prese da un dato governo, ponendosi sempre le domande: a chi giova? Perché?»
(Valerio Evangelisti, Roberto Sassi e Nico Maccentelli, 10 agosto 2021)
«Se la scienza ci portasse a una conoscenza assoluta della realtà, noi potremmo sostenere che essa è in un certo senso neutrale, perché le verità che ci procura – in quanto assolute – non dipenderebbero in alcun modo dal soggetto che conosce, né dalle condizioni sociali in cui egli opera, né dalle categorie logiche o dagli strumenti osservativi usati per conoscere. Se, viceversa, nelle scienze (e conseguente- mente nella concezione generale del mondo che su di esse si regola e si misura) non fosse presente un secondo fattore, e cioè la realtà che esse ci fanno via via conoscere sia pure in modo relativo e non assoluto, le scienze e la filosofia risulterebbero delle costruzioni puramente soggettive: costruzioni senza dubbio non neutrali, perché dipendenti per intero dall’uomo che compie le ricerche scientifiche e dalle condizioni sociali in cui egli opera, ma in ultima istanza non neutrali solo in quanto arbitrarie. Solo la conoscenza dei due anzidetti fattori – l’uno soggettivo, l’altro oggettivo – ci fa comprendere che la scienza non è né neutrale né arbitraria. E solo l’esistenza di un incontestabile rapporto dialettico tra tali due fattori ci fa comprendere che la scienza non è suddivisibile in due momenti separati (l’uno non arbitrario e l’altro non neutrale) ma è, nella sua stessa globalità, non arbitraria e non neutrale, cioè possiede questi due caratteri intrinseci e ineliminabili»1
Questa riflessione del grande filosofo marxista nostrano Ludovico Geymonat ci porta a riflettere a nostra volta su quanto avvenuto negli ultimi tre anni, in cui il mondo si è trovato davanti a un’emergenza (creata? costruita? Anche questo fa parte della riflessione e dal reperimento di dati) come quella del Covid.
In questo saggio scritto per Jacobin, il grande critico marxista Fredric Jameson indaga il concetto di utopia come rottura dello status quo e accenno concreto al cambiamento
I.
Innanzitutto permettetemi di spiegare il dibattito intorno all’utopia o, forse dovrei dire, intorno agli usi politici dell’utopia. Immagino che la maggior parte delle persone concordi sul fatto che gli utopisti della fine del diciottesimo e dell’inizio del diciannovesimo secolo fossero tutti essenzialmente progressisti, nel senso che le loro visioni o fantasie puntavano a migliorare la condizione della razza umana. Il momento che mi interessa è quello dell’analisi amplificata in cui queste utopie e i loro entusiasti sostenitori vengono imputati in quanto destinati per forza di cose ad avere esiti nefasti. In seguito, ciò arriverà a far sostenere che l’utopismo rivoluzionario porta alla violenza e alla dittatura e che tutte le utopie, in un modo o nell’altro, portano a Josif Stalin: meglio ancora, che Stalin era lui stesso un utopista, su larga scala.
Ora, a dire il vero, ciò è già implicito nella denuncia della Rivoluzione francese da parte di Edmund Burke, e nella sua idea – uno dei più geniali argomenti controrivoluzionari – che sia la hybris degli esseri umani che induca a sostituire la lenta crescita naturale della tradizione con i piani artificiali della ragione, e che questa rivoluzione rappresenti di per sé sempre un disastro. Tutto ciò rivive durante la Guerra fredda: il comunismo si identifica con l’utopia, entrambi con la rivoluzione, e tutti con il totalitarismo (A volte si insinua anche il nazismo: non è tanto la sua identificazione con l’utopia quanto l’equivalenza di Adolf Hitler e Stalin, e i dibattiti che ne derivano sul vincitore nella competizione relativa al numero di morti).
Dunque, a cominciare dal prossimo 26 gennaio, si dovrà assistere annualmente a una nuova, ennesima, parata di nazionalismo e di esaltazione delle italiche “gesta” che portarono la “civiltà” mussoliniana al di là dei confini patrii: dall'Africa ai Balcani, dalla Spagna all'Europa meridionale e orientale.
Il 26 gennaio è la data decisa dal Parlamento italiano per l'istituzione della "Giornata nazionale della memoria e del sacrificio degli Alpini". Ancora una Giornata della memoria, oltretutto a ridosso di quella del 27 gennaio per la liberazione di Auschwitz a opera dell'Esercito Rosso. Perché il 26 gennaio? Perché in quella data, nel 1943, gli alpini combatterono a Nikolaevka (il testo della legge scrive “Nikolajewka”, alla maniera tedesca: d'altra parte, il regime fascista aveva spedito gli alpini in quelle terre per rispondere proprio alla chiamata dell'alleato nazista) e così, ricordare oggi quella battaglia, serve sia a «conservare la memoria dell’eroismo dimostrato dal Corpo d’armata alpino», sia a «promuovere i valori della difesa della sovranita' e dell’interesse nazionale». Proprio così; nero su bianco: sovranità e interesse nazionale si promuovono rievocando l'invasione dell'Unione Sovietica, al servizio delle armate hitleriane, insieme a fascisti ungheresi, rumeni, finlandesi, ecc.
L'art. 2 della legge istitutiva della “solennità” dice che le autorità locali sono invitate a patrocinare eventi con «testimonianze sull’importanza della difesa della sovranità nazionale, delle identità culturali e storiche, della tradizione e dei valori etici di solidarieta' e di partecipazione civile». Ecco: le identità culturali e storiche che, per esempio, prima ancora degli alpini, hanno visto i bersaglieri, «espressione purissima delle virtù guerriere dell’Italica stirpe», prima dar man forte ai franco-turchi sul fiume ?ërnaja, inquadrati nell'armi piemontesi, e poi spingersi in Africa, «sotto il soffocante ed accecante alito del ghibli», quasi un secolo più tardi, a conquistare il “bel suol d'amore” libico.
Su Strategic Culture un ampio resoconto di numerosi documenti declassificati delle forze di pace canadesi di stanza in Bosnia dimostra come le guerre per procura statunitensi siano caratterizzate da un modello ricorrente di operazioni sotto falsa bandiera e messe in scena a scopo propagandistico, con l'obiettivo di sabotare ogni possibile negoziato di pace e spianare la strada ai falchi della guerra della NATO
Una serie di file di intelligence inviati dalle forze di pace canadesi espongono operazioni segrete della CIA, spedizioni illegali di armi, importazione di combattenti jihadisti, potenziali 'false flag' e messe in scena su atrocità di guerra.
Il mito consolidato della guerra in Bosnia è che i separatisti serbi, incoraggiati e diretti da Slobodan Milošević e dai suoi accoliti a Belgrado, cercarono di impadronirsi con la forza del territorio croato e bosniaco al fine della creazione di una "Grande Serbia" irredentista. Ad ogni passo, hanno epurato i musulmani di quelle terre in un genocidio deliberato e concertato, rifiutandosi a qualsiasi colloquio di pace costruttivo.
Questa narrazione è stata diffusa in modo aggressivo dai media mainstream dell'epoca e ulteriormente legittimata dal Tribunale penale internazionale per l'ex Jugoslavia (ICTY) creato dalle Nazioni Unite una volta terminato il conflitto. Da allora nella coscienza occidentale questa storia è diventata assiomatica e indiscutibile, rafforzando la sensazione che il negoziato equivalga invariabilmente ad arrendevolezza, una mentalità che ha consentito ai falchi della guerra della NATO di giustificare molteplici interventi militari negli anni successivi.
Tuttavia, una vasta raccolta di cablogrammi di intelligence inviati dalle truppe di peacekeeping canadesi in Bosnia al quartier generale della difesa nazionale di Ottawa, pubblicato per la prima volta da Canada Declassified all'inizio del 2022, smaschera questa narrazione come una cinica farsa.
La frequenza delle guerre nell’ultimo ventennio, dopo il crollo del blocco sovietico, costringe a riflettere sul “nuovo ordine mondiale” e in particolare sui fini perseguiti su scala mondiale dalla “grande potenza” rimasta. Quanto ai mezzi, la guerra resta evidentemente in primo piano, anzi tende a diventare permanente e senza regole.
Ben prima del 1989, negli anni Settanta, era iniziata la svolta restauratrice, con le ricette della Commissione Trilaterale per la democrazia (v. Crozier, Huntington e Watanuki 1977) e con quelle monetariste per l’economia, con il neo-liberismo più o meno illiberale e antidemocratico, con Reagan, Thatcher e, prima ancora, Pinochet. Il mito di un mondo unificato dallo “sviluppo” è stato sostituito dalla preoccupazione per la “sicurezza” rispetto alle resistenze della periferia globale, le cui riserve di risorse naturali e di lavoro a buon mercato devono garantire, al centro, i profitti dell’ipertrofica finanza.
Come sempre, le guerre si spiegano in riferimento al quadro storico, all’evolversi delle istituzioni economiche e politiche, nazionali e internazionali. D’altra parte, le nuove caratteristiche della guerra sono di per sé rilevanti, e illuminanti riguardo alla situazione complessiva.
Vi sono guerre locali e periferiche, che occorre comunque comprendere in rapporto con le dinamiche globali del mercato e del potere. Vi è poi quella che potremmo definire guerra civile globale, permanente e asimmetrica. I termini pubblicitari via via inventati per designare gli episodi di questa guerra ne rivelano la novità, mentre ne dissimulano il significato: “operazione di polizia internazionale” (Iraq 1991), “Restore Hope” (Somalia 1992-93), “guerra umanitaria” (Yugoslavia, 1999), “Enduring Freedom” (Afghanistan, 2001), fino alla “guerra preventiva” contro l’Iraq.
Il problema dei giochi non cooperativi studiato da John Nash (1928-2015) a partire dall’inizio degli anni ’50 era all’epoca tanto più scottante, quanto più fredda era la guerra che coinvolgeva i due blocchi del mondo. USA e URSS, infatti, non erano inclini a cooperare, sebbene vi fosse per entrambi la necessità di non distruggersi a vicenda assieme a tutto il resto, ovvero alla Terra. L’idea di Nash, espressa in termini matematici, circa un punto d’equilibrio concernente le strategie d’un gruppo di giocatori – razionali – non disposti a cooperare gli uni con gli altri, nacque in quel contesto storico-politico (non a caso, in termini invece giornalistici, quello di allora era un “equilibrio del terrore”).
Oggi gli equilibri internazionali sono in fase di ridefinizione, e contemporaneamente ci si sta rendendo conto che la crisi climatica e ambientale – la crisi della Terra – non è compatibile con un modello di sviluppo implacabilmente lineare, che sfrutti ad libitum le risorse del pianeta, nella convinzione che benessere e ricchezza (per i più fortunati) siano incrementabili in maniera esponenziale, al pari dei profitti d’una impresa in perenne fioritura. In questi anni di crisi neo-modernista della modernità (più che di gioiosa liberazione post-moderna dai difetti della modernità medesima), si fa strada pertanto anche il sospetto che il modello della razionalità moderna, individuato a suo tempo da Max Weber nella correlazione profitable, testabile rispetto agli scopi, dei mezzi e dei fini, sia obsoleto.
Siamo abituati a pensare alle leadership delle grandi potenze come a un’élite di persone consapevoli e lungimiranti, magari ‘buone’ o ‘cattive’ ma comunque capaci – appunto – di una visione di ampio respiro. Persino l’atteggiamento ‘complottista’ finisce col rafforzare questa convinzione. Ma è davvero così? La storia ci dice piuttosto che, quando una potenza è in declino, anche la sua leadership è sempre meno all’altezza del compito; e ciò è, al tempo stesso, concausa ed effetto del declino stesso. Ne abbiamo drammaticamente conferma sui campi di battaglia dell’Ucraina.
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È in effetti paradigmatico che il leader degli USA sia un vecchio con evidenti problemi cognitivi. E per quanto, com’è ovvio, sia circondato da consiglieri (più o meno ufficiali, più o meno occulti), ciò non toglie che sia altamente simbolico – e non meno concreto… – dello stato di decadenza in cui versa l’ex impero statunitense. Ed in questo caso la preposizione ex non è né casuale né involontaria; al contrario, indica convintamente uno stato di cose, che sarebbe bene cominciare ad accettare e considerare. Perché quell’impero ha fondato la sua tumultuosa ascesa (e la breve stagione del suo dominio incontrastato) sulle armi e sul dollaro, ma oggi le sue forze armate non sono più l’invincibile strumento di guerra che hanno creduto di essere, ed il dollaro non è molto lontano dal divenire l’ombra di se stesso.
In verità, il dominio americano è andato avanti, negli ultimi decenni, più per forza d’inerzia che non per una guida realmente imperiale. L’ascesa al potere dei neocon – passati disinvoltamente dai repubblicani ai democratici – non è stata soltanto la ragione di una svolta aggressiva e delirante, ma un fattore accelerante nel processo di decadimento della leadership statunitense.
Un testo di analisi a partire da “La guerra capitalista” di Emiliano Brancaccio, Raffaele Giammetti, Stefano Lucarelli e “Stati Uniti e Cina allo scontro globale” di Raffaele Sciortino
Siamo alla vigilia di un triste anniversario. Da circa un anno, la Russia ha invaso parte del territorio dell’Ucraina. Da allora i combattimenti, tra alti e bassi, non si sono mai fermati. Si contano oramai migliaia di morti, l’Ucraina è diventato uno stato totalmente militarizzato, mentre continua l’escalation di provocazioni sapientemente foraggiate dalle forniture militari elargite da USA e UE. Gli Stati Uniti sembrano essere, sempre di più, i burattinai di uno scontro in cui l’Unione Europea, con tutti i distinguo del caso (più volte espressi ma mai agiti in concreto), si è accodata. Sulle ragioni immediatamente politiche di quello che dovremmo chiamare il secondo tempo del conflitto russo-ucraino (la guerra è iniziata nel 2014 con il colpo di stato in Ucraina e con le manovre NATO di accerchiamento nei confronti della Russia, senza considerare gli effetti di tutte le sanzioni economiche di una guerra che da ibrida si è trasformata in “materiale” con decine di migliaia di vittime concentrate soprattutto nella regione del Donbass) ci siamo già espressi tempo fa e vi rimandiamo al nostro testo(1).
La questione però, oggi, assume dei connotati, che si rivelano sempre più inquietanti. Le analisi politiche, che secondo noi vanno ribadite, non risultano più del tutto esaurienti. Appare infatti evidente che, dietro al velo delle intenzioni più o meno espresse, si celano delle cause di fondo. Quelle cause che ci raccontano di un conflitto che non è limitato a un quadrante pur importante, ma che fa balenare l’idea di una generalizzazione, fino all’estremo rappresentato dal rischio di una guerra nucleare.
«Stiamo attraversando anni di oltraggio alla democrazia liberale, e questo enorme disprezzo non s’è certo esaurito. Ci è stato detto che tutto ciò che c’è di orrendo nel nostro tempo è colpa del liberalismo, o peggio, del neoliberalismo… È stato incolpato di tutta l’infelicità del mondo. I predicatori di una nuova felicità si chiamano, vantandosi, post-liberali. Talvolta uno si deve stropicciare gli occhi di fronte all’intensità dell’odio per la democrazia liberale: questi stolti capiscono ciò che stanno dicendo? (…) Questo è populismo». Dato che l’autore[1] di queste parole è un intellettuale, considerato tra i più influenti nell’area progressista statunitense, mi chiedo da quali libri e studi abbia tratto le sue conclusioni e i suoi giudizi che liquidano come stoltezza populista le critiche che da tempo investono la cultura liberal-democratica e neo-liberale: dalle colonne di battaglia giornalistiche? da comizi elettorali? Sia ben chiaro, anche le chiacchere da bar-sport politico sono legittime, così come lo sono le crociate contrapposte che imperversano sui social e che rudimentalizzano il confronto pubblico. Dato, però, che l’autore qui richiamato è un intellettuale, sarebbe sano, bello e doveroso aspettarsi meno sdegno offensivo verso chi vede le cose diversamente e più pazienza e raziocinio nel trattare il tema sul quale si intrattiene. Poco giova alla comprensione dei punti di vista altrui porsi come capo di una tifoseria che sbraita e inveisce contro la parte avversa. Di tanto in tanto, un bagno nel tacitiano sine ira ac studio è utile anche all’intellettuale militante.
Da Materialismo Storico, Rivista Di Filosofia, Storia E Scienze Umane, V. 13 N. 2 (2022)
1. La critica all'imperialismo (1963-1969)
Tra il 1963 e il 1969 Arrighi è in Africa, dove insegna prima all’Università di Harare, allora Rhodesia oggi Zimbabwe, e poi all’Università di Dar es Salaam, in Tanzania. L’Africa subsahariana è in bilico tra decolonizzazione e neocolonialismo. E lui lavora su due piani, scientifico e politico, come attesta il suo primo libro, Sviluppo economico e sovrastrutture in Africa, che, pubblicato nel 1969 per la serie viola di Einaudi, raccoglie tutti i suoi primi saggi di africanista.
Arrighi, nato a Milano nel 1937, aveva studiato economia alla Bocconi, formandosi in un ambiente improntato alle dottrine neoclassiche, sordo al keynesismo e tanto più al marxismo. Ma Veconomics gli parve da subito inadeguata ad affrontare il problema economico-politico che l’Africa gli spalancò sotto gli occhi: le disuguaglianze indotte dall’estensione del capitalismo o, per usare la formula coniata all’epoca da Andre Gunder Frank, la «sviluppo del sottosviluppo»2. In altre parole, il giovane Arrighi è impegnato nella critica al neoimperialismo, inteso, secondo l’indicazione di Paul Sweezy, non tanto come ampliamento del mercato aperto alle merci prodotte dagli Stati dominanti, bensì come rafforzamento degli investimenti diretti all’estero da parte delle corporations legate alla potenza statunitense.
Ma il periodo africano è determinante anche per la formazione politica e personale di Arrighi. Nato in una famiglia borghese antifascista, egli partecipa alle lotte di liberazione nazionale, lotte che nel 1966 gli costano il carcere e l’espulsione dalla Rhodesia. A quella fase risale inoltre l’amicizia con esponenti di rilievo della New Left, come Samir Amin, Immanuel Wallerstein, Walter Rodney e John Saul.
1 – Sono passati nove anni dalla morte di Augusto Graziani[1]. Siamo in piena discussione pubblica e politica sull’autonomia differenziata e può essere interessante, per ricordarlo, utilizzare le sue categorie di analisi per comprendere gli effetti di questo progetto e il Mezzogiorno nel 2023. In questa nota, mi prefiggo di (i) avanzare una mia interpretazione del pensiero di Graziani sullo sviluppo dell’economia del Mezzogiorno, a partire da alcune sue considerazioni in materia; (ii) proporre una razionalizzazione – nella parte conclusiva – delle teorie di Graziani sull’argomento.
Si parta innanzitutto da una duplice constatazione.
Nella nostra «cartografia dei decenni smarriti», è di fondamentale importanza mettere a fuoco l’affermazione di quella fase definita «neoliberista» a partire dal luogo centrale in cui essa si è affermata, ossia gli Stati Uniti. «Avevamo in mente di cambiare un paese, abbiamo invece cambiato il mondo» diceva Reagan all’inizio del 1989. Per ripercorrere il «presente come storia», pubblichiamo l’estratto di un libro importante di Bruno Cartosio, L’autunno degli Stati Uniti. Neoliberismo e declino sociale da Reagan a Clinton (Shake, 1998). Il titolo fa riferimento all’ipotesi di Giovanni Arrighi e più in generale degli studiosi della World-systems theory, secondo cui gli Stati Uniti – a dispetto di quello che poteva sembrare – avevano imboccato la strada di un lungo e tutt’altro che lineare declino. Ad alcuni decenni di distanza, dentro una crisi globale che pare infinita, quella ipotesi e gli interrogativi che essa contiene, qui impostati e sviluppati da Cartosio, mostrano la loro lungimirante pregnanza.
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L’abbiamo visto crescere nelle cose, quel fenomeno che sarebbe stato chiamato neoliberismo reaganiano, prima ancora che l’uomo di Hollywood venisse chiamato a interpretare il ruolo di presidente degli Stati Uniti. Le teorie liberiste, da Friedrich August von Hayek a Milton Friedman, erano tutte disponibili da tempo. In periferia, il generale Pinochet a partire dal 1973 e Margaret Thatcher nel 1979 avevano già aperto la strada mettendole brutalmente in pratica. Al centro dell’impero, invece, il neoliberismo è cresciuto e si è diffuso prima nelle cose, reaganiano ante litteram nella seconda metà degli anni Settanta con il democratico Jimmy Carter alla presidenza degli Stati Uniti, per poi arrivare a imporsi come dottrina e visione generale del mondo a partire dalle presidenze Reagan negli anni Ottanta.
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