Il volume di Brancaccio, Giammetti e Lucarelli La Guerra Capitalista1 ha il notevole merito di affrontare un argomento molto complesso e poco trattato dalla letteratura economica, quale la centralizzazione del capitale.
Nella prima parte, e nell’appendice 1, gli autori introducono efficacemente il proprio oggetto di studio, fornendo al lettore una utile guida alla letteratura. In particolare, sottolineano opportunamente la differenza tra concentrazione della ricchezza e centralizzazione del capitale.
Con il primo termine, si indica l’accumulazione della ricchezza nelle mani di un numero sempre più ristretto di proprietari. Con il secondo termine, si indica invece la concentrazione, in poche mani, del controllo sull’impiego della ricchezza accumulato da tutte le classi sociali. Mentre l’evidenza empirica sul primo fenomeno è abbondante, lo stesso non può dirsi per il secondo2.
Nella seconda parte del volume gli autori presentano i propri originali risultati, che si riferiscono ad una particolare definizione di centralizzazione in termini di net control. Quest’ultima grandezza è definita come “il valore intrinseco del capitale controllato seguendo tutti i percorsi diretti e indiretti delle partecipazioni azionarie” (p. 107).
Mettendo tra parentesi i problemi metodologici3, concentriamoci sul messaggio principale. I risultati presentati dagli autori evidenziano che la proprietà delle imprese quotate a livello internazionale è concentrata nelle mani di un nucleo ristrettissimo di azionisti. In particolare, nel 2016 l’80% del valore del mercato azionario globale era controllato dall’1% degli azionisti (p. 115), e questa quota si era in precedenza ridotta del 25% a partire dal 2001, con un’accelerazione a partire dal 2006 (p. 116).
Data center, cavi, impatto ecologico e guerre geopolitiche: come e perché scoperchiare la realtà materiale di internet secondo Guillaume Pitron
L’ elefante nella stanza è un enorme palazzo senza finestre. Un centro di elaborazione dati come quello dell’azienda Equinix ad Amsterdam, un parallelepipedo striato, o quello di Facebook a Luleå, nel nord della Svezia, allungato tra gli alberi al limite del circolo polare artico. Sono immensi data center che trasmettono e archiviano i dati che ci scambiano online. Moltiplichiamo le stanze, i server, i cavi, le ventole di raffreddamento, per immaginare un unico data center che contenga tutti i bit che l’umanità produce. Una nuova versione della biblioteca di Babele immaginata da Borges: 5 exabyte per giorno, 47 zettabyte nell’anno 2020 (per intenderci, uno zettabyte sono mille exabyte, un exabyte è un miliardo di gigabyte). Una breve e-mail pesa solo un kilobyte e se un’email fosse mezzo bicchiere d’acqua allora quei 47 zettabyte di flusso annuo di dati sarebbero come il mar Mediterrano e il mar Nero assieme: una marea. Ma la produzione dei dati aumenta e si stima che nel 2030 arriveremo a 612 zettabyte all’anno.
Attraverso questa marea si fa strada un solitario like, che qualcuno mette a un post di qualcun altro, e che da un telefono raggiunge l’antenna dell’operatore, quindi percorre i cavi che portano ai locali tecnici dell’operatore, da lì sempre via cavo attraversa suolo e mare per arrivare a quei grandi data center, allora rifà la strada all’inverso, verso il telefono di chi sta cercando di vedere quanti nuovi like ci siano sul suo post. Questi dati ridiscutono il nostro rapporto con lo spazio, scrivono geografie: si muovono lungo precise rotte, attraversano effettivamente cavi e abitano fisicamente server.
Questo testo e questa presentazione sono basati, in gran parte, sul testo di Guglielmo Carchedi “Lavoro Mentale e classe operaia”. Le restanti parti sono a cura del Collettivo Genova City Strike
La rete internet, sviluppata per motivi inizialmente militari durante la guerra fredda, ha assunto un’importanza centrale nella vita quotidiana degli uomini, in ogni parte del mondo. Con internet si lavora, si compra e si vende, si comunica, si gioca, si consuma tempo libero. Tutto questo rientra nella teoria del valore di Marx e in quali modi? E’ quello a cui cercheremo di rispondere. Per farlo occorre dapprima riprendere le categorie (aggiornandole) di lavoro produttivo e improduttivo e di comprendere il nesso tra fase della produzione di merci e fase di consumo delle stesse.
Sezione 1) Produzione e consumo
a) Il lavoro produttivo
In generale possiamo definire produttivo qualsiasi lavoro che sia inserito all’interno dei cicli di riproduzione del valore. Cioè un lavoro che determina variazioni nel valore d’uso di una merce e che abbia un valore di scambio. A questo punto si aprono una serie di subordinate legate a lavori che determinano variazioni nei valori d’uso ma non immediate nei valori di scambio (ad esempio i lavoratori nel campo dell’istruzione o della sanità). Oppure a lavori che determinano variazione nei valori di scambio ma in cui la merce non ha nessun cambio di valore d’uso (ad esempio il commercio o la logistica). La categoria del lavoro produttivo rimane quindi valida ma va comunque specificata in un contesto che varia nel tempo.
Il testo che anticipo in questo post è la Prefazione del libro "Guerra e rivoluzione" il cui primo volume, "Le macerie dell'impero" sarà in libreria fra pochi giorni per i tipi di Meltemi, mentre il secondo, "Elogio dei socialismi imperfetti" seguirà fra un paio di mesi.
L'autore del lavoro che vi apprestate a leggere verrà verosimilmente accusato di eccessiva ambizione: sia per le dimensioni dell'opera (due volumi per un totale di diverse centinaia di pagine), sia per la vastità dei temi trattati (presa di distanza da certi dogmi cari alla tradizione marxista; impatto della controrivoluzione neoliberale sulla mutazione dei sistemi politici e della composizione di classe, nonché sulla morte delle sinistre in Occidente; rinascita del progetto socialista in Oriente e nel Sud del mondo; abbozzo di linee strategiche per la ricostruzione di un movimento comunista occidentale). Forse l'accusa non è priva di fondamento, tuttavia ritengo che la mia vera colpa consista nel non essere stato abbastanza ambizioso, considerato che la situazione del movimento anticapitalista in Occidente è oggi talmente tragica da poter essere affrontata solo coltivando un'ambizione smisurata. A discolpa del fatto di essere rimasto al di sotto di quanto richiederebbe la situazione, posso addurre due giustificazioni: in primo luogo, i miei limiti soggettivi mi hanno impedito di approfondire ulteriormente l'analisi; inoltre, quand'anche le mie capacità fossero state maggiori, le sfide con cui ardisco qui misurarmi richiederebbero l'apporto di una mente collettiva che oggi, dopo decenni di sistematico smantellamento di partiti, istituzioni, centri di ricerca (nonché di frammentazione organizzativa di quanto ne restava), non esiste più.
Perché mi sono imbarcato in cotanta impresa? Perché sono convinto che sia urgente trovare il coraggio (non dubito che molti lo definiranno piuttosto arroganza) di porvi mano.
«Perché ci indigniamo tanto contro la guerra, Lei e io e tanti altri, perché non la prendiamo come una delle molte e penose calamità della vita? La guerra sembra conforme alla natura, pienamente giustificata biologicamente, in pratica assai poco evitabile […] finché esistono stati e nazioni pronti ad annientare senza pietà altri stati e altre nazioni, questi sono necessitati a prepararsi alla guerra...».
Questi alcuni dei passi più interessanti della risposta data da Freud ad una lettera inviatagli da Einstein nel 1932, quando i postumi della Prima guerra mondiale non erano affatto estinti e i primi vaghi presagi di quella che sarà la Seconda guerra mondiale stavano già baluginando.
Per iniziativa del circolo Maggio Filosofico da più di vent'anni attivo nei dintorni di Bologna, questo giustamente famosissimo scambio epistolare è stato assunto come punto di avvio per una o più conferenze sul fenomeno bellico dal punto di vista di filosofia, psicologie e scienze umane, alla luce di quanto sta accadendo con la guerra in Ucraina. Dandone notizia mi spendo anche nel perorare la causa di simili discussioni di livello problematico più intenso rispetto a quello della cronaca e dei suoi commenti più o meno informati, convinto che solo così si possa sollecitare l'intelligenza dell'enorme e irreversibile portata epocale di quanto sta avvenendo in questa guerra e col diretto coinvolgimento in essa di Italia ed Europa.
Segue dunque qualche congettura a questo proposito.
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I
Tornando ai passi appena riportati della risposta di Freud, dove sta dunque il loro particolare interesse? Sta nel rimettere in discussione l'intuitivo approccio pacifista che Einstein supponeva e che lo stesso Freud finisce per far proprio, ma previa una elaborazione non scontata dei suoi presupposti.
Zanini A. (2022), Ordoliberalismo. Costituzione e critica dei concetti (1933-1973), Bologna: Il Mulino, pp. 567, ISBN: 9788815294746.
Nonostante l’ordoliberalismo sia un sistema di pensiero che ha origine in una precisa area culturale - la scuola di Friburgo -, soprattutto nel nostro paese la conoscenza dei concetti che hanno caratterizzato la storia di questa dottrina non appare scevra da imprecisioni e incomprensioni. Non lo era certamente durante la costituzione della Unione Europea quando il modello tedesco di economia sociale di mercato veniva presentato all’opinione pubblica come una alternativa all’economia di mercato rilanciata negli Stati Uniti e in Gran Bretagna dalla rivoluzione conservatrice di Ronald Reagan e di Margareth Tatcher.1 In altri termini, la Soziale Marktwirtschaft, per usare l’espressione originaria coniata da Alfred Muller-Armack, veniva presentata come qualcosa di distante dal neoliberismo. Questa parola-guida della scuola di Friburgo si ritrova nell’articolo 3 del Trattato di Maastricht (1992), che, al comma 3, stabilisce che l’Unione Europea “si adopera per lo sviluppo sostenibile dell’Europa basato su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, e [proprio] su un’economia sociale di mercato fortemente competitiva”, modello in cui l’aggettivo “sociale”, secondo von Hayek, è un pleonasmo grazie al quale “alcuni miei amici tedeschi (e ultimamente anche inglesi) sembrano essere riusciti a rendere appetibile a circoli più ampi il tipo di ordine sociale che io difendo” (cfr. von Hayek, cit. in Cavallaro, 2020, pp. 33-34). Un ordine sociale, quello hayekiano, che indica un sistema ordinato di regole incorporato nel processo di evoluzione del sistema di mercato, cioè nella forma di norme di comportamento interiorizzate, e non nella forma della programmazione statuale.2
È difficile negare che Karl Marx sia stato il principale critico rivoluzionario dell'umanesimo illuminista del XIX secolo. Nessun altro pensatore ha sviluppato una critica dell'Uomo astratto ed egoista dell'Illuminismo in così tanti ambiti – religione, filosofia, Stato, diritto, economia politica, storia, antropologia, natura/ecologia – né ha rivelato così a fondo la sua brutale ipocrisia.
Ma l'opposizione di Marx all'umanesimo illuminista può anche essere vista come un superamento di ogni altra analisi critica fino ai giorni nostri nel suo carattere distintivo di critica dialettica e storica. La sua risposta all'umanesimo borghese non consisteva in una semplice negazione unilaterale, come nella nozione althusseriana di una rottura epistemologica tra il primo Marx e il Marx maturo. Il suo approccio è stato invece più radicale e ha trasformato la sostanza del suo originario approccio umanista e naturalista in un materialismo evoluto.[1] Il risultato fu un simultaneo approfondimento della sua ontologia materialista, che ora assumeva un'enfasi definita e corporea, incentrata sulle condizioni della sussistenza dell’uomo, e la sua estensione all'ambito storico sotto forma di materialismo pratico.
L'analisi di Marx è stata quindi unica nell'offrire una sintesi superiore che prevedesse la riconciliazione tra umanesimo e naturalismo, umanità e natura. Piuttosto che fermarsi a una mera antitesi (come nella maggior parte delle concezioni “post” contemporanee), l'oggetto era il superamento delle condizioni materiali del modo di produzione capitalistico che avevano fatto dell'umanesimo illuminista la forma paradigmatica del pensiero borghese.
Silvio Maresca, Socialtotalitarismo (Armando, Roma 2021) e La doppiezza dell’Occidente (Armando, Roma 2022)
Socialtotalitarismo e La doppiezza dell’Occidente sono due testi di Silvio Maresca che formano un’endiadi, un percorso cioè che va letto unitariamente, per comprenderne la significativa attualità: non solo quanto a discorso sul presente ma anche, più in generale, sulla natura e sulla destinazione ontologico-storica di ciò che è “modernità”.
In Socialtotalitarismo la riflessione è svolta sulla rivoluzione digitale, sul suo carattere epocale, sui modi profondissimi, che ne vengono conseguendo, di trasformazione dell’esperire individuale e collettivo, di nuovi generi di socialità e di identità personale, di nuove configurazioni nelle istituzioni della democrazia politica.
Riguardo alla scoperta e alla diffusione del digitale Silvio Maresca non è certamente affetto da tecnofobia e da rifiuto verso i nuovi dispositivi inventati dall’informatica e dalla scienza dell’informazione. Egli infatti mostra di essere ben consapevole che il presente vada analizzato senza atteggiamenti tradizionalisti e conservatori e che le nuove tecnologie rappresentano una risorsa, fatta di una strumentazione sorprendente e innovativa, che potrebbe sollecitare ed aiutare l’umanità intera a entrare in una più estesa unificazione ed autocoscienza di sé. Proprio secondo quell’istanza definita da J. Habermas “costellazione postnazionale” che vede kantianamente un processo di nuova teoria e pratica della democrazia attraverso il progressivo allargamento, quanto più esteso possibile, di una “sfera pubblica illuminata”, capace cioè di reciprocità di discorso e di confronto tra le ragioni.
Ora che anche la BBC pubblica un tweet come quello qui sotto, possiamo presumere che l’aumento della mortalità registrato in questi ultimi due anni nel mondo, e in particolare i paesi del mondo occidentale, sia un dato condiviso anche da chi prima lo negava.
L’eccesso è particolarmente anomalo sia per la sua ampiezza sia perché arriva quando, con l’affievolirsi della pandemia, era atteso un rientro della mortalità in direzione della media pre-pandemica.
A questo fenomeno è stato spesso associato quello delle morti improvvise, le cui notizie riempiono con sempre maggiore frequenza le cronache locali. Sono soprattutto giovani sani, che muoiono improvvisamente nel sonno, sui banchi di scuola, in monopattino, al bar, al museo, mentre fanno sport, ecc.
Qualcuno ha fatto rilevare che i malori improvvisi ci sono sempre stati e quindi non ci troviamo davanti a nessuna novità.
E’ proprio così?
Sul sito Unherd una interessante analisi di Thomas Fazi sulla filosofia di base di questa organizzazione, che può essere considerata un emblema quasi caricaturale delle istituzioni globaliste: l'obiettivo è scindere la politica dal processo democratico e il mezzo per garantirne il successo è l'infiltrazione nelle istituzioni statali e internazionali. Aldilà di ogni complottismo, perché tutto è dichiarato in maniera aperta
Migliaia di membri dell’élite mondiale si sono riunite in questi giorni a Davos per il loro più importante raduno annuale: l’incontro del World Economic Forum (WEF). Accanto ai capi di Stato di tutto il mondo, sono discesi nella capitale svizzera, tra gli altri, gli amministratori delegati di Amazon, BlackRock, JPMorgan Chase, Pfizer e Moderna, come anche la presidente della Commissione europea, la direttrice operative del FMI, il segretario generale della Nato, i vertici dell’FBI e del MI6, l’editore del New York Times e, naturalmente, il famigerato “Cicerone” dell’evento, il fondatore e presidente del WEF, Klaus Schwab. Fino a 5.000 soldati sono stati mobilitati a protezione dell’evento.
Data la natura elitaria quasi caricaturale di questo “festival”, è naturale che l’organizzazione sia diventata oggetto di ogni sorta di teoria del complotto riguardo al suo presunto intento malevolo e alla sua “agenda segreta” legata al cosiddetto “Grande Reset”. In verità, non c’è nulla di cospiratorio nel WEF, nella misura in cui le cospirazioni implicano segretezza. Al contrario, il WEF – a differenza, ad esempio, del Bilderberg Group – è molto aperto sulla sua agenda: si possono persino seguire le sessioni in streaming online.
Fondato nel 1971 dallo stesso Schwab, il WEF è “impegnato a migliorare lo stato del mondo attraverso la cooperazione pubblico-privata”, nota anche come “governance multistakeholder”. L’idea è che il processo decisionale globale non dovrebbe essere lasciato ai governi e agli Stati-nazione — come nel quadro multilateralista del dopoguerra sancito dalle Nazioni Unite — ma dovrebbe coinvolgere un’intera gamma di “stakeholder”, o parti interessate, non governative: organismi della società civile, esperti accademici, personaggi dei media e, soprattutto, multinazionali.
Quella mattina di Giugno del ‘76 Marcella aprì discretamente la porticina del mio scompartimento. Un dolce quasi impercettibile “permesso” confermò che quella donna bellissima avrebbe viaggiato con me. Subito per istinto nascosi tutti i ritagli di giornale nella cartellina non badando al loro ordine. Mentre dicevo “lasci non si preoccupi” avevo già preso la sua mastodontica valigia e con uno sforzo sovraumano l’avevo issata sul porta bagagli. Parlammo. Era di Pisa, stava tornando li per andare a votare. Io invece stavo andando a Genova ad unirmi al comando brigatista che di lì a pochi giorni avrebbe freddato il giudice Coco. Ovviamente non glielo dissi.
In quel periodo avevo paura di chiunque incontrassi, cercavo di carpire in ogni volto segnali di pericolo per la mia incolumità da buon clandestino, ma quella donna non mi fece paura, forse me ne stavo già innamorando. Finalmente mi trovavo a parlare con agio con un membro della società civile, anzi una vera e propria borghese in carne e ossa, e che borghese! Che lo fosse lo avevo capito dagli occhiali e dalla camicia di raso con fantasia di rombi, nonostante i jeans sportivi a vita altissima. “Noi abbiamo sempre votato lo scudo crociato e ci siamo sempre trovati bene” Stranamente non provai ribrezzo a queste parole, ma un’incredibile curiosità, la stessa curiosità che mi faceva volerle strappare di dosso quella camicia. Anni dopo, sulle mura del carcere di Poggio Reale vedevo il mio fantasma, quello che sarei stato. Come sarebbe stata la mia vita se invece di combattente comunista fossi diventato impiegato d’azienda borghese, marito di Marcella?
Il governo Meloni cade come il cacio sui maccheroni per una sinistra alla disperata ricerca di un nemico di comodo su cui dirottare l'attenzione delle masse, nella speranza che queste non le chiamino a rispondere delle loro responsabilità. Così si evoca l'immagine anacronistica di un fascismo da operetta, con tanto di orbace, saluti romani e inni al nuovo duce in gonnella, associandola a una forza politica che incarna piuttosto l'ala più duramente e coerentemente neoliberale della borghesia, mentre opera in piena coerenza e continuità con tutti (senza distinzioni ideologiche) i governi che l'hanno preceduta negli ultimi decenni: attacco ai salari e all'occupazione, smantellamento dello stato sociale, privatizzazioni, svendita degli interessi nazionali al "partito dello straniero" come lo chiamava Gramsci, infeudamento agli interessi strategici della NATO e d'una UE totalmente allineata (contro i suoi stessi interessi) ai comandi di Washington.
Mentre milioni di francesi sfilano per le strade di Parigi contro la riforma delle pensioni voluta da Macron, e mentre i lavoratori inglesi tornano a scioperare contro la politica economica imposta dal governo conservatore, le preoccupazioni della sinistra de noantri sono tutte per l'arretramento dei diritti civili e individuali, che considerano la più grave, se non l'unica, minaccia generata dalla svolta a destra sancita dalle ultime elezioni. Svolta dovuta al fatto che milioni di proletari, avendo ormai perso fiducia nelle sinistre, hanno preso sul serio le esternazioni "populiste" e "sovraniste" della destra, o hanno comunque sperato che sarebbero state seguite dai fatti, (considerati gli ultimi sondaggi, sembra non abbiano ancora perso le illusioni in merito).
Brzezinski e Kissinger sull’Ucraina. A partire da La grande scacchiera, due politiche estere a confronto nella gestione degli interessi vitali delle potenze: Stati Uniti, Russia e Cina. Da Paginauno n. 80, dicembre 2022 – gennaio 2023
“Ma, Zbig, quante volte puoi mettere uno stecco nell’occhio alla Russia, senza che reagisca? Noi abbiamo preso l’abitudine, negli anni della debolezza russa sotto Eltsin, di mettergli le dita negli occhi un sacco di volte, facendola franca. Non sta finendo quel periodo? Non dobbiamo prenderli sul serio quando dicono «Questo è fondamentalmente contrario ai nostri interessi e resisteremo»?”
Così David Ignatius del Washington Post, terza voce in America and the World del 2008, libro intervista con Zbigniew Brzezinski e Brent Sco- wcroft, il primo consigliere per la sicurezza nazionale per Jimmy Carter, il secondo per George Bush e Gerald Ford, nonché consigliere militare di Richard Nixon. Da quella dialettica tra due decani della politica estera dell’imperialismo americano emergevano con nettezza due linee nei confronti dell’imperialismo russo e delle sue ambizioni a riprendere il controllo, nel “vicino estero”, dello storico dominio dell’impero zarista.
Brzezinski risolutamente a favore dell’inclusione dell’Ucraina nella NATO.
Scowcroft contrario, sulla falsariga delle obiezioni che erano anche di Henry Kissinger: i legami storici e identitari della Rus’ di Kiev col potere moscovita; la divisione dell’Ucraina tra un Ovest filo-occidentale e un Est russificato.
L’imperialismo europeo vi compariva solo sullo sfondo: Scowcroft a ricordare la contrarietà europea a un’azione così intrusiva nei confronti della Russia e a lamentare la confusa sovrapposizione tra l’ambito della Ue e quello della NATO; Brzezinski a impugnare il fatto che sulla questione ucraina gli europei erano “divisi”.
I.
Un amico, conversando davanti a un caffè, ci ha posto la domanda da un miliardo di dollari: chi comanda nel mondo? Ha aggiunto di non volere una risposta complessa e che gli interessa sapere nomi e cognomi. Vasto, arduo programma, rispondere a un quesito che ci tiene chini sui libri da anni; ancora più difficile indicare persone fisiche in un tempo in cui il potere – più oligarchico e chiuso che mai – ha una dimensione reticolare, in cui ogni snodo, ciascun anello è strettamente legato in una ragnatela che, tuttavia, ha un centro che può essere identificato.
Al nostro amico abbiamo ripetuto un concetto espresso da Giano Accame, grande giornalista e finissimo intellettuale: comandano coloro dei quali non si può dire male. Sembra una battuta – o un’elusione della risposta – e invece è il primo gradino per arrivare alla verità. In ogni ambiente – tutti ne abbiamo esperienza – c’è qualcuno (persona, gruppo, consorteria, grumo di interessi) di cui non si può dir male, pena le rappresaglie, la discriminazione, la punizione. Così funziona il mondo, in basso e in alto, alla faccia delle anime belle. Possiamo allora formulare un primo livello di risposta: comanda chi può far diventare legge o senso comune la propria volontà – applicando sanzioni a chi trasgredisce o dissente – ed è in grado di screditare prima, vietare poi, rendere illegale o pericoloso formulare critiche o sollevare obiezioni nei suoi confronti.
Non è – ancora – una risposta. Un altro livello di riflessione è in negativo: chi non comanda, ossia chi, in fatto e in diritto, non è in grado di esercitare un potere?
1. I contributi raccolti nel volume che qui si presenta1, ricostruiscono dettagliatamente un incontro “epocale” nella storia della filosofia (e non solo della filosofia!) contemporanea: la recezione e l’influenza della filosofia di Hegel nel e sul pensiero filosofico e politico russo. Questo incontro non inizia però - né, tanto meno, termina - con la Rivoluzione d’Ottobre. Infatti, prima ancora che l’opera di Hegel giungesse in Russia, fu l’intelligencija russa a recarsi a Berlino per conoscere e studiare l’opera di Hegel2. Anzi, come è stato giustamente osservato3, lo stesso incontro tra il pensiero di Hegel e gli intellettuali russi è di tipo dialettico: è avvenuto molto presto ma, allo stesso tempo, anche molto tardi. Molto presto cronologicamente, in quanto i primi contatti si sono avuti già all’indomani della morte di Hegel (1831), negli anni Trenta e Quaranta dell’Ottocento ( Vormarz); ma a un livello di elaborazione molto tardo, in quanto l’immagine di Hegel che gli intellettuali russi assimilarono e che poi si adoperarono a diffondere e a propagandare nel loro paese era profondamente formata e mediata dall’interpretazione dei Giovani hegeliani.
Vissarion Grigor’evic Belinskij (1811-1848), Michail Aleksandrovic Bakunin (1814-1876) e Aleksandr Ivanovic Herzen (1812-1870) distinguevano nettamente il metodo rivoluzionario dal sistema conservatore, consideravano quindi la dialettica hegeliana come un’arma rivoluzionaria, offrivano un’interpretazione in chiave dinamica dei rapporti tra reale e razionale e, nel complesso, aderivano pienamente a una lettura in chiave progressista e rivoluzionaria della filosofia hegeliana4.
Dopo 11 mesi di guerra non c’è bisogno della tv per sapere cosa chiede la junta di Kiev alla Nato: “armi!”. E la Nato riunita a Rammstein ha convenuto ancora una volta di mandargliene in grande quantità, “migliorando” però il livello tecnologico, ossia, la capacità offensiva. Ergo, ammettendo di voler essere parte attiva della guerra anche più esplicitamente di quanto non avesse detto finora.
Ci stiamo abituando ad essere in guerra secondo il principio della “rana bollita”… Ossia abituandoci a considerare “normale” ogni piccolo passo in avanti dell’escalation, fin quando la temperatura dell’acqua – pardon, del clima bellicista – non sarà mortale per tutti noi.
In questo modo non ci rimane nulla in testa, men che mai la capacità di valutare – e dunque capire (di “sapere” è escluso per principio, in guerra) – se e quanto certi annunci sono aderenti alla realtà. Ossia “realistici” in senso stretto.
Eppure quando si parla di armi “pronta cassa” qualche dubbio sarebbe bene tenerlo vivo. Non stiamo infatti parlando di finanza, per cui “basta un click” e voilà, il capitale è spostato da un’altra parte…
Per esempio. Fabbricare certi armamenti o “sistemi d’arma” come carri armati, batterie antimissile o direttamente lanciamissili terra-aria e terra-terra richiede qualche tempo, se non ce ne sono in quantità abbondante nei magazzini.
Usare certi sistemi d’arma non è esattamente come usare fucili o bombe a mano, per cui comunque serve un minimo di addestramento (se vuoi evitare di fare strage nelle tue stesse truppe).
Quando si parla di propaganda e di manipolabilità della popolazione è un luogo comune, spesso ripreso, quello per cui il livello culturale sarebbe una variabile decisiva, in quanto capace di ostacolare l’influenzabilità dei soggetti. Questo assunto, oltre al pregio di essere gradevolmente consolatorio per chi di cultura si occupa, sembra seguire un semplice sillogismo. Dopo tutto uno non è facilmente ingannabile sulle cose che conosce, chi ha un’istruzione superiore per definizione dovrebbe conoscere più cose, ergo chi ha un’istruzione superiore dovrebbe essere meno ingannabile. Questo ragionamento è tanto apparentemente intuitivo quanto sciaguratamente sbagliato.
È possibile distinguere due forme distinte di manipolabilità soggettiva, che possiamo nominare schematicamente come manipolabilità (da istruzione) primaria e manipolabilità (da istruzione) terziaria.
1) Sulla manipolabilità primaria
Per istruzione primaria si intende la scuola dell’obbligo, e oggi possiamo considerare questo livello di istruzione come livello base, assumendo che tutti i cittadini ne abbiano goduto. Soggetti che abbiano limitato la propria istruzione a questo livello tendono ad entrare per primi nel mondo del lavoro con mansioni a basso tasso di specializzazione. Chi abbia questo retroterra culturale (naturalmente al netto della coltivazione autonoma di propri interessi) è sensibile ad alcune specifiche forme di manipolazione: quelle che fanno uso di una retorica della semplificazione e di appelli ad un presunto buon senso comune.
Bisogna proprio essere dei mascalzoni (vedi la Meloni, Giorgetti e compagnia), per giustificare l’accettazione del MES (Meccanismo Europeo di Stabilità) come lo scambio con la promessa modifica del PNRR. Rinfreschiamo la memoria ai nostri lettori pubblicando il DOSSIER su cosa è davvero il Mes e quanto ci spiegava Leonardo Mazzei sulla reale natura del cosiddetto Pnrr.
* * * *
Il contesto da cui nacque la bestia del MES
Dopo decenni di finanziarizzazione dissennata, nel 2007-2008, scoppiò negli Stati Uniti la bolla dei mutui subprime, in sostanza la più grave crisi finanziaria dopo quella del 1929. La conseguenza fu il cosiddetto “credit crunch”, il sostanziale blocco dell’offerta di credito da parte delle banche. L’onda d’urto globale travolse anzitutto l’Occidente, ma colpì in modo letale l’eurozona. I governi di Stati Uniti, Giappone e Gran Bretagna, dopo qualche esitazione, decisero di obbligare le loro banche centrali ad esercitare la funzione di prestatore di ultima istanza (lender of last resort), ovvero stampare la moneta necessaria per prestarla a banche e istituti simili, in grave crisi di liquidità. Il paracadute fornito dalla banche centrali evitò in effetti la catastrofe e l’economia poté riprendersi presto.
Per farci un’idea di quanto massiccia fu la manovra della Federal Reserve, basti ricordare che questa acquistò titoli sul mercato per circa 4500 miliardi. Risultato: vero che il deficit salì al 4,2% e il debito pubblico passò al 102% del Pil, ma la disoccupazione scese sotto il 5%, il Pil tornò a crescere del 2% e Wall street tornò presto ai livelli pre-crisi. Una linea “interventista” che la FED non ha mai abbandonato, se è vero, com’è vero, che nel settembre scorso è intervenuta con una gigantesca operazione di 260 miliardi in soccorso di diverse banche a rischio di collasso.
In questo secondo appuntamento del Diario della crisi – rubrica nata dalla collaborazione tra Effimera, Machina e il periodico El Salto – Gianni Giovannelli analizza la crisi del diritto. L’autore sostiene che non si tratta di una generica stretta repressiva limitata al diritto penale, bensì di una trasformazione più complessiva delle norme ordinamentali, civili, amministrative, lavoristiche, marittime, militari, interstatuali. Soprattutto in una situazione di approfondimento della crisi, viene mostrato come le differenti forme di dissenso diventino immediatamente criminali. Perciò analizzare le trasformazioni del diritto è un importante angolo prospettico attraverso cui ripensare le armi della critica.
Fu un linguaggio del dispotismo
e della tirannia il dire che la sola
regola della legislazione è la volontà
del legislatore.
Gaetano Filangieri
(La scienza della legislazione, I, III
Napoli, Raimondi, 1780)
Costituisce un dato di fatto, oggettivo e incontestabile, che siano in corso mutamenti profondi nella legislazione italiana e che questi mutamenti trovino un puntuale riscontro anche negli altri territori del pianeta, perfino a prescindere dalle diverse strutture politico-istituzionali. Non si tratta di una generica stretta repressiva limitata al diritto penale, come un esame soltanto superficiale potrebbe indurre a credere; la trasformazione – di questo si tratta come ogni giorno appare sempre più evidente – si estende all’insieme complessivo delle norme ordinamentali, civili, amministrative, lavoristiche, marittime, militari, interstatuali.
Dante di destra? Lo ha dichiarato, col compiacimento di chi ritiene di lanciare una provocazione dirompente («so di fare un’affermazione molto forte»), il ministro della cultura Gennaro Sangiuliano in un’intervista al direttore di «Libero» Pietro Senaldi durante un evento elettorale di Fratelli d'Italia a Milano. Il ministro ha individuato in Dante Alighieri «il fondatore del pensiero di destra nel nostro Paese», perché ritiene che «quella visione dell’umano, della persona, delle relazioni interpersonali che troviamo in Dante Alighieri, ma anche la sua costruzione politica che è in saggi diversi dalla Divina Commedia sia profondamente di destra».
Sangiuliano sperava di suscitare reazioni indignate, com’è effettivamente avvenuto, per cui come provocatore alla Marco Pannella, alla Renato Zero o alla Aldo Busi ha decisamente funzionato bene. Molto meno bene ha funzionato come pensatore originale, perché la sua battuta ha una lunga storia, che si radica almeno in quel «Dante fascista» che nel corso del Ventennio si affermò progressivamente nell’immaginario di regime.
Rivelandosi estremamente difficile assimilare Dante alla prospettiva politica e culturale del PNF, perché l’etica francescana e la concezione universalista del poeta non potevano coincidere con il nuovo orizzonte aggressivo e nazionalista delle camicie nere, gli ideologi del tempo non trovarono di meglio che aggregare Dante al Pantheon eroico della Nazione, facendolo entrare in una lunghissima lista di campioni dell’italianità, da Giulio Cesare al Duce in persona, passando per, fra gli altri, Giangaleazzo Visconti, Emanuele Filiberto, Ugo Foscolo, i fratelli Bandiera, Goffredo Mameli, Camillo Benso Conte di Cavour, Alfredo Oriani, Giosue Carducci, Gabriele D’Annunzio e Nino Oxilia (così Vittorio Cian nel 1928): lista che di Dante faceva un santino come gli altri, ormai svincolato dalla sua reale esperienza letteraria e dalla sua concreta identità storica.
Un’epoca della modernità s’è evidentemente conclusa. Il capitalismo è infatti divenuto capitalismo universale. Ma pandemia e guerra stanno lì a dimostrare quanto la sua modernità, che almeno dal XVI° sec. ha significato crescita progressiva della ricchezza e allargamento dei beni primari a masse sempre più estese della popolazione, si sia venuta ormai estenuandosi.
Potremmo definire “età delle catastrofi” il periodo storico nel quale l’umanità si accinge ad entrare, o meglio nel quale è già entrata a partire dalla globalizzazione dell’economia neoliberale che s’è iniziata storicamente con l’implosione dell’Unione Sovietica e la diffusione dell’economia a dominanza di capitale all’intero pianeta. Nel giro di trent’anni il neoliberismo, vale a dire il capitalismo come espansione illimitata del capitale, nella sua forma di capitale produttivo, capitale finanziario e capitale commerciale, ha mostrato dopo un decennio di diffusione e sviluppo, tutti i suoi intrinseci limiti, per proporsi, nell’orizzonte di un passaggio egemonico dagli Stati Uniti alla Cina, come sintesi di tre catastrofi che sempre più si apprestano e stanno per attraversare e devastare la vita del XXI° secolo.
Tale nuova età delle catastrofi si configura attraverso la compresenza del suo agire su tre livelli distinguibili ma pure riconducibili a facce di una stessa realtà.
1. La catastrofe ecologica
Relazione sulla politica estera e le ricadute economiche e sociali per il Comitato Scientifico di Democrazia sovrana e popolare, 14 gennaio 2023
Vorrei iniziare ricordando la particolarità del periodo storico che stiamo vivendo, segnato dalla crisi dell’impero statunitense e dall’ascesa di un mondo multipolare caratterizzato dall’egemonia crescente della Cina comunista. È in questo quadro che dobbiamo situare gli eventi degli ultimi anni, compresa la guerra alla Russia e la pandemia COVID.
Il mantenimento stabile nell’ultimo secolo di un assetto imperialista ha fatto sì che l’Occidente abbia potuto fondare il proprio benessere sullo sfruttamento del “terzo mondo”. Il passaggio alla globalizzazione neoliberista, avvenuto dagli anni ‘70, ha però mostrato tutte le contraddizioni del sistema capitalistico, facendo perdere sul lungo termine competitività all’Occidente. La guerra in corso non è quindi un evento episodico e casuale, ma la risposta delle élite transnazionali occidentali alla perdita del controllo monopolistico dei mercati ricchi di risorse dell’Africa, dell’Asia, dell’America latina.
Che la pace non sia in effetti salutare per l’Occidente era emerso dagli esiti del World Economic Forum, che a partire dalle elaborazioni di Klaus Schwab ha lanciato la necessità di un “great reset” per garantire il rinnovamento del processo di accumulazione capitalistica occidentale: in estrema sintesi mentre non si fa nulla per cancellare gli enormi squilibri dovuti ad un’economia finanziaria ipertrofica, totalmente sganciata dall’economia reale, si lancia l’idea di una conversione economica in senso ecologicamente sostenibile.
Il totalitarismo tecnocratico si svela nella pratica pedagogica e didattica. Il totalitarismo si caratterizza per il controllo massiccio e pervasivo della formazione di ogni ordine e grado. Sulla formazione il dominio si gioca il futuro, in quanto la scuola e l’università preparano la futura classe dirigente, pertanto controllare l’ordine del discorso e filtrarlo significa controllare i saperi e attraverso di essi le parole e le coscienze. Il totalitarismo è una megaoperazione di filtraggio dei contenuti e dei messaggi. Il potere riproduce se stesso con il controllo e la programmazione pianificata delle parole che possono essere pronunciate e pensate. Il linguaggio crea mondi ed ermeneutiche, pertanto formare al linguaggio del capitalismo implica disegnare confini invalicabili, imporre frontiere al linguaggio e al logos. Le tecnologie sono il mezzo più efficace per la riproduzione del dominio, sono controllate da privati che selezionano informazioni e siti, e nel contempo, sono un immenso affare. I dispositivi tecnologici sono la merce più acquistata dalle giovani generazioni e non solo.
In assenza di una paideutica all’uso consapevole dei mezzi tecnologici si assiste all’occupazione dello spazio e del tempo delle nuove generazioni, le più indifese, con i dispositivi tecnologici. Per il nuovo totalitarismo è un doppio affare: le nuove generazioni sono un mercato fertile per il plusvalore, e inoltre comprano ciò che, in non pochi casi, li rende destrutturati nel carattere e nello spirito con la dipendenza dai dispositivi. Lo schiavo compra le proprie catene, poiché il dispositivo tecnologico consegna chi lo usa al sistema attraverso le informazioni che la rete acquisisce e mediante i messaggi che circolano in rete, i quali “possono colonizzare” la mente.
A dieci anni dalla morte di prospero Gallinari, ripubblico un articolo di commento nei giorni immediatamente successivi alla sua morte e che titolavo: In “morte” di Prospero Gallinari, in “vita” del giudice Caselli.
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« ….La morte del brigatista rosso Prospero Gallinari ed i suoi funerali potevano essere l’occasione per chiudere definitivamente una pagina tragica degli anni di piombo in Italia, e invece al suo funerale si sono risentiti slogan che rievocano quegli anni terribili ».
Così aprivano i maggiori telegiornali italiani nella giornata in cui si sono celebrati i funerali di Prospero Gallinari. Di qualche giorno prima, Giancarlo Caselli, sul giornale ‘Il fatto quotidiano’ del 18/1/13, metteva in guardia le nuove generazioni e in un articolo intitolato « il paese dei cattivi maestri» scriveva:
«Prospero Gallinari, prima di intraprendere la carriera di brigatista “culminata” con la spietata esecuzione (forse) del “prigioniero” Aldo Moro, si era reso celebre anche per certe singolari sfide che lanciava, tipo mangiare venti calzoni di fila o stare a torso nudo, sotto un albero tutta la notte. La sua morte ha ora scatenato sul web una pattuglia di nostalgici irriducibili, pronti ad osannare la lotta armata anche nel nuovo secolo. Risulta così confermata la patologia che, secondo Barbara Spinelli, affligge molti italiani, spesso vittime di una perdita di memoria che sconfina nell’amnesia e porta a una profonda sottovalutazione del pericolo che si corre occultando il passato per la mancanza continuativa di una coscienza etica. Così prosegue – con effetti devastanti – l’appropriazione indebita dei valori della resistenza partigiana e dell’antifascismo da parte di chi non ha l’intelligenza o l’onestà intellettuale di condannare la violenza organizzata praticata contro una democrazia: un arbitrario che ha potentemente contribuito all’indebolimento di quei valori.
La Fisica è associata, nei titoli di giornali e nell’immaginario, a esperimenti costosi in laboratori con attrezzature esotiche: dai grandi acceleratori di particelle ai razzi interplanetari. E così appare sempre più qualcosa riservato a un mondo alieno e rarefatto di cui poco è dato sapere e soprattutto comprendere ai comuni mortali.
Ma non solo la ‘Fisica povera’ dei laboratori scolastici, ma anche quella esotica può essere fatta a casa propria, anche da qualcuno digiuno di scienza.
1- il caos (il rubinetto di Henon)
Nonostante se ne sia fatto molto parlare tempo fa il caos è ancora oggetto misterioso per la maggior parte di noi. Il fatto che evochi l’eterna lotta con l’ordine lo carica anche di significati morali tanto drammatici quanto impropri.
L’unico modo di esorcizzarlo è capirlo, e la strada migliore gli esperimenti.
Quello che vi proponiamo richiede solo un recipiente con un rubinetto di quelli classici.
Mettiamo il recipiente sul tavolo, e per terra una vaschetta con della carta argentata sul fondo (Se avete un rubinetto di quelli classici, cilindrici, potete farlo anche nel lavandino di casa..).
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