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Riconquistare il collettivo, riconquistare pezzi di Stato
di Lorenzo Giustolisi
Pubblichiamo uno dei saggi apparsi sull’ultimo numero di «Proteo», Che ne è stato dello Stato, volume che tra qualche mese sarà al centro di un ciclo di formazione Cestes e USB.
Alla luce dei tragici fatti di Genova, la nostra analisi e la nostra proposta politica di una ripresa della centralità dello Stato assumono ancora più senso e urgenza, e richiedono uno sforzo collettivo per ridare coscienza e strumenti alle classi lavoratrici di questo Paese e del loro gramsciano “farsi Stato”.
“Deve esserci stata prima questa vittoria nel senso comune, nelle idee della gente, del commerciante, del trasportatore, del taxista, della donna di casa. Non importano le idee delle élites, che sono sempre un mondo a parte. Quelle che importano sono le idee della gente in basso, i loro processi logici e morali, quelli con i quali la gente valuta il mondo, ci vive dentro. È lì che abbiamo vinto.“
(Álvaro Garcìa Linera, Prima bisogna vivere nel senso comune della gente)
1. Destini individuali, destini generali
Se trenta o anche solo venti anni fa ad un giovane lavoratore fosse stato prospettato ciò che si prospetta oggi ad un suo coetaneo, in termini di incertezza di vita, di lavoro, di reddito, di diritti, questi probabilmente non ci avrebbe creduto, ancora avvolto in una serie di tutele derivate da una storia in cui si combinavano in Europa le conquiste epocali del movimento dei lavoratori tradotte nelle forme della tradizione socialdemocratica e di quella cristiano-sociale, e una crisi non ancora esplosa nelle forme che conosciamo. Non solo non ci avrebbe creduto, ma avrebbe probabilmente anche reagito, individualmente e collettivamente.
Oggi del mondo di quel lavoratore, nei paesi a capitalismo maturo e a maggior ragione nel nostro, stiamo vedendo la fine. A parte alcuni sporadici casi non si vede reazione, ed anzi prevale – soprattutto nei settori di pubblico impiego – un ripiegamento su se stessi.
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"Transizioni". Un saggio sulla filosofia che cambia
di Alessandro Melioli
Federico Sollazzo (cura), Transizioni. Filosofia e cambiamento. In movimento con Heidegger, Adorno, Horkheimer, Marcuse, Habermas, Wittgenstein, Gramsci, Pasolini, Camus, goWare, 2018
La prima immagine che mi sovviene accostandomi alla lettura dell’opera curata da Federico Sollazzo è di stampo sportivo. La transizione, nel gergo calcistico o cestistico, «rappresenta una fase intermedia di gioco nella quale si altera la condizione che si aveva nella fase iniziale per dare luogo ad un nuovo equilibrio» (così ad esempio su “Scienze motorie” online). Il fatto interessante è che tale concetto si può applicare soltanto a sport nei quali non esistono ruoli fissi, ovverosia dove determinati giocatori sono preposti unicamente alla fase difensiva e altri a quella offensiva, ma solo nei sistemi totali nei quali ogni soggetto si ritrova a compiere entrambe le fasi. Potremmo definirli sistemi liquidi. La transizione è diabasis ed è sempre preceduta da una sorta di periagoge, cioè di conversione del possesso palla ad opera di uno o più individui, i quali, con un gesto singolare nel rispetto delle regole del gioco, inter-rompono uno schema che stavano subendo per imbastire una nuova manovra che possa portarli ad una meta condivisa. Ma è ancora possibile una diabasis di questo tipo nel mondo attuale? Oppure la consapevolezza che «l’autentico soggetto del gioco non è il giocatore, ma il gioco stesso» [p. 84], come insegna Gadamer in Verità e metodo, non lascia spazio a sortite?
Credo che tali interrogativi possano rendere bene l’idea di fondo che muove l’opera curata da Federico Sollazzo. Transizioni. Filosofia e cambiamento è infatti un volume collettaneo, una raccolta di otto saggi di otto autori diversi. È innanzitutto una vetrina per giovani filosofi già in grado di offrire riflessioni di livello. È un lavoro di squadra; e, come in ogni squadra che si rispetti, ognuno esprime un punto di vista singolare alla luce dei propri ambiti di ricerca in vista di un fine comune.
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Della parola d’ordine “integrità”
di Alessandro Visalli
Come avevo scritto nel precedente post sulla parola d’ordine “onestà”, credo che le attuali forze che reggono il governo stiano articolando, non so quanto consapevolmente, un potente discorso pubblico che ruota intorno a pochi capisaldi la cui articolazione è intesa direttamente in senso sociale, ovvero che sono diretti alla formazione di un nuovo corpo sociale: “integrità”, “onestà”, “sicurezza”. Come avevo scritto mi pare fondamentalmente una reazione alla forza disgregante del modernismo, all’angelo della storia che, volgendo le spalle al futuro (che non conosce, vivendo nel presente), distrugge come un turbine il mondo al suo passaggio.
Si dice “populismo” intendendo proprio questa aspirazione alla ricerca di un senso, ed alla ricostruzione (rischiando il pastiche) del paesaggio ormai distrutto al passaggio dell’angelo. Si può provare a dire anche in questo modo: ciò che è in gioco è la ricostruzione di un ‘popolo’, con il quale guadagnare un rapporto diretto sul quale ri-fondare la legittimità e quindi politiche più attive, superando gli eccessi di questi ultimi anni. Questa ricostruzione, che lavora in direzione diversa dal movimento disgregante della modernizzazione capitalista (ovvero, da quel che buona parte della sinistra e della destra liberali sono soliti chiamare ‘progresso’, spesso ancorandolo al processo europeo letto come razionalizzazione), offrendo quindi un risarcimento, è obiettivamente strutturalmente in frizione con la direzione principale presa, già dalla rivoluzione americana (e in misura molto diversa e minore da quella francese) dello “stato di diritto” (non per caso evocato in merito alla difesa disperata della posizione della Società Autostrade nel caso del ponte Morandi) e della “democrazia” fondata sulla delega alle élite (ovvero “rappresentativa”, cfr. Bernard Manin “Principi del governo rappresentativo”).
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‘Tutto il potere ai soviet!’. Parte seconda
Il proletariato e il suo alleato: la logica dell’«egemonia bolscevica»
di Lars T. Lih
I bolscevichi erano essenzialmente preparati, sulla base dei loro precedenti punti di vista, ad affrontare le sfide del 1917? Per rispondere a questo interrogativo è necessario, innanzitutto, giungere ad una piena comprensione della strategia politica del vecchio bolscevismo. Una strategia politica che, per ritenersi coerente, doveva rispondere a due quesiti fondamentali:
1. Quali sono le forze motrici della rivoluzione in Russia – vale a dire, quali classi della società russa sarebbero in grado di determinare il corso della rivoluzione, quali sono i loro interessi e grado di organizzazione, in che modo queste classi si scontrerebbero e interagirebbero?
2. Quali sono le prospettive dell’imminente rivoluzione – ovvero, in quali risultati progressisti possono ragionevolmente sperare i socialisti e quali, invece, è improbabile si ottengano?
Alla fine del 1906, Karl Kautsky pubblicava un articolo col quale rispondeva proprio a tali interrogativi, come evidente sin dal titolo: “Le forze motrici e le prospettive della rivoluzione russa”. Un’analisi, quella di Kautsky, accolta dall’ala sinistra della socialdemocrazia russa con grande entusiasmo e approvazione senza riserve. Lenin e Trotsky si fecero carico entrambi di una traduzione russa, oltre a dedicargli commenti lusinghieri, così come fece Iosif Stalin per un’edizione georgiana. A proposito dell’articolo di Kautsky, Lenin scriveva: “è la più brillante conferma del principio fondamentale del bolscevismo… L’analisi di Kautsky ci soddisfa pienamente”. Nel suo commento, Trotsky equiparava fermamente il punto di vista di Kautsky con quello che egli stesso aveva espresso in Bilanci e prospettive, la sua classica esposizione del concetto di “rivoluzione permanente”: “Non ho ragione alcuna per respingere anche una sola delle posizioni formulate nell’articolo di Kautsky che ho tradotto, poiché lo svilupparsi del nostro pensiero in questi due testi e identico”. Ancora, in una lettera privata a Kautsky del 1908, a proposito dell’articolo di quest’ultimo, così si esprimeva Trotsky: “è la migliore esposizione teorica dei miei punti di vista, ed è per me fonte di grandi soddisfazioni”.
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Lavori, stronzate, e la burocratizzazione del mondo
di Jason E. Smith
«In nessun altro luogo, troviamo uno spreco altrettanto vergognoso della forza lavoro umana, per gli scopi pù spregevoli, di quello che troviamo in Inghilterra, la terra delle macchine.» (Karl Marx, 1867)
Probabilmente, ne avete sentito parlare per la prima volta quando avrete letto - su Bloomberg.com oppure sulle pagine del "The New Yorker" - del ruolo che ha avuto come uno dei "fondatori" del movimento di Occupy Wall Street. È probabile che alcuni di voi si siano imbattuti in lui anche prima, quando il The New York Times ha pubblicato un breve articolo sul professore di antropologia, apertamente anarchico, dove si lamentava del fatto che la politica aveva sventato i suoi piani per ottenere una cattedra a Yale. Altri, probabilmente un po' più giovani - che sono andati alla deriva nel periodo politico "radicale" successivo al 2008 - lo hanno trovato la prima volta su Twitter, dove mantiene assiduamente contatti con quasi 70.000 followers. Radicali un po' più anziani lo ricorderanno all'inizio del secolo, come partecipante entusiasta, e cronista, al movimento anti-globalizzazione. "Slate", The Guardian, The Financial Times ed altri organi delle potenze dominanti, aprono gli spazi delle colonne dei loro giornali alle sue riflessioni sulla tecnologia, sul denaro e sul Corbynismo, oppure ai suoi appelli in cui si richiede soccorso occidentale per i "rivoluzionari curdi" di Rojava (che hanno goduto per molti anni del letale supporto aereo degli aerei da guerra statunitensi). Figlio di un newyorkese di sinistra - suo padre ha combattuto nelle leggendarie Brigate Lincoln - oltre che uno degli ultimi studenti di Marshall Salins, oggi David Graeber è più noto per il suo monumentale libro del 2001, “Debito. I primi 5000 anni”, che è stato pubblicato appena un paio di mesi prima che sorgesse l'accampamento in Zuccotti Park.
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Ultimo atto della Guerra di Facebook: la schedatura politica degli utenti
di Riccardo Paccosi
L’avevo scritto nel mio precedente articolo “dall’esilio”, ovvero durante il blocco forzato, per 30 giorni, del mio profilo-facebook: il conflitto politico e geopolitico che si sta svolgendo in questi giorni e che ha il controllo di Facebook come posta in palio, riguarda tutti gli iscritti al social network, anche quelli che non si occupano di politica, anche quelli che si limitano esclusivamente a postare foto di gatti e/o dei propri piedi sulla sdraio in vacanza.
Devo tollerare ancora dieci giorni di blocco delle funzioni sul mio profilo ma, in questo periodo, posso comunque leggere quello che pubblicano e commentano i miei contatti. Ebbene, vedo che una recente misura precauzionale dell’amministrazione di Facebook sta colpendo ogni genere di profilo e lo sta facendo, a quanto pare, senza alcun apparente criterio: in maniera totalmente casuale, cioè, Facebook sta in queste ore cancellando post di vario tipo perché, a suo dire, “potrebbero essere spam”.
Probabilmente questo specifico problema rientrerà, ma esso è comunque indicativo della tensione che sta investendo la piattaforma di Mark Zuckerberg, nonché del grado di esacerbazione d’uno scontro che è ancora ben lungi dall’essere terminato.
Brevemente, possiamo tratteggiare i tre lineamenti generali di suddetto scontro:
a) Si tratta di uno scontro sia politico che geopolitico. Le forze che si stanno combattendo sono infatti le due “internazionali” – quella liberal e quella populista – sulla dicotomia fra le quali si è modellata, negli ultimissimi anni, la dialettica politica e ideologica dei paesi occidentali. Nell’ambito di tale scontro, si pone altresì il conflitto tra i liberal – che continuano a sostenere l’unipolarismo anglo-americano – e i populisti che, pur con diversa gradazione, ammiccano a un nuovo assetto multipolare del mondo.
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1968: la Cecoslovacchia e il Pci
di Guido Liguori*
Sono 50 anni dall’invasione della Cecoslovacchia da parte dei paesi del Patto di Varsavia guidati dall’Unione Sovietica. Era il 1968, il mondo era in fermento, si combatteva duramente in Vietnam, e negli Stati Uniti era nato un forte movimento, molto variegato, contro la guerra e contro la discriminazione razziale. In Europa gli studenti scendevano in piazza, si protestava da Parigi a Roma a Berlino.
Anche oltre la “cortina di ferro” vi era aria di novità. Soprattutto a Praga, in Cecoslovacchia. Fu considerato un ’68 in tono minore, anche dal “movimento del ’68”, ma fu un grave errore. Ciò che stava succedendo in quel paese avrebbe cambiato profondamente la percezione del “socialismo reale” (come si sarebbe in seguito autodefinito) e anche del comunismo, del movimento comunista, delle speranze di comunismo: si era a un bivio. La domanda fondamentale era la seguente: il “socialismo fino allora realizzato” (come più giustamente lo chiamerà poi Enrico Berlinguer) può autoriformarsi? Può recuperare elementi di democrazia (sia pure di tipo nuovo), di autogestione, di dibattito politico e culturale non ingessato? A dodici anni dalla invasione dell’Ungheria si stava provando a realizzare un tentativo in questo senso. Ma le differenze con l’Ungheria erano chiare: a Budapest si era stati di fronte a un processo ambiguo, pieno di genuine spinte popolari e di torbidi tentativi reazionari di utilizzarle (il che non vuol dire giustificare l’invasione del 1956, ma sottolineare che a quel punto non si doveva arrivare). In Cecoslovacchia invece il rinnovamento era saldamente nelle mani dei comunisti, era portato avanti da un partito comunista e dal suo giovane segretario, Alexander Dubček, da poco eletto, che riscuoteva grande consenso e partecipazione popolare.
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Tecnica e cultura classica
di Salvatore Bravo
La potenza della tecnica non è garanzia di virtù e bene. Cultura classica come formazione alla libertà consapevole
Il Prometeo scatenato
La potenza della tecnica non è garanzia di virtù e bene. Il capitalismo assoluto ha reso tale scissione prassi quotidiana. La tecnica divenuta strumento dell’integralismo economico, per potersi affermare senza che vi siano “ostacoli epistemologici,” ha reso la coscienza umana ed il simbolico presenze superflue della storia. Il mito della tecnica con i suoi dogmi vive e si espande a livello globale mediante la mitizzazione della stessa. Ogniqualvolta sono presenti difficoltà di ordine politico relative alla comunità, l’orientamento generale è il volgersi a professionisti della tecnica, i quali rispondono con l’ausilio delle macchine. Le previsioni economiche sono demandate ad economisti, i quali leggono ed interpretano proiezioni stabilite da algoritmi. L’onnipotenza si radica nell’astratto, nella scissione. L’assenza della mediazione politica comporta il delinearsi di “comunità” che piegano le ginocchia ed il capo dinanzi al nuovo “ipse dixit”: ciò fa del capitalismo assoluto – con le sue straordinarie potenzialità tecniche – un nuovo medioevo. I nuovi clerici che parlano in nome della nuova divinità non sono che l’espressione del trionfo della tecnica. I detentori del potere sono egualmente dominati, quanto lo è la comunità passivizzata ed alienata. La tecnica – senza la mediazione simbolica – trasforma l’intera comunità rinserrandola nella «gabbia d’acciaio» in cui l’oscurità – presenza impalpabile, ma onnipresente della tecnica – diviene l’essere, il fondamento pernicioso a cui gli schiavi non vogliono rinunciare. Non tutti gli schiavi sono in una eguale condizione. I possessori dei mezzi di controllo vivono una comoda condizione alienata, il loro privilegio li allontana dagli effetti della divinità di cui sono i tragici servitori.
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Ponti e pontefici
Molestie: spuntano i MeToo maschi
di Fulvio Grimaldi
[In seguito alla pubblicazione del seguente articolo l'account di Fulvio è stato bloccato per la seconda volta in pochi giorni da Facebook. Invitiamo tutti i siti e gli spazi di comunicazione alternativa a rilanciare questo articolo e insieme la protesta per la censura politica che i big della rete (Google, Facebook, Twitter, ecc.), in combutta con i governi e l'UE, stanno mettendo a punto in questi mesi. Di seguito l'avviso di Facebook e l'email di Fulvio Grimaldi:
Questa funzione è temporaneamente bloccata
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Di recente hai pubblicato un contenuto che non rispetta le normative di Facebook, pertanto ti è stato impedito temporaneamente di usare questa funzione. Per ulteriori informazioni, visita il Centro assistenza.
Per impedire di ricevere blocchi in futuro, assicurati di aver letto e compreso gli Standard della community di Facebook.Il blocco sarà ancora attivo per 3 giorni.
- Se ritieni di visualizzare questo messaggio per errore, comunicacelo.
Sono stato nuovamente bannato da facebook. Il testo rimosso è quello intitolato “PONTI E PONTEFICI ----- Molestie: spuntano i meetoo maschi”, che potete trovare integro in www.fulviogrimaldicontgroblog.info . Nulla che non sia uscito, in termini anche più forti per esempio sul Fatto Quotidiano. Ma evidentemente sono segnalato.
C’è modo di reagire a questo incredibile sopruso?
Fulvio].
* * * *
Transfert
Si divincolano e sparano discorsi dell’odio del rancore e dell’invidia (hate speech) di cui, peraltro, sono titolari storici. Basta pensare all’Islam integralista, estremista, terrorista, ai populisti razzisti, xenobofi, fascisti, ai “Hitler Milosevic”, “Hitler Saddam”, “Hitler Gheddafi”, “Hitler Assad”, “Hitler Chavez”, ma anche prima ai negri cannibali, ai pellerossa selvaggi.
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La crisi turca e la sovranità nazionale
Una lettura
di Sandro Arcais
In merito alla crisi turca, se ne sono dette tante, a partire dalle spiegazioni semplici per le menti semplici, gli autorazzisti, i tremebondi innamorati della superpotenza europea, i disprezzatori dell’italiano (soprattutto se povero, poco istruito, disoccupato, di provincia e meridionale), i convinti sino al fondo dell’ultimo neurone che gli Italiani non sono governabili, gli adoratori impotenti della potenza dell’euro.
Io vi propongo una lettura di ciò che sta avvenendo basata su alcune idee e concetti di un libro che dovreste assolutamente leggere da cima a fondo, per poi riprenderlo e rileggerlo nuovamente da cima a fondo facendo sedimentare bene concetti, processi, sistemi e costellazioni causali. Sto parlando di L’imperialismo globale e la Grande Crisi, di Ernesto Screpanti (qui un'intervista all'autore sul suo libro).
Nella parte finale del paragrafo dedicato alla disciplina finanziaria (pagg. 92-100) con cui il grande capitale delle multinazionali governa il mondo, apre le economie al libero mercato e le asserve alla produzione del valore (il loro delle multinazionali) e alla accumulazione (sempre la loro delle multinazionali), Screpanti prende in esame il ruolo della speculazione:
Gli speculatori, senza saperlo, svolgono un ruolo essenziale nell’attivazione della disciplina finanziaria su scala globale. Quando un paese in via di sviluppo ha un deficit “strutturale” nella bilancia dei pagamenti o quando assiste a un deflusso prolungato di capitali, la speculazione può aspettarsi una svalutazione della moneta nazionale. (Ernesto Screpanti, L’imperialismo globale e la Grande Crisi)
Che poi è la situazione in cui si trova da tempo la Turchia, che da una parte macina tassi di aumento del PIL alla cinese …
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La lotta di classe nella Russia di Putin e il nuovo movimento comunista russo
di Commissione Solidarietà Internazionalista di Fronte Popolare
Intervista al compagno Kirill Vasilev, membro del Presidium del Comitato Centrale del Partito Comunista Unito (OKP) russo
In occidente, la propaganda atlantista restituisce l'immagine di una Russia ancora una volta “impero del male”, monoliticamente raccolta intorno al suo presidente autoritario e intenta a ordire complotti ai danni del “mondo libero”. Ciò serve da alibi per moltiplicare le iniziative aggressive contro il colosso eurasiatico: la russofobia, antica nell'Europa centrale e fortemente radicata anche negli Stati Uniti dai tempi della Guerra Fredda, serve dunque a mascherare la preoccupazione dei gruppi dirigenti atlantici per un cambiamento accelerato della scena internazionale che rischia di mettere in discussione la compattezza dello stesso blocco imperialista, all'interno del quale maturano spinte centrifughe ormai evidenti.
Nel frattempo, negli ultimi mesi la società russa ha visto diffondersi la protesta contro la riforma del sistema pensionistico fortemente voluta da Putin: una misura di stampo neoliberista che minaccia di aggravare seriamente le condizioni di sussistenza di un'ampia fascia della popolazione, in un paese in cui l'aspettativa di vita rimane sensibilmente bassa e le sacche di disagio sociale, dopo il decennio di crescita e relativa stabilità degli anni 2000, hanno ripreso ad aumentare, acuendo il malessere mai sopito provocato dall'ingiustizia sociale e dalla miseria che hanno accompagnato la restaurazione del capitalismo dopo la fine dell'Unione Sovietica.
La propaganda occidentale fornisce della situazione politica interna russa una visione al tempo stesso reticente e caricaturale, tutta tesa a diffondere la convinzione che l'unica alternativa al potere putiniano sia rappresentata dall'impopolarissima destra liberale e filo-americana. Il movimento comunista russo viene sistematicamente occultato. A dispetto di ciò, molti tra i militanti e simpatizzanti della sinistra italiana conoscono il principale partito d'opposizione parlamentare, il Partito Comunista della Federazione Russa (KPRF) guidato da Gennady Zjuganov sin dal 1993: un partito dalla forza elettorale ancora significativa, seppure altalenante e in costante declino, che si caratterizza per una marcata vicinanza al governo sui temi della politica internazionale e per un crescente conservatorismo in politica interna.
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Ribelli 5 stelle contro saggi PD!
di Fabrizio Luisi
Degli ultimi mesi di vita politica italiana un aspetto che mi ha molto colpito è la scarsa competenza in comunicazione politica delle forze progressiste. Ma dal momento che ogni narrazione esiste in relazione alle storie che la circondano, per capirci qualcosa tento un’analisi sommaria dell’intero ecosistema narrativo italiano.
Leggere la politica solo come un insieme di «storie» create da a tavolino da esperti di comunicazione può sembrare un approccio cinico, ma il fatto è che si tratta solo di strumenti. Chi li sa usare, può vincere. Chi non li usa non entra neanche in partita. E no, gli spin doctor e lo storytelling politico non rappresentano una degenerazione della vita democratica, ma piuttosto la naturale articolazione del tipo di democrazia – quella rappresentativa ed elettiva – che ci siamo scelti.
Come strumenti uso l’archetipo (struttura psichica ancestrale che funge da mappa congnitiva, attivatore emozionale, e che si traduce in rappresentazioni sociali), la voce (come si esprime l’archetipo), la narrazione (la storia che la voce racconta).
Nell’osservare la campagna elettorale, dove l’opinionista politico vede uno scontro di idee, il professionista della comunicazione vede uno scontro di storie. E alla radice di questo scontro, c’è una guerra per l’egemonia degli archetipi. Dal momento che un ecosistema narrativo è per sua natura efficiente, ogni archetipo può essere incarnato da una sola voce e da una sola storia. C’è spazio per un solo Guerriero, un solo Saggio, un solo Mago, un solo Sovrano, e così via. Per questo, di solito, quando lo spazio narrativo di un archetipo è già occupato, si preferisce raccontarsi con un altro archetipo. In questo modo magari non vinco, ma almeno esisto. Perché perdere la battaglia per il controllo di un archetipo, significa rimanere senza voce e senza storia, e quindi cessare di esistere.
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Una valuta parallela per l'Italia è possibile
di Biagio Bossone, Marco Cattaneo, Massimo Costa e Stefano Sylos Labini
Nota preliminare di Pino Cabras
Si moltiplicano i segnali che fanno ritenere possibile l’arrivo di una fortissima pressione finanziaria internazionale sull’Italia ancora prima che in autunno il parlamento approvi il prossimo bilancio. Per qualche settimana il tema era passato in secondo piano, ma era sempre lì, minaccioso, a fare capolino.
È stato talmente presente da aver accompagnato sin dall’inizio la formazione del governo M5S-Lega, come un convitato di pietra, come un latente “stato di eccezione” pronto a spostare gli equilibri in favore di chi aveva il potere di dichiarare quella eccezionalità. Tutti giocavano secondo le regole, ma alcuni giocavano con la regola che annichilisce le altre e fornisce la vera sovranità: su tutto, lo spread (e la conseguente paura di incenerire il risparmio).
In Italia, visti i precedenti che risalgono anche a tempi vicini, lo stato di eccezione si compone di un miscuglio terribile di speculazione internazionale, differenziali di tassi d’interesse, decisioni di pochi soggetti non controllati dalla rappresentanza democratica che portano il Presidente della Repubblica a forzare la mano e a scegliere governanti non eletti, ossia tecnocrati dalle mani di forbice disposti ad azzerare in una notte diritti sociali esistenti da decenni. L’esecutivo denominato governo Monti è stato, più che altro, un governo Napolitano. E anche Sergio Mattarella ha influito profondamente sulle fasi di formazione del nuovo governo rivendicando un’interpretazione rigidissima dei poteri presidenziali al momento di negoziare la scelta del presidente del Consiglio e dei ministri chiave. Non dimentichiamo che a un certo punto Mattarella aveva dato l’incarico di premier a Carlo Cottarelli, da presentare alla Camere a capo di un governo tecnico di minoranza, per fortuna scongiurato dal successivo formarsi del “governo del cambiamento” retto da Giuseppe Conte, forte di un fresco consenso delle formazioni politiche che hanno trionfato il 4 marzo 2018.
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Gli Stati uniti d’Europa e la guerra civile
di Renato Caputo
Perché gli Stati uniti d’Europa, in regime capitalistico, sono impossibili o reazionari e la necessità della rottura rivoluzionaria
Nella fase di sviluppo superiore o suprema del capitalismo (fase imperialista) vi è una tendenza oggettiva al superamento dei limiti posti dagli Stati nazionali, corrispondente all’affermazione del monopolio di contro alla concorrenza tra piccole imprese indipendenti. Tale tendenza transnazionale dell’imperialismo, oggi pienamente dispiegata sotto i nostri occhi, pone la basi oggettive per il superamento in senso socialista del capitalismo. Dunque, per dirla con Lenin: “il capitale ha sorpassato nei paesi avanzati i limiti degli Stati nazionali, ha sostituito alla concorrenza il monopolio, creando tutte le premesse oggettive per l’attuazione del socialismo” [1]. D’altra parte tale tendenza, indispensabile all’ulteriore sviluppo delle forze produttive, entra necessariamente, oggettivamente in contraddizione con la necessità di salvaguardare gli attuali rapporti di produzione e proprietà privatistici. Perciò questa tendenza transnazionale dell’imperialismo non porterà, come si illudono gli opportunisti centristi, a un ultraimperialismo o a un impero in grado di riunire pacificamente sotto di sé le diverse nazioni, su un livello paritetico.
Come il superamento della concorrenza fra singoli capitalisti genera sì il monopolio, che però non significa la fine della concorrenza ma il suo riprodursi a un livello superiore, quale concorrenza fra monopoli, il superamento dei limiti nazionali dell’imperialismo transnazionale non comporta la fine delle guerre, ma le riproduce a un livello superiore, al livello delle guerre mondiali fra potenze imperialiste che hanno, in quanto tali, superato la dimensione nazionale. Perciò Lenin si scaglia contro l’utopismo proditorio dei socialpacifisti e dei sostenitori dell’ultraimperialismo che ingannano le classi oppresse sostenendo che sarà possibile, senza abbattere l’imperialismo, una pacificazione e una conseguente cooperazione, su basi paritetiche, fra le nazioni oggi dominanti e le nazioni oppresse.
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Appunti per un rinnovato assalto al cielo. IX
La fabbrica dei soldi: sulla crescente finanziarizzazione dell’economia cinese
di Paolo Selmi
Affrontiamo ora un argomento ancora più complesso dei precedenti, ma di vitale importanza ai fini del nostro lavoro: l’attuale politica economica cinese in materia di finanza. Abbiamo già accennato alle restrizioni agli investimenti esteri che NON provengano dal suo Stato satellite Hong Kong (quasi il 75% da solo), e dalle affini Taiwan e Singapore.
Il dato che emerge, quando OLTRE TRE QUARTI DEGLI “INVESTIMENTI ESTERI” IN TERRA DI CINA PROVENGONO DA “ECONOMIE DI TRANSITO”, non lascia adito a molte ambiguità interpretative: veri e propri meccanismi di filtraggio (e riciclaggio per e da destinazioni off shore) mostrano il lato oscuro di un capitalismo già opaco di suo, permeato da regole il più delle volte non scritte e tese unicamente alla massimizzazione dei profitti e al loro immediato occultamento da parte di tutti i soggetti politico-economici coinvolti.
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Crolla il ponte, muore una città, cade un sistema
di Simone Lombardini
Il crollo del “Ponte Morandi” nella mia Genova non è stato un incidente fortuito. Non è stato un fulmine. Non è stata un po’ di pioggia. La caduta di quel ponte ha un’origine molto più profonda, nel tempo e nello spazio; non è stato solo un cedimento strutturale quanto più un cedimento morale. Costruito in pieno boom economico, quando l’Italia investiva in grandi opere pubbliche infrastrutturali, era diventato uno dei simboli della rinascita italiana, riscattata dal ventennio fascista e proiettata verso lo sviluppo economico; oggi il ponte del boom è diventato il ponte della morte, dell’incuria e della corruzione, ed è per questo che la sua caduta assume il valore simbolico della triste decadenza in cui versa il nostro paese. Un paese che ha rinunciato al proprio futuro avendo smesso di investire in infrastrutture, un paese senza un piano industriale ma che esporta i suoi talenti umani migliori a centinaia di migliaia ogni anno; un paese dove gli abitanti non fanno più figli, un paese che invecchia soltanto, immobilista e demoralizzato.
La catastrofe del 14 agosto non è ascrivibile a un evento fortuito ma nemmeno a responsabilità meramente individuali indirizzabili a un manipolo di malfattori, sarebbe troppo facile in questo caso: migliaia tra operai, tecnici, ingeneri, geometri e architetti monitoravano il ponte ogni istante di ogni giorno fino al minuto prima del suo crollo, eppure il ponte è caduto comunque. Il fatto è parecchio nebuloso e non aiuta di certo la secretazione da parte del tribunale del filmato ufficiale di Autostrade per l’Italia che riprende per intero la dinamica del crollo (che nessuno ha visto). Tuttavia alcune osservazioni del sistema si possono già fare. Dal 2016 poi è nota alle autorità l’audizione parlamentare dell’architetto Mauro Coletta che denunciava le condizioni di lavoro della Vigilanza sulle concessioni: i dipendenti devono anticipare le trasferte di tasca loro attendendo 4-5 mesi prima di vedere il rimborso (e infatti dal 2011 al 2015 sono passate da 1400 a 850) ma cosa ancor più grave non hanno alcuna assicurazione legale contro i contenziosi giuridici che le concessionarie aprono quando essi segnalano irregolarità.
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Il realismo di Danilo Zolo
Stralci
di Pietro Costa
Questi stralci selezionati da un saggio di Pietro Costa pubblicato su Jura Gentium vogliono essere un omaggio a Danilo Zolo, uno studioso scomparso ieri. Non l’ho mai incontrato. Ricordo di aver letto qualche suo scritto sui vecchi Quaderni Piacentini. O, più recentemente, diversi suoi articoli critici ai tempi della Guerra del Golfo (1990-1991) e una sua bella discussione con Antonio Negri al momento della pubblicazione di Impero (2003). Negli ultimi anni ho cercato di tener d’occhio il lavoro suo e dei collaboratori della sua rivista on line, ma non sono riuscito a leggere i suoi libri più importanti. Il suo nome per resterà quasi certamente nella mia lista dei libri “da leggere”. Non credo, però, di dovermi scusare con nessuno di questo. Sono come tanti in una condizione che non mi permette studi sistematici e approfonditi, ma ciò non mi ha mai impedito di individuare nel bailamme del mass media e delle mode gli studiosi di rilievo e di leggere almeno vari loro testi più brevi. Può un simpatizzante di Marx o delle “fisime comuniste” di Fortini e che ha appena pubblicato il ricordo partecipe di Giorgio Riolo sul marxista Samir Amin apprezzare Zolo? Senz’altro. Il rigore di certi studiosi anche accademici va sempre riconosciuto e anche chi si nutre di utopie, apparentemente irrealizzabili, impara parecchio da un realista come Zolo. Ringrazio Toto Beat per l’immagine d’apertura copiata dal suo profilo FB. [E. A.]
1.
Chi entrasse in contatto, anche superficialmente, con la riflessione filosofico-giuridica e filosofico-politica sviluppata da Danilo Zolo nell’ultimo ventennio, non esiterebbe a ricorrere, per caratterizzarla con una formula riassuntiva, alla categoria del ‘realismo’. Per giungere a questa conclusione il lettore non avrebbe bisogno di particolari acrobazie ermeneutiche: è l’autore stesso che quasi in ciascuno dei suoi interventi impiega il termine ‘realismo’ (e i suoi derivati) per indicare sinteticamente il proprio schema teorico di riferimento. Nel suo più impegnativo contributo all’analisi della democrazia contemporanea – Il principato democratico – l’intenzione di delineare una teoria realistica viene programmaticamente indicata già dal sottotitolo dell’opera1 e in Cosmopoli2 – l’opera che apre la lunga serie di scritti dedicati alla filosofia del diritto internazionale – fino dalle prime pagine viene dichiarata l’appartenenza alla tradizione del realismo.
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Lenin e la concezione materialistica della storia
di Sabato Danzilli
Alcune note su “Che cosa sono gli ‘Amici del popolo’ e come lottano contro i socialdemocratici?”
Nel 1894 un ventiquattrenne Lenin componeva Che cosa sono gli “Amici del popolo” e come lottano contro i socialdemocratici?. Questo testo si inserisce in una polemica molto articolata e di durata decennale, che ha portato marxisti e populisti a discutere sullo sviluppo capitalistico della Russia e assume in essa un’importanza fondamentale per la chiarezza e l’originalità con cui viene trattata la materia. L’opera ha ancora oggi un grande valore, non per i banali parallelismi con l’attualità italiana, che potrebbero essere indotti dal suo titolo, ma per la sua robusta capacità di parlare del presente, basata sulla ricchezza di strumenti di analisi che esso fornisce. Questo contributo non pretende di essere un’esposizione completa del testo leniniano, ma di evidenziarne alcuni spunti e di sottolineare attraverso esso alcuni elementi degni di nota in modo particolare. Il bersaglio polemico dell’opera è il populista liberale Michajlovskij, la cui rivista, la Russkoe Bogatstvo, aveva pubblicato nei mesi precedenti articoli che criticavano alcuni elementi fondamentali del marxismo. Da questo elemento occasionale Lenin sviluppa la propria analisi della filosofia marxista e della situazione economica e sociale della Russia del suo tempo.
In quale delle sue opere Marx ha esposto la sua concezione materialistica della storia?
Proprio in apertura del testo Lenin affronta questa supposta critica di Michaijlovskij. Non nuoce ricordare che l’opera marxiana che più si avvicina a un’esposizione sistematica del materialismo storico, L’ideologia tedesca, rimarrà inedita fino al 1932, ma proprio per questo la risposta è particolarmente degna di nota:
Chiunque conosca Marx gli risponderebbe con un’altra domanda: in quale delle sue opere Marx non ha esposto la sua concezione materialistica della storia?
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Soros Papers
di Francesco Galofaro*
Come la Open Society Foundation controlla un terzo del parlamento europeo
Con questo articolo Marx XXI si accinge a pubblicare una serie di approfondimenti sui Soros Papers. Si tratta di documenti riservati della Open Society Foundation che fa capo al discusso finanziere naturalizzato statunitense George Soros, pubblicati dal sito DC Leaks. La nostra inchiesta parte dal Parlamento europeo e dal modo in cui la Fondazione esercita attività di tipo lobbistico su un terzo dei deputati eletti nel 2014. Nei prossimi capitoli ci occuperemo più nello specifico della campagna elettorale del 2014 e del modo in cui la Fondazione ha tentato di influenzarla. Infine, approfondiremo le finalità della Fondazione Open Society, per chiederci se il suo modo di procedere non costituisca una minaccia per la democrazia.
La fonte
DC Leaks è un sito noto per aver divulgato, in passato, le mail dei partecipanti al congresso democratico del 2016 [1], rivelando come il gruppo dirigente avesse sabotato la campagna elettorale di Bernie Sanders. Nell'agosto del 2016 DC Leaks ha pubblicato 2600 file relativi alle attività e alle strategie della fondazione Open Society. Secondo le accuse delle agenzie di sicurezza USA, dietro la pagina si celerebbe il gruppo russo Fancy Bear, specializzato nello spionaggio cibernetico. Non è certo il modo in cui i documenti sono stati ottenuti. Per ammissione di Laura Silber, portavoce della fondazione, i dati provengono da una intranet utilizzata dai membri del consiglio di amministrazione, dallo staff e dai partner della fondazione [2], il che fa pensare a una gola profonda (whistleblower) interna all'organizzazione, mossa da motivazioni ideali, oppure alla tecnica dello spear phishing, con mail ad personam che sfruttano dati sul destinatario allo scopo di convincerlo a collaborare.
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Manifesto per una critica di classe alle vaccinazioni obbligatorie
Alcun* genitori (e non) amanti dello spirito critico
Il dibattito sui vaccini in Italia, se di dibattito si può parlare, ha raggiunto livelli infimi, e soprattutto ci ha annoiato profondamente.
Nella percezione diffusa, esistono solo posizioni mostruose: il genitore no-vax egoista e terrapiattista e lo scienziato arrogante e paternalista (sullo sfondo, gli spettri del Bambino, bene supremo della Patria, sempre a rischio di diventare un piccolo untore, e dell’Immigrato, il Grande Untore riattivatore di vecchie malattie che la nostra superiore civiltà aveva debellato).
Vorremmo dire qualcosa anche noi. Forse qualcosa di sinistra (!).
Siamo per la libertà vaccinale, intanto.
Siamo free-vax, dunque, ma questo non significa che siamo terrapiattisti, complottisti o appassionati di scie chimiche. L’uso del pensiero critico non è un pacchetto all inclusive prendere-o-lasciare. A ben vedere, anzi, è una pratica tipica del metodo scientifico.
Non siamo irrazionalisti: riconosciamo il valore della ricerca scientifica, del suo metodo e di molti dei suoi risultati. Tuttavia, non siamo neanche scientisti: siamo consapevoli che la scienza trova applicazione solo all’interno dell’impresa scientifica (e le regole le sceglie il capitale, al momento) e non in un’iperuranico mondo della “verità”. Sappiamo anche che la scienza non è neutra: riflette la propria storia, i rapporti di potere vigenti (i rapporti di classe, oseremmo dire...), la congiuntura economica, gli immaginari dominanti.
A ben vedere, vorremmo che le promesse del metodo scientifico venissero rispettate: nessun dogma, libera discussione, no al principio di autorità.
Diciamolo subito: non crediamo che i vaccini siano un male in sé, né che non possano esistere, in assoluto, casi in cui sia necessario l’obbligo di somministrarli a vaste fasce di popolazione.
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Dialettica o eclettismo?
di Eros Barone
«L'eclettismo è sostituito alla dialettica; nei confronti del marxismo questa è la cosa più consueta, più frequente nella letteratura socialdemocratica ufficiale dei nostri giorni. Questa sostituzione non è certo una novità; si poté osservarla persino nella storia della filosofia greca classica. Nella falsificazione opportunistica del marxismo, la falsificazione eclettica della dialettica inganna con più facilità le masse, dà loro una apparente soddisfazione, finge di tener conto di tutti gli aspetti del processo, di tutte le tendenze dello sviluppo e di tutte le influenze contraddittorie ecc., ma in realtà non dà alcuna nozione completa e rivoluzionaria del processo di sviluppo della società.»
Lenin, Stato e rivoluzione, 1917.
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La struttura concettuale dell’eclettismo
Qualsiasi dizionario ci informa che l’eclettismo è un atteggiamento che consiste nello scegliere da differenti teorie le tesi che più si apprezzano, senza considerare la coerenza di queste tesi fra di loro e la connessione di esse con le teorie da cui sono state desunte. La definizione testé riportata mette in rilievo la duplice natura - teorica e pratica - di un atteggiamento mentale, che «si fonda» sulla congiunzione di un elemento soggettivo, arbitrario, con un elemento logico, contraddittorio. Si tratta, in effetti, della struttura che caratterizza l’ideologia come falsa coscienza all’interno di una società divisa in classi e le assegna un ruolo specifico nella riproduzione delle condizioni spirituali di questa società. Parafrasando l’asserzione con cui Lenin apre lo scritto su Marxismo e revisionismo (1908) 1 - asserzione la quale ricorda che «un noto adagio dice che se gli assiomi della geometria urtassero gli interessi degli uomini, si sarebbe probabilmente cercato di confutarli» - si riesce più facilmente a comprendere come l’eclettismo si sforzi di conseguire il medesimo risultato, cioè l’inconfutabilità, con la giustapposizione, opportunamente dosata, di ingredienti eterogenei, ricavati da differenti teorie e resi compatibili non attraverso qualche forma, ancorché problematica, di riduzione concettuale, ma attraverso la loro finalizzazione pratica al progetto «sistemico» di cui l’eclettismo è lo strumento principe: la riproduzione della egemonia ideologica della classe borghese entro le «forme belle» della democrazia rappresentativa e dello Stato di diritto e l’occultamento della dittatura congiunta del profitto e della rendita esercitala sulle masse lavoratrici dal capitale finanziario.
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L’autunno sarà caldo
di Marco Martini & Simone Lombardini
Sono passati più di due mesi dalla formazione del governo Conte, espressione dell’alleanza Lega-M5S. Troppo poco tempo per una valutazione esaustiva dell’operato governativo, ma, di fronte ad alcuni segnali che arrivano da più parti, è possibile fare alcune considerazioni generali, che riguardano soprattutto il fronte dell’opposizione. Proviamo a procedere per punti, cercando di capire cosa dobbiamo aspettarci per l’autunno.
CONTRADDIZIONI GOVERNATIVE. Il governo Conte è figlio di un compromesso tra due partiti che da una parte hanno la stessa radice – popolare ed anti-establishment – ma dall’altra divergono anche nettamente per storia, inclinazioni e progetti politici. I 5 stelle rappresentano quella fascia sociale ascrivibile a una parte del ceto impiegatizio e borghese stufo dei partiti tradizionali e quell’ampia compagine di persone precarie o disoccupate che sperano nel vitalizio collettivo (alias reddito di cittadinanza) concentrati soprattutto al Sud. La Lega, come mostrato dalle elezioni, rappresenta invece quel tessuto di piccole e medie imprese e partite IVA concentrato soprattutto al Nord, vittima dell’economia della globalizzazione (concorrenza con i prodotti che arrivano dai paesi in via di sviluppo e con le multinazionali) e impoverito dagli ultimi 10 anni di austerità; ma rappresenta anche quelle fasce sociali povere, comprensive anch’esse di disoccupati, precari o lavoratori che vivono le difficoltà dell’immigrazione nelle periferie e avvertono l’Europa più come la causa che la soluzione della loro condizione. Grande assente, va ricordato, è sempre un grande movimento rappresentante il Lavoro, evidentemente distrutto nella propria unità e identità da anni di riforme che lo hanno parcellizzato, precarizzato, ridotto numericamente, impoverito e dissolto culturalmente e materialmente nell’economia fluida dell’e-commerce, della gig economy e della new economy.
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Venezuela, le cavallette dell'imperialismo
di Geraldina Colotti
Nessuna Weltanschauung è innocente, nessuna visione del mondo è neutrale, nessuna informazione è “imparziale”. I media di guerra sono la fanteria leggera del capitalismo. Nel sud globale, dove la lotta di classe è più difficile da occultare, funzionano da cavallette dell'imperialismo
A proposito del Venezuela e del fallito attentato contro Maduro, torna la riflessione di Lukacs nel volume La distruzione della ragione. Il filosofo ungherese accusa Schopenhauer di aver offerto agli ufficiali prussiani il proprio binocolo da teatro per meglio sparare sugli insorti del 1848. Fatte le debite proporzioni storiche, filosofiche e culturali, si potrebbe usare la stessa frase nei confronti di quel giornalismo che, nell'avanzare della “modernità liquida” a scapito di un pensiero forte sul mondo e nell'assenza di un “intellettuale collettivo”, ha assunto sempre più peso nella formazione della “opinione pubblica” e di una determinata egemonia culturale.
La concentrazione monopolistica dei grandi gruppi editoriali ha reso anche l'informazione una merce al servizio del capitale e moltiplicato l'influenza dei grandi media nel sistema-mondo: uno scenario in cui si evidenzia la crescente spinta alla guerra imperialista come unica uscita dalla crisi strutturale in cui si dibatte il capitalismo.
Come abbiamo visto in questi anni, il ruolo dei media è stato quello di preparare, accompagnare e consolidare le aggressioni a paesi ricchi di risorse, fondamentali per ridefinire a favore del capitale lo sfruttamento del lavoro a livello globale. Ci hanno “raccontato” di guerre “umanitarie”, di “democrazia” da esportare con le bombe, sostituendo alla lotta di classe il paradigma della “vittima meritevole”: sia nella forma del carnefice eternamente impune (Israele), sia in quella del “caso umano” che deve mendicare ascolto in diretta anziché lottare con forza per i propri diritti (operai, migranti eccetera). Quella della “fine delle ideologie” risulta così la peggiore delle ideologie, nel senso proprio della falsa coscienza, assunta da una mandria acefala convinta della propria “unicità”.
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Nazionalizzare le autostrade!
di Leonardo Mazzei
Le penali sono una tigre di carta: le convenzioni dei "Signori del casello" una vergogna targata Prodi, ma si possono cancellare nazionalizzando la gestione della rete autostradale
L'aria finalmente è cambiata. Di fronte alla tragedia di Genova, il governo ha annunciato la revoca della concessione ad Autostrade per l'Italia. Questa decisione, non solo va incontro ad un sano desiderio di giustizia, ma pone all'ordine del giorno la questione dello stop alle privatizzazioni ed alle liberalizzazioni dell'ultimo quarto di secolo.
Di questo hanno parlato diversi esponenti del governo, a partire dal vice-premier Di Maio. Bene, anzi benissimo. Se son rose fioriranno, ma intanto prendiamo atto di un tempismo e di una rapidità di decisione senza precedenti.
E' ora di iniziare ad invertire il disastroso percorso che ha portato a privatizzare i settori strategici dell'economia: dall'energia alle telecomunicazioni, dalle banche ai trasporti. Ed è proprio da quest'ultimo comparto che si può partire, cominciando con Alitalia e con la rete autostradale.
Limitiamoci qui a quest'ultima questione di estrema attualità.
Chiunque abbia utilizzato con una certa continuità, negli ultimi anni, le autostrade italiane sa perfettamente due cose: che il livello delle manutenzioni è costantemente peggiorato, che i pedaggi sono cresciuti da un anno all'altro ben al di là del tasso d'inflazione.
Insomma, i "Signori del casello" - con i Benetton in prima fila - han trovato la gallina dalle uova d'oro. Tanti profitti e nessun rischio, il tutto garantito da convenzioni scandalose, frutto del Decreto Legge 3 ottobre 2006 n° 262, primo ministro Romano Prodi, ministro dell'Economia Tommaso Padoa Schioppa (viva l'Europa!), ministro delle Infrastrutture Antonio Di Pietro, ministro dei Trasporti Alessandro Bianchi (indipendente in quota Pdci!). Come dire, il centrosinistra al gran completo!
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Rivoluzione o decadenza?*
di Samir Amin
Pensieri sulla transizione tra i modi di produzione in occasione del Bicentenario di Marx
Introduzione
Karl Marx è un gigante del pensiero, non solo per il diciannovesimo secolo, ma ancora di più per comprendere il nostro tempo contemporaneo. Nessun altro tentativo di sviluppare una comprensione della società è stato tanto fertile, a condizione che i “marxisti” si muovano oltre la “marxologia” (semplicemente ripetendo ciò che Marx era in grado di scrivere in relazione al proprio tempo) e invece portino avanti il suo metodo in accordo con i nuovi sviluppi della storia. Lo stesso Marx ha continuamente sviluppato e rivisto le sue opinioni nel corso della sua vita.
Marx non ha mai ridotto il capitalismo a un nuovo modo di produzione. Considerò tutte le dimensioni della moderna società capitalista, capendo che la legge del valore non regola solo l’accumulazione capitalista, ma governa tutti gli aspetti della civiltà moderna. Questa visione unica gli ha permesso di offrire il primo approccio scientifico relativo alle relazioni sociali nel più ampio regno dell’antropologia. In questa prospettiva, ha incluso nelle sue analisi ciò che oggi viene chiamato “ecologia”, riscoperta un secolo dopo Marx. John Bellamy Foster, meglio di chiunque altro, ha abilmente sviluppato questa prima intuizione di Marx.
Io ho dato la priorità a un’altra intuizione di Marx, legata al futuro della globalizzazione. Dalla mia tesi di dottorato nel 1957 al mio ultimo libro, ho dedicato i miei sforzi allo sviluppo ineguale derivante da una formulazione globalizzata della legge dell’accumulazione. Ne ho tratto una spiegazione per le rivoluzioni nel nome del socialismo a partire dalle periferie del sistema globale. Il contributo di Paul Baran e Paul Sweezy, introducendo il concetto di surplus, è stato decisivo nel mio tentativo.
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