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L'autonomia del socialismo
di Michele Prospero
È stato da poco ripubblicato, per opera della casa editrice Bordeaux, il terzo dei saggi che inaugura il percorso marxista di Galvano Della Volpe, La libertà comunista (1946). Per riconsiderare il significato dell'iniziativa teorico-politica di Della Volpe, pubblichiamo, per gentile concessione della casa editrice e dell'autore, il quarto paragrafo dell'introduzione al testo di Michele Prospero
Colpisce il tono anche aspro della riflessione etico-politica che è posta al centro della Libertà comunista. L’affondo portato contro i tentativi di annacquare la specificità e l’autonomia (anche filosofica) del marxismo è radicale. Il bersaglio, che viene centrato su molteplici aspetti, è l’eclettismo contemporaneo cioè la disinvoltura concettuale mostrata da teorici che cercano di gettare un ponte tra liberalismo e socialismo precipitando così in un acritico tentativo di “conciliazione”. Prendere un po’ di questo filone di pensiero e recuperare un po’ di quell’altra corrente per tentare una loro fusione estrinseca, che in Italia è il ritrovato sintetico proposto dalle correnti di Croce, Calogero, potrebbe minare l’autonomia culturale di un progetto di pensiero comunista[1]. Ciò che sfugge all’eclettismo contemporaneo è la congiunzione necessaria tra critica dell’economia (particolare) e istanza etica (universale). Solo questo intreccio degli eterogenei renderebbe possibile una soluzione coerente e su questa carenza di mediazione poggia la contestazione del sincretismo di chi si dichiara “liberale nell’etica e nella politica, socialista nell’economia” (p. 41). Una tale attitudine conciliatoria postula il divorzio tra valori e interessi, tra idee e bisogni. Nel quadro di una polemica molto accesa, anche nel testo del 1946 della Volpe non negava la rilevanza dei profili liberali dello Stato moderno, ne coglieva però la ripresa e quindi la riformulazione, entro un universo concettuale nuovo come quello di Marx che li trasvalutava mutandone l’assetto problematico-critico. Entro questo arco tematico rimodulato il rapporto tra socialismo e liberalismo appariva a della Volpe “non come uno sviluppo graduale” ma come uno sviluppo che si accompagnava a una “frattura storica” (p. 15).
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Fredrich Engels, “La situazione della classe operaia in Inghilterra”
di Alessandro Visalli
Un giovane di ventiquattro anni, figlio di un industriale tedesco con una importante filiale Manchester, scrive nel 1844 e pubblica quasi subito un libro che resterà come esempio di inchiesta sul campo e di vivida descrizione degli orrori lasciati dal primo capitalismo industriale nella regione in cui questo si sviluppa. Un classico della scienza sociale che evita accuratamente, pur nella crudezza delle descrizioni, ogni intonazione moralistica per cercare di individuare, con la freddezza dell’anatomopatologo, le ragioni dell’inumano spettacolo che ci sottopone. La storia del libro è di occasione: il padre, che aveva una fabbrica in renania, cerca di allontanare il figlio dalle sue cattive compagnie (il circolo degli hegeliani di sinistra a Berlino) e lo manda ad occuparsi appunto della filiale di Manchester.
Contemporaneamente Karl Marx stava scrivendo i cosiddetti “Manoscritti economico-filosofici del 1844” e lo stesso Engels aveva scritto in quell’anno “Lineamenti di una critica dell’economia politica”, quattro anni dopo insieme e su incarico della Lega dei comunisti i due scriveranno “Il Manifesto del Partito Comunista”.
C’è una fondamentale differenza tra lo sguardo che il giovane filosofo getta sulla condizione di immenso degrado dei quartieri popolari delle città industriali inglesi e quello dei contemporanei: la borghesia dell’epoca, per tutti i primi tre decenni dell’ottocento si è interrogata su questo degrado esclusivamente sotto la lente interpretativa dei “poveri”. Nel 1834 vengono quindi emanate le nuove “Poor Law” contro le quali nell’ultima parte del libro Engels si scaglia con veemenza, ma nessuno aveva inquadrato il meccanismo produttivo, e la costruzione di spazio e tempo dominati dalla logica fredda e spietata della concorrenza e del capitale che la muove. Quella di Engels è, invece, una inchiesta che legge le condizioni igienico-abitative della classe operaia, nelle sue diverse articolazioni, come effetto dei processi fisici di urbanizzazione interamente guidati dal profitto, e ne mostra il meccanismo. I protagonisti del libro sono le città, quindi le macchine entro le fabbriche, l’uomo ne è un effetto.
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Unità del blocco sociale subalterno e spirito di scissione
di Renato Caputo
L’esigenza prioritaria di contrapporre un blocco sociale a quello dominante è solo apparentemente in contraddizione con lo spirito di scissione
Un celebre detto di Mao Tse Tung sostiene: “grande è la confusione sotto il cielo, dunque la situazione è [per noi] favorevole”. Tale massima, apparentemente paradossale, diviene pienamente condivisibile quando la confusione domina nel campo avversario, o comunque si afferma in uno Stato nazione dominato dal nemico di classe. In quest’ultimo caso, significa che l’ideologia dominante, strumento di egemonia del blocco sociale che detiene il potere, è in crisi e anche lo Stato, quale strumento del dominio di classe di un blocco sociale, è in crisi, non riesce a imporre la propria volontà di potenza e questo crea la possibilità di sviluppare un dualismo di potere che produce una situazione potenzialmente rivoluzionaria. Ben diversa è la situazione se la confusione domina nelle fila delle classi dominate e nell’opposizione di classe al dominio della borghesia. Ciò non solo impedisce di sfruttare la situazione favorevole, prodotta dalla grave crisi strutturale del modo di produzione capitalistico, ma impedisce alle classi subalterne e alle loro aspiranti avanguardie di mettere quantomeno in discussione l’egemonia e il dominio del blocco sociale borghese.
Dunque, è essenziale per i subalterni, gli oppressi, gli sfruttati, per uscire da tale condizione, cercare di contrastare in ogni modo la confusione nelle proprie fila. Tuttavia, sino a qui abbiamo detto cose ovvie, la questione più complessa che ci dobbiamo porre è se in questo determinato momento storico la confusione regni nel nostro campo a livello nazionale e internazionale. Evidentemente la risposta non può che essere in generale, purtroppo, affermativa.
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Sulla gig economy
intervista a Riccardo Staglianò
Le recenti mobilitazioni dei ciclofattorini in diverse città d’Italia hanno attirato l’attenzione dei media e della politica sulle problematiche della gig economy. Del tema Pandora ha parlato in diverse occasioni con articoli e interviste, inquadrandolo nella questione più generale della digitalizzazione e dei suoi rischi. Riccardo Staglianò, giornalista de La Repubblica, si è a lungo occupato di questi temi, che ha affrontato nel suo recente libro Lavoretti. Così la sharing economy ci rende tutti più poveri (da noi recensito su questo sito) e anche nel precedente Al posto tuo. Così web e robot ci stanno rubando il lavoro, entrambi editi da Einaudi. Abbiamo deciso di intervistarlo per approfondire il complesso di questioni che lega gig economy, sharing economy, automazione e digitalizzazione, polarizzazione sociale e concentrazione delle aziende del settore tecnologico. L’intervista è a cura di Giacomo Bottos, Raffaele Danna e Luca Picotti.
* * * *
Nel discorso pubblico, per parlare di alcune delle recenti trasformazioni economiche, si impiega spesso il termine “sharing economy” che, nell’immaginario collettivo, viene generalmente associato ad un insieme di significati positivi. In una seconda fase si è invece iniziato a parlare di “gig economy”, termine che viene generalmente usato con un’accezione critica, associato a lavori malpagati, scarsità di tutele e sfruttamento. Secondo lei esiste una reale distinzione tra “sharing economy” e “gig economy”? Insomma, esiste un “volto buono” e uno negativo delle trasformazioni che stiamo vivendo, o viceversa si tratta di processi complessivamente negativi, nei quali la retorica della condivisione nasconde una realtà diversa?
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Se si spera che la “difesa della democrazia” tocchi a Cia, Fbi, Ue…
di Redazione Contropiano
In fondo l'articolo di Michael J. Glennon
Spostarsi dal cortile di casa consente di guardare ai fenomeni con tasso di obbiettività decisamente superiore, specie quando i fenomeni sono perfettamente identici a quelli di casa nostra.
Michael J. Glennon, su Le Monde Diplomatique, svernicia senza pietà la “rivalutazione democratica” della Cia e dell’Fbi, negli Usa, che si è fin qui basata su un unico elemento: queste due servizi più o meno segreti sono entrati in conflitto con Donald Trump, a partire dall’indagine chiamata Russiagate. Un po’ come è avvenuto in Italia, con la magistratura e una parte dei “servizi”, tra Mani Pulite e gli scandali pubblico-privati di Berlusconi.
La debolezza e smemoratezza dei liberal statunitensi sono da questo punto di vista speculari ai deficit intellettuali della cosiddetta “sinistra” italiana, e il guardarle da lontano consente di far risaltare, senza troppa fatica, anche le illusioni degli “ingenui” che ci stanno intorno.
Il punto debole è evidente: incapaci di battere politicamente il mostro fuori dalle regole, emerso nonostante quelle regole, si spera che il vecchio orco antidemocratico – la Cia! – faccia il lavoro che i liberal non riescono a fare. Gli spioni incaricati di distruggere ogni parvenza di movimento o gruppo politico progressista improvvisamente rivalutati come “scudi della democrazia”. Nemmeno nel peggiore incubo…
La via giudiziaria sembra una scorciatoia, ma ha ovviamente le sue pesanti controindicazioni. In Italia (già dai tempi delle “leggi d’emergenza” contro la lotta armata) la magistratura è venuta un “ruolo politico” – scrivere le leggi al posto del Parlamento, decidere quali fenomeni contrastare e come, ecc – parecchio fuori dai limiti indicati dalla Costituzione.
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Appunti per un rinnovato assalto al cielo. VI
“Con due grami, miseri, semplici penny”
di Paolo Selmi
Uno sguardo al panorama bancario mondiale e a diseguaglianze più o meno ideologicamente nascoste
Continuiamo con i nostri appunti di viaggio. Riassumere in poche righe interi volumi dedicati alla storia della finanza mondiale sarebbe pura follia. Annotarsi qualche dato e trarne spunti di riflessione e approfondimento, in una prospettiva di superamento del modo capitalistico di produzione, non è solo cosa buona e giusta, ma doverosa. Occorre infatti, nell’opinione di chi scrive, uscire da quella logica “scacchistica” che qualcuno chiama, a torto o a ragione, “geopolitica”. In questo paragrafo cercherò di argomentare brevemente quella che non è solo una questione di metodo, ma anche di merito, pertanto molto più degna di approfondimento del trafiletto che le ho riservato. Ma di appunti, per l’appunto, stiam parlando.
Abbiamo delineato alcuni tratti fondamentali dei movimenti di truppe in atto sullo scacchiere mondiale. Abbiamo scelto di farlo con un taglio prevalentemente economico e di aperta critica al modo di produzione dominante a livello globale. Oggi, al contrario, è di moda presentare la situazione internazionale in un’ottica neutra, dove al posto del conflitto di classe domina la “geopolitica”: ogni parte in causa descrive soggettivamente i movimenti di nemici, avversari e concorrenti in relazione ai propri e da un punto di vista, si sarebbe detto un tempo, prettamente aderente al modo di produzione dominante. Limitatamente allo stesso, ne critica cause e conseguenze, adesione più o meno formale, piuttosto che infrazioni, a “regole del gioco”, norme scritte e non su codici di diritto internazionali divenuti sempre più carta straccia, individuando possibili traiettorie e prendendo le adeguate contromisure. Come risultato, ciascuna di queste letture, pur approfondita, dettagliata, argomentata, si muove entro i confini imposti, organicamente agli stessi, ovvero si differenzia da letture analoghe o apparentemente contrapposte soltanto perché – nella migliore delle ipotesi – anziché muovere il cavallo avrebbe mosso l’alfiere, oppure perché – nella peggiore – aderente ai neri o ai bianchi senza se e senza ma.
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La Cassazione contro gli operai
Critica alla sentenza sui cinque operai FCA di Pomigliano
di Andrea Vitale
“Non l’abbiamo mai nascosto. Il nostro terreno non è il terreno del diritto; è il terreno della rivoluzione. Il governo, da parte sua, ha infine abbandonato l’ipocrisia del terreno legale; si è posto sul terreno rivoluzionario; giacché anche il terreno controrivoluzionario è rivoluzionario”.
Così scriveva nel lontano 1848 il giovane Karl Marx. Siamo oggi di fronte a tutt’altra situazione di quella rivoluzionaria che nel ’48 sconvolgeva l’Europa, eppure questa frase è del tutto adeguata ad esprimere il giudizio sulla sporca faccenda che ha visto la Cassazione ribaltare la sentenza di appello e confermare il licenziamento dei 5 operai FCA di Pomigliano. Certamente non abbiamo a che fare con le titubanze e le indecisioni della borghesia tedesca né con la controrivoluzione prussiana, ma con una semplice e plateale denuncia della propria tremenda condizione fatta da un gruppo di operai e l’avallo che la magistratura fa della rappresaglia del padrone, il quale non può accettare nessuna critica e pretende il silenzio e la totale sottomissione degli operai che sfrutta. Nondimeno le parole di Marx risultano pregnanti in questo contesto.
“Non l’abbiamo mai nascosto. Il nostro terreno non è il terreno del diritto; è il terreno della rivoluzione”.
I licenziati di Pomigliano hanno sempre avuto presente questo concetto e non hanno mai avuto il timore di dichiararlo a gran voce. Lo hanno fatto quando hanno detto che loro non erano interessati alla lunga e spesso sterile trattativa sulla vite in più o in meno da avvitare sulla linea di montaggio. Questo livello di scontro, se assolutizzato come unico piano di azione degli operai, presuppone l’accettazione eterna della propria condizione di “prestatori di lavoro” sotto il comando del padrone. Un piano conflittuale che in particolare nella crisi rivela tutti i suoi limiti, quando, sotto il ricatto della disoccupazione e della concorrenza fra proletari, la forza contrattuale operaia viene drasticamente ridimensionata.
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I lati oscuri del web (e come possiamo ancora provare a salvarci)
di Luca Pantarotto
C’era una volta il futuro. Per buona parte del Novecento l’abbiamo sognato, inseguito e temuto, sulla cresta di un’onda tecnologica sempre più inarrestabile che sembrava porsi l’obiettivo di tradurre in realtà, nella seconda metà del secolo, ciò che i più audaci scrittori di fantascienza avevano immaginato nella prima. Negli anni ’80 e ’90 la mia generazione si è nutrita, a tutti i livelli dell’immaginario, di scenari futuristici in cui l’uomo si sarebbe invariabilmente trovato al centro di dinamiche di controllo o di conflitto legate a una crescita sfrenata del ruolo delle macchine nella nuova società, accompagnata di volta in volta da vari gradi di inquietudine, dall’ansia generica e sottile all’apocalisse imminente.
Un genere di storie che seguiva più o meno sempre la stessa curva: da una situazione iniziale di entusiasmo tecnocratico che portava l’umanità a delegare alle macchine funzioni e competenze sempre più estese, dall’amministrazione domestica al controllo degli armamenti nucleari, si scivolava verso un punto di non ritorno in cui le macchine stesse, ormai detentrici di intelligenza e capacità decisionali perfettamente autonome, si accorgevano di non aver più bisogno dell’uomo, apprestandosi quindi ad assoggettarlo, incorporarlo o sostituirlo. Finché qua e là iniziavano a formarsi nuclei di resistenza che, in formazioni via via più cospicue, sferravano l’attacco finale al centro del potere in nome del ritorno alla libertà e una società nuovamente antropocentrica.
Le implicazioni di un topos così fertile sono evidenti, e infatti negli anni si è costruita, intorno alla contrapposizione uomo-macchina, una vera e propria tecnomitologia coesa e perfettamente definita nelle sue caratteristiche. E poco importa che poi il futuro abbia preso un’altra direzione, e che oggi gli scenari catastrofici che per decenni hanno alimentato il nostro immaginario suonino più fantascientifici delle navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione.
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Dove porta il «né... né...»
di Leonardo Mazzei
A proposito di un articolo di Domenico Moro e Fabio Nobile
A sinistra non tutti hanno portato il cervello all'ammasso. Qualche giorno fa abbiamo segnalato, ad esempio, un intervento di Gianpasquale Santomassimo totalmente critico verso ogni ipotesi di union sacrée antifascista. Una prospettiva giustamente respinta anche in un recente articolo di Domenico Moro e Fabio Nobile. Purtroppo, però, il ragionamento di questi due compagni, sfociando nella più classica posizione del «né né», conduce nel vicolo cieco dell'assenza di una linea politica. E questo nel bel mezzo di un passaggio cruciale per il nostro Paese.
Il loro scritto vuol essere in realtà un contributo critico sulle vicende interne di Potere al Popolo, ma la parte che a noi qui interessa è quella che concerne il posizionamento proposto nell'attuale fase politica.
Moro e Nobile colgono bene la novità della situazione: «L’Italia presenta una situazione politica inedita: è l’unico Paese in cui non è al governo alcun partito afferente a uno dei due storici raggruppamenti europei, il Ppe e il Pse». L'unico Paese in cui «il bipartitismo tradizionale è collassato». Peccato che ad una descrizione così nitida di un quadro nuovo e dinamico, segua invece la grigia proposta di una linea politica centrista, quella che per semplificare definiamo del «né né».
Apriamo una parentesi per chiarire subito che anche il «né né» può essere talvolta legittimo. Ad esempio, durante i disgraziati anni del bipolarismo secondo-repubblicano (1994-2013, con uno stentato prolungamento nel quinquennio successivo), e nonostante i diversissimi scenari in esso prodottisi nel tempo, ogni seria posizione di classe non poteva che esprimersi in un simultaneo rifiuto tanto del "centrosinistra", quanto del "centrodestra".
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La debolezza teorica del dogmatismo ordoliberale tedesco
di Andrea Kalajzic
In Germania, il dibattito successivo allo scoppio della crisi debitoria nell’Eurozona ha portato alla luce una posizione rigidamente ortodossa, condivisa dalla Bundesbank e dal Ministero delle finanze tedesco, fortemente critica verso la Cancelleria e le istituzioni europee. L’illustrazione probabilmente più completa di questa posizione si trova in alcune pubblicazioni del più prestigioso tra gli economisti conservatori tedeschi, l’ex presidente dell’Ifo Institut for Economic Research di Monaco di Baviera, Hans-Werner Sinn.[1]
All’inizio del nuovo millennio, Sinn era tra coloro che si aspettavano una spinta alla crescita europea e alla convergenza tra le economie dei paesi aderenti alla moneta unica per effetto di una più efficiente allocazione dei capitali nell’Eurozona. Secondo Sinn, gli squilibri di parte corrente e i crescenti differenziali di inflazione osservati nell’area dell’euro durante gli anni precedenti lo scoppio della crisi andavano quindi interpretati come inevitabili manifestazioni temporanee di un processo di convergenza virtuoso tra le economie reali dei paesi ‘periferici’ e ‘centrali’ dell’Eurozona.[2]
La crisi ha però spinto Sinn a riconsiderare le sue previsioni ottimistiche. L’economista tedesco parte dalla constatazione che la crisi nell’Eurozona deve essere considerata come una crisi da indebitamento estero, la cui origine è di natura principalmente privata (famiglie e imprese finanziarie) piuttosto che pubblica. Pertanto, l’aumento dei deficit e dei debiti pubblici in rapporto al Pil osservato in Europa dopo il 2008 rappresenta una conseguenza e non la causa della crisi.
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La mano invisibile degli algoritmi
I dieci comandamenti della governance
di António Covas
È possibile che dopo tutta quest'abbuffata di caso e necessità, fatta così tanto di determinismo e di casualità, di così tanta arte, politica e filosofia, ci troveremmo ad essere ostaggi della governance algoritmica, o finiremmo per diventare i credenti del dataismo?
Ci troviamo nella piena digitalizzazione della società, delle persone e delle cose. D'ora in poi, ogni cosa è intelligente "in modo digitale": la casa, l'automobile, l'azienda, l'ufficio, la scuola, la strada, l'ospedale, ecc. Tutto acquisisce una vita propria, quel che è reale è virtuale, e quel che è virtuale è reale, e ogni cosa snocciola informazioni per tutto il tempo. È questo il futuro radioso che ci era stato promesso dall'economia dell'informazione, dall'analisi dei dati, dai Big Data, ovvero dalla religione del dataismo.
Dopo la mano divina, e dopo la mano invisibile del mercato, siamo arrivati alla mano seducente e benevola dei Big Data. L'economia dei Big Data è, se vuoi, la mano invisibile della libertà di circolazione dell'informazione. Più dati, sempre più dati, e saremo così sempre più vicini alla verità, in questo grande bazar che sono i processori di dati, l'universo degli algoritmi e del meta-algoritmi. Il razionale del dataismo consiste nel trovare una norma standard di comportamento e, a partire da essa, prevenire l'incertezza e la deviazione che viene sempre percepita dalla nostra imperfetta razionalità biologica. La grande ambizione dell'intelligenza razionale del dataismo è quella di sostituire la "nostra imperfezione", che dopo tutto è la nostra coscienza emozionale ed individuale e la nostra intersoggettività. In questo senso, con molta benevolenza, possiamo dire che gli algoritmi sono una sorta di fratelli più vecchi, se vogliamo, dei narratori autorizzati della nostra esistenza. Ed è meglio seguirli! In un oceano di informazioni, solo questi calcolatori universali, gli algoritmi, hanno la capacità analitica in grado di processare e trattare così tanti "dati irrilevanti" di natura infra-personale.
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Introduzione ai «Manoscritti economico-filosofici del 1844» di Karl Marx
di Costanzo Preve
Scritti fra l’aprile e l’agosto del 1844 a Parigi da un Marx ventiseienne, i Manoscritti economico-filosofici del 1844 sono un’opera non destinata alla pubblicazione, che Marx non ha mai sistematizzato ed organizzato come è d’uso quando un testo è destinato ad una pubblicazione a stampa. Essi presuppongono la lettura e lo studio del saggio dell’amico Engels Lineamenti di una critica dell’economia politica, pubblicato nel febbraio 1844. Si tratta essenzialmente di appunti di chiarimento ad uso personale, come è stato recentemente stabilito da un accurato esame filologico (cfr. Jürgen Rojahn, in “Passato e Presente”, 3, 1983). Pubblicati per la prima volta nel 1927 in URSS per opera di Rjazanov, essi non entrarono nel dibattito filosofico europeo prima del 1932, ed il primo intervento autorevole di quell’anno che ne segnala la grande importanza per la comprensione del pensiero globale di Marx è quello di Herbert Marcuse (cfr. H. Marcuse, Marxismo e rivoluzione. Studi 1929–1932, Einaudi, Torino 1975, pp. 61–116). La presa in considerazione dei Manoscritti è quindi del tutto estranea al processo di sistematizzazione e di coerentizzazione dottrinale del pensiero di Marx, che divenne appunto “marxismo” nel ventennio 1875–1895 per opera pressoché esclusiva di Engels e Kautsky. E questo non è un caso. Questo “marxismo”, costruito di fatto come una teoria del crollo della produzione capitalistica, non avrebbe saputo che farsene di una teoria dell’alienazione e neppure di una critica filosofica dell’economia. I Manoscritti hanno quindi letteralmente “dormito” per quasi un secolo. Si tratta di una sorte comune a molte altre opere filosofiche. L’Aristotele che conosciamo aveva “dormito” per tre secoli fino al primo secolo avanti Cristo, e Lucrezio, del tutto ignoto a Dante, dovette attendere il quindicesimo secolo per essere “scoperto” in Germania da un umanista italiano in “trasferta”.
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“I limiti del mercato. Da che parte oscilla il pendolo dell’economia?”
di Massimo Aprea
Recensione a: Paul De Grauwe, I limiti del mercato, da che parte oscilla il pendolo dell’economia? il Mulino, Bologna 2018, pp.192, 16 euro (scheda libro)
«La storia economica degli ultimi duecento anni è una storia fatta di movimenti ciclici. Movimenti che hanno accresciuto l’influenza dei mercati a spese dei governi e che poi hanno riportato il predominio dei governi a spese dei mercati».
Come aggrappata a un pendolo, l’umanità oscilla continuamente tra gli estremi di stato e mercato, ritenendo di volta in volta l’uno o l’altro più adatto per tutelare il proprio benessere. È questa l’immagine con cui nel suo nuovo libro I limiti del mercato, Paul De Grauwe, noto economista belga, interpreta gli sviluppi del capitalismo moderno.
Ma qual è il meccanismo che innesca un’inversione del pendolo dell’economia? La risposta a questa domanda costituisce il cuore dell’argomentazione del libro e ha a che fare con i limiti dello stato e del mercato. In estrema sintesi, lo stato, senza mercato, non è in grado di generare un livello sufficiente di prosperità materiale; il mercato, invece, senza le necessarie azioni correttive da parte dello stato, esclude dal grande benessere che è in grado di produrre un’ampia fetta della popolazione. In entrambi i casi il malcontento e la frustrazione si accumulano fino ad esplodere in un evento traumatico; a quel punto il pendolo dell’economia inverte la sua rotta e a procede verso l’estremo opposto. In queste oscillazioni del pendolo, dunque, i punti di svolta coincidono con momenti di grande sofferenza per un gran numero di individui. È per questo motivo che gli sforzi di politici ed economisti si devono concentrare sulla ricerca di quell’equilibrio magico tra stato e mercato che consentirebbe al pendolo, finalmente, di riposare.
Quello che è certo, infatti, secondo De Grauwe, è che l’eterno dibattito stato vs mercato è fuorviante e puramente ideologico: stato e mercato sono, in verità, due elementi coessenziali di un sistema economico che si proponga al contempo di generare prosperità e di fare in modo che sia condivisa. Due strumenti che devono lavorare insieme, ognuno ponendo un freno ai limiti dell’altro, per accrescere il benessere delle persone e consentirgli, in ultima analisi, di essere felici.
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I rischi della guerra economica Usa-Cina
di Vincenzo Comito
La guerra economica tra Stati Uniti e Cina è partita il 6 luglio. Potrebbe riguardare, tra dazi, controdazi e perdita di produzioni, qualcosa come mille miliardi di dollari e portare a una recessione mondiale
La guerra economica tra Stati Uniti e Cina, nell’ambito di una offensiva commerciale più vasta scatenata da Trump contro quasi tutto il resto del mondo, è dunque partita davvero, il 6 luglio, nonostante lo scetticismo e l’incredulità di molti.
Sull’argomento sono state scritte molte migliaia di pagine e sono state dette moltissime cose. Cercheremo quindi di concentrare la nostra attenzione, per la gran parte, su alcuni degli argomenti meno esplorati dai media.
Le motivazioni di Trump
Ci si è a lungo interrogati sulle ragioni di queste iniziative di Trump.
La spiegazione ufficiale fornita dal presidente è quella che sono presenti degli squilibri inaccettabili nella bilancia commerciale del Paese con la controparte asiatica, mentre per di più le imprese cinesi rubano con la frode o con contratti iniqui le tecnologie americane, mentre intanto le imprese Usa vengono bloccate nei loro tentativi di penetrazione del mercato cinese e mentre infine la Cina sostiene con grandi aiuti statali lo sviluppo delle nuove tecnologie da parte delle imprese locali.
Ma queste motivazioni non sembrano tenere conto, tra l’altro, del fatto che circa il 50% delle esportazioni cinesi negli Stati Uniti sono fatte da imprese statunitensi e che, più in generale, oggi le catene del valore dei singoli prodotti sono molto complesse e che spesso la loro produzione tocca oggi anche 10-20 Paesi.
Per altro verso e più in generale, come ci ricorda Paul Krugman (Krugman, 2018), Trump e soci fanno affermazioni sugli effetti delle loro politiche che non hanno alcun riscontro nella realtà: Trump inventa cose di sana pianta e i suoi consiglieri di solito raccontano trionfi economici immaginari.
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Il falso liberismo dell’ordoliberismo
di Cristina Re
In Occidente, dalla Seconda guerra mondiale e fino agli anni Settanta del secolo scorso, l’ideologia che ha vinto la battaglia all’interno della società civile diventando egemone è stata quella keynesiana. Dagli anni ’80 in poi è invece avvenuto un netto cambiamento con l’affermazione della egemonia neoliberista, sia pure con differenti configurazioni a seconda dei diversi contesti nazionali. Dapprima in Germania e poi in Europa è stata la variante tedesca “ordoliberista” a vincere il dibattito culturale, così da diffondersi attraverso gli “apparati ideologici di Stato”, diventando senso comune e creando i presupposti per un complesso sistema di controllo. Spesso questo avviene senza percezione da parte della maggioranza della popolazione, tant’è che vi è una grande confusione in merito al suo effettivo contenuto. Nelle prossime pagine, si cercherà di fare chiarezza su questo tema, ricostruendone le idee e il periodo storico nel quale si è affermato.
Il momento fondativo del neoliberismo è collocabile al convegno Walter Lippmann tenutosi a Parigi, nel 1938 e in cui parteciparono, tra gli altri, von Hayek, Röpke e von Rüstow (Dardot e Laval, 2013). Al convegno per la prima volta venne usato il termine “neoliberismo” (Davies, 2014) e questo rappresenta di fatto il primo tentativo di creazione di una vera e propria “Internazionale neoliberista”. Nove anni dopo, nel 1947, Hayek fondò la Mont Pelérin Society con l’obiettivo di darne seguito con un think tank che riunisse tutti gli intellettuali neoliberisti del mondo. La nuova associazione diventerà il baluardo del neoliberismo agendo nell’accademia, nei media e nel business allo scopo di inserire membri e simpatizzanti in ruoli chiave, sia politici che economici, e divenendo famosa grazie anche agli otto premi Nobel assegnati ai suoi membri (tra i quali Milton Friedman e lo stesso Hayek) (Miroski e Plehwe, 2009).
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La fine dell'”eccezionalismo” americano
di Redazione
I vertici a due sono sempre un po’ problematici da leggere. I protagonisti – in questo caso Trump e Putin – raccontano quel che a loro conviene far sapere, tacciono su tutto il resto. La stampa internazionale si muove assecondando gli interessi delle rispettive proprietà, e quindi gioca a rilasciare interpretazioni sulla falsariga del “a chi giova” oppure “chi vince, ci perde”.
I media mainstream – a cominciare dall’orrenda Repubblica – si sono concentrati sullo scontro Trump-Fbi, sugli strascichi del Russiagate e le presunte interferenze di Mosca nelle elezioni presidenziali Usa. Hanno insomma proseguito una sorta di campagna elettorale post-elettorale per conto dell’establishment Usa (democratici e repubblicani uniti, entrambi spiazzati dal “pazzo”).
Impossibile sapere o ricostruire, da quelle fonti, la mappa degli interessi economici e geopolitici in gioco, le implicazioni dirette e indirette, i cambiamenti nei rapporti di forza che in questi vertici vengono registrati e formalizzati.
Siamo perciò andati a cercare le analisi di due dei migliori interpreti delle dinamiche globali per consentire anche ai nostri lettori di orizzontarsi fuori dal blob della propaganda. Due punti di vista specialistici molto diversi e proprio per questo utili. Sul piano geopolitico riportiamo di seguito l’analisi di Alberto Negri, storico inviato di guerra de IlSole24Ore, ora battitore libero di grande indipendenza e chiarezza espositiva. E quello di Guido Salerno Aletta, editorialista di Milano Finanza, che privilegia naturalmente i dati dell’economia globale.
Dall’incrocio di queste analisi molto informate emergono alcuni “trend” che cerchiamo di tenere d’occhio da molto tempo:
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Lenin: l’imperialismo rende necessaria la rivoluzione
di Renato Caputo
Dalla distinzione fra guerra imperialista e guerra rivoluzionaria, alla critica agli Stati uniti d’Europa
Il nodo centrale su cui, secondo Lenin, è necessario fare chiarezza, per smascherare davanti alle masse popolari i social-sciovinisti – ovvero coloro che si definiscono socialisti per meglio occultare la propria adesione allo sciovinismo – è imparare a distinguere nettamente la sacrosanta lotta dei popoli per l’autodeterminazione nazionale, dal sedicente diritto dei socialisti di sostenere una guerra imperialista con la scusa della necessità della difesa della patria: “per spacciare la presente guerra – la Prima guerra mondiale – come una guerra nazionale i socialsciovinisti si richiamano all’autodeterminazione delle nazioni. Contro di loro vi è un’unica lotta giusta: bisogna dimostrare che la guerra in corso non si combatte per emancipare le nazioni, ma per stabilire quale dei grandi briganti debba opprimere più nazioni” [1].
D’altra parte Lenin è altrettanto duro con i social-pacifisti, ovvero coloro che si dicono rivoluzionari a parole, ma sono riformisti nei fatti, in quanto sono contrari a trasformare la guerra imperialista, in una guerra sociale rivoluzionaria, mediante cui abbattere l’imperialismo, quale causa principale delle guerre nel mondo contemporaneo. Perciò, a parere di Lenin, “giungere a negare la guerra, condotta realmente per liberare le nazioni, significa fornire la peggiore caricatura del marxismo” [2]. L’appello al disarmo e alla non violenza rischia di non essere altro che il tratto distintivo dell’impotenza propria del cavaliere della virtù o dell’anima bella inevitabilmente travolti dall’implacabile destino, ovvero dal necessario sviluppo del corso del mondo. In effetti, come mette in guardia Lenin: “solo dopo aver disarmato la borghesia il proletariato potrà buttare tra i ferri vecchi, senza tradire la sua funzione storica mondiale, tutte le armi, ed esso non mancherà di farlo, ma solo allora, e in nessun caso prima” [3].
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Appunti per un rinnovato assalto al cielo. V
"Timeo Danaos et dona ferentes": sulla politica imperialistica degli "aiuti"
di Paolo Selmi
“Все счастливые семьи похожи друг на друга, каждая несчастливая семья несчастлива по-своему” (“Tutte le famiglie felici si assomigliano l’una all’altra, ciascuna famiglia infelice lo è a suo modo”): così inizia Anna Karenina, così verrebbe da iniziare questo paragrafo su uno dei tasti più dolenti di questo capitalismo globalizzato, dilaniato dai ruggiti dei nuovi imperialismi e dai rigurgiti dei vecchi. Non c’è nulla di più infelice, di più ipocrita, di più falso, della cosiddetta “cooperazione internazionale”. Ognuno la rende infelice “по-своему”, “a suo modo”: l’Occidente, come alibi per la propria politica neocoloniale, e oggi la Cina, come copertura alla propria politica “di prosperità comune”. Del primo aspetto si è parlato molto, del secondo poco o niente. Colmeremo tra poco questa lacuna ma prima, giusto per capire di cosa si tratta, occorre fare un passo indietro.
Inutile a dirsi, Pechino interviene a gamba tesa su alcune precise, non casuali, situazioni debitorie consolidate, laddove l’imperialismo occidentale, in particolare statunitense, nella figura di quel mostro a due teste di nome FMI-BM (fondo monetario internazionale-banca mondiale) fino a oggi l’aveva fatta da padrone. Occorre quindi fissare alcuni punti cardine, onde riportare la nostra analisi entro un campo di esistenza definito da categorie certe, che non siano la semplice simpatia o antipatia per questo o quello schieramento. Parliamo quindi di dipendenza, meglio, di economia della dipendenza. Non possiamo comprendere le dinamiche del sottosviluppo se prima non affrontiamo la sua causa prima. Ad aiutarci, uno dei fondatori di questa teoria, Theotonio Dos Santos (1936-2018), recentemente scomparso. La sua fama diveniva mondiale nel 1970, con un breve saggio, “La struttura della dipendenza”1 , da cui citiamo i seguenti estratti.
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La crisi dell'estetica trascendentale occidentale
di Pierluigi Fagan
Kant, iniziava la sua indagine sulla ragione umana[1], premettendo l’analisi sulle forme della mente entro le quali si ambientano poi tutte le altre funzioni. Le chiamò -estetica-, dal greco àisthesis che significava “sensazione” e -trascendentale- ovvero che si danno prima ancora di farne esperienza, sono apriori, sono condizioni di possibilità per tutto il resto. L’ET quindi indagava proprio le forme a priori che permettono la collocazione mentale di quegli oggetti e fenomeni di cui poi facciamo esperienza sensibile. Queste forme, secondo il nostro, erano due: la spazio ed il tempo. Queste due forme sono nella nostra mente. Kant visse mezzo secolo prima di Darwin e quindi non poteva dedurre che queste forme fossero il portato dell’evoluzione, ma oggi sappiamo che sono presenti in noi perché ci danno la possibilità di entrare in relazione con ciò nel quale siamo immersi. Ai fini pratici, poco importa disquisire se queste forme esistono oggettivamente fuori di noi o meno, se esiste davvero lo spazio e proprio così come ci sembra che sia -sappiamo ad esempio, con la fisica quantistica, che dello spazio si danno altre forme oltre a quella che sperimentiamo sensibilmente- o se esiste il tempo, tema su cui molti fisici si appassionano in seguito ai portati della relatività einsteniana. Prendiamo atto che così funziona la nostra mente, “come se” davvero la realtà in cui siamo immersi rispondesse a queste forme che ci aiutano a percepirla per poi -in essa- orizzontarci ed agire.
Detto ciò sul piano generale ed impersonale, trasferiamoci al piano sociale ovvero storico e culturale. A priori le forme di spazio e tempo sono scenari del possibile, a posteriori queste forme pluri-possibili, hanno preso alcune inclinazioni discriminanti, alcune forme determinate dalla storia e dalla cultura che, cumulandosi, fanno la nostra mentalità. E’ quindi una corruzione del trascendentale puro, è un apriori in cui la forma pura si declina con quella acquisita nella storia.
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Putin, Trump, Deep State, Coppa del Mondo, Mattarella
di Fulvio Grimaldi
Brevemente, sugli splendidi (più per organizzazione, atmosfera, che per gioco) Mondiali 18 di Russia, riflessioni di uno spaparanzato al sole, irradiato da un incontro Putin-Trump che, riprendendo i toni positivamente alternativi del ciuffone di polenta nei suoi trascorsi elettorali e anche prima (rapporti con la Russia, Nato, messa in discussione della False Flag 11 settembre), incontrando quelli, da sempre saggi e corretti, di Putin, non ha potuto che trasformarsi in puntura di speranza per i giusti e onesti del mondo. Ma come i vaccini con i residui di metalli pesanti e altro, dal cui morso coatto ora pare voglia almeno parzialmente liberarci la ministra 5 Stelle, anche questa fialetta, al promesso bene, aggiunge un fondo rancido.
E qui le riflessioni escono dall’area di luce per disperdersi nel buio di un’ombra affollata dai ectoplasmi neri della mediacrazia uccidentale, dall’Huffington Post al manifesto, attraverso le sette montagne di Mordor popolate dai giornaloni e televisionone. Frustrata oltre ogni limite da un rapporto cazzate-cose buone del governo, che l’ha fatta sbroccare già solo per museruola ai biscazzieri, sindacato dei militari, riposo domenicale degli esercizi, possibile veto alle sanzioni alla Russia, freno al precariato, tagli alle borse gonfie d’oro sottratto, approccio culturale anziché mercantile alla Cultura, il Comandante della Forestale all’Ambiente, sabbia negli ingranaggi dello spostamento indotto di popoli, mazzate ai delocalizzatori (d’accordo, lo so, non ci basta, vorremmo tutto subito, ma la marcia delle donne su Versailles non è ancora partita, per ora le fanno fare la guerra ai maschi), l’élite, subiti questi graffi, ha scatenato i suoi media.
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Il punto di non ritorno
di Riccardo Achilli
La domanda centrale se vi sia un futuro per una sinistra autonoma ed influente è, in un orizzonte temporale ragionevole per poter fare previsioni (diciamo 5-10 anni), a parere di chi scrive, ha riposta negativa. Ho già scritto in relazione alle condizioni necessarie per riavviare sin da subito un percorso di ripartenza della sinistra in un recente articolo ("Sinistra: estinzione o rinascita?" su L'Interferenza) ma, diciamoci la verità, tali condizioni non sono realisticamente praticabili. I gruppuscoli dirigenti attuali, responsabili in massima misura della catastrofe, non hanno alcuna intenzione di mollare, se non celandosi dietro qualche uomo/donna di paglia manovrato/a alle spalle in un simulacro di rinnovamento. Anzi, il governo gialloverde fornisce a questi scellerati l’occasione di ricompattare le loro scarne truppe in una battaglia di sopravvivenza contro immaginifici pericoli razzisti e fascisti artatamente agitati e patologicamente interiorizzati in una sorta di coazione a ripetere ideologica da parte dei propri seguaci. E’ una acquisizione clinica il fatto che alcune delle peggiori psicosi, come ad esempio la paranoia, siano disturbi della funzione del “dare senso” alle immagini, ai simboli ed alle rappresentazioni (Hillmann ha scritto un saggio sulla paranoia molto utile per identificare alcuni sintomi indicativi del morbo mentale che affligge la sinistra radicaloide italiana).
Non essendovi alcun ricambio significativo di ceto politico, non vi sarà alcun ricambio di messaggio e di parole d’ordine e, di conseguenza, non vi sarà alcuna espansione rispetto ai residuali presidi sociali della sinistra (il Pd non fa parte della definizione di “sinistra”, ovviamente) consistenti in segmenti minoritari di ceto medio riflessivo e di militanza tradizionale. Nell’incapacità di dare senso alla fase storica, e quindi di immaginare un posizionamento ed una linea politica attualizzati al contesto reale e non a quello fantasmato, la sinistra terminerà la sua agonia (che dura sin dagli anni Novanta, con il tracollo dei riferimenti ideologici e culturali principali, nelle macerie del muro di Berlino) nella morte definitiva.
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Federico Caffè e l’«intelligente pragmatismo»*
di Fernando Vianello
In appendice “Intervista a Federico Caffè” di «Sinistra 77»
Introduzione.
«Intelligente pragmatismo» è un’espressione che, forse con scarso scrupolo filologico, ho estratto da un saggio di Federico Caffè (1) per impiegarla come definizione generale di un atteggiamento intellettuale che gli era proprio: l’atteggiamento di chi pensa, con Keynes, che «la teoria economica non fornisca un insieme di conclusioni definitive immediatamente applicabili alla politica economica», ma rappresenti una «tecnica di pensiero» (2) suscettibile di essere applicata di volta in volta alla soluzione di problemi concreti e di suggerire linee d’azione diverse in diversi momenti e contesti. E’ questo un aspetto della posizione di Keynes cui Caffè si rifà espressamente, sottolineando, in particolare, come dalla teoria keynesiana discendano indicazioni di politica economica «adattabili nel tempo e che Keynes stesso modificò al delinearsi della seconda guerra mondiale» (3), quando il problema non era più la deficienza, ma l’imminente eccesso di domanda (4).
L’intelligente pragmatismo è in realtà, credo di poter dire, il «keynesismo di Keynes»: un keynesismo che non si affida a regole automatiche, ma considera ciascuna situazione nella sua specificità, sceglie caso per caso i rimedi più adatti e li applica in modo flessibile. Sapendo che vi sono di solito più vie per raggiungere un obiettivo, e che la scelta fra esse è una questione non tanto di principio quanto di opportunità (5). E sapendo altresì che ogni intervento, nel risolvere certi problemi, è suscettibile di crearne altri, che vanno a loro volta affrontati e risolti con opportuni interventi (6).
2. La piena occupazione e il vincolo dei conti con l’estero.
Una tipica applicazione dell’intelligente pragmatismo degli economisti che Caffè si scelse come maestri - e di altri che ebbe per compagni, come Giorgio Fuà e Sergio Steve (7) - è rappresentata dal modo di trattare il vincolo dei conti con l’estero. Tale vincolo - imposto dalla necessità, o dall’opportunità, di non superare un certo disavanzo di parte corrente - è spesso assimilato a quello della piena occupazione: se il vincolo dei conti con l’estero non viene spontaneamente rispettato, si argomenta, bisogna intervenire con misure deflazionistiche.
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Per un bilancio critico dell’opera di Losurdo
di Renato Caputo
Grandezza e limiti storici della visione del mondo del più grande storico delle idee marxista contemporaneo
Domenico Losurdo è stato certamente il più importante storico delle idee marxista italiano contemporaneo. Premetto che ho iniziato a lavorare a questo articolo dieci giorni dopo la tragica notizia della sua morte, proprio in quanto, essendo stato un suo allievo e, volendo rimanere fedele alla sua lezione, non intendo limitarmi a un pur doveroso coccodrillo in cui, a ragione, si evidenziano essenzialmente gli importanti contributi dati da questo grande studioso e pensatore allo sviluppo della cultura e, in particolare, del marxismo. Cercherò, piuttosto di abbozzare un primo bilancio storico della sua poderosa opera. Evidentemente chi scrive non ha altra ambizione che di poter svolgere la necessaria, per quanto irriguardosa, esigenza del nano che prova ad arrampicarsi sulle spalle di un gigante. In altri termini, sfruttando il fatto di appartenere alla generazione successiva, mi arrischierò a guardare al di là del suo lascito, riconsiderandolo criticamente in una prospettiva storica.
Dopo diversi anni di militanza politica marxista-leninista, negli anni della sconfitta e del reflusso e passati i suoi quarant’anni, Losurdo ha iniziato a occuparsi principalmente della lotta di classe a livello delle idee per contrastare la controffensiva liberale al livello delle sovrastrutture. Quella di Losurdo è stata una sfida titanica intrapresa negli anni in cui con la Thatcher e Reagan l’ideologia dominante aveva riconquistato l’egemonia sul piano culturale, tanto da puntare a una restaurazione del pensiero liberale classico, scevro delle influenze e dei compromessi cui era stato costretto, da oltre un secolo, dall’affermarsi prima della democrazia moderna e poi del socialismo.
Losurdo ha intrapreso questa sua nuova sfida con un essenziale contributo alla lotta per l’interpretazione del Kant politico, nell’opera Autocensura e compromesso nel pensiero politico di Kant, uscita nel 1983 per la casa editrice Bibliopolis di Napoli e ristampata in una necessaria seconda edizione nel 2007.
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E se fossero gli Usa a uscire dalla Nato?
di Carlo dei Galli
All’incontro della Nato a Bruxelles del 12 luglio u.s. il presidente americano Donald Trump ha dato il solito spettacolo: «prende la parola, brucia i due minuti a sua disposizione e travolge gli alleati. Mischia gli argomenti, punta il dito contro le case tedesche colpevoli di vendere troppe auto negli Stati Uniti, fa capire di non volere che i progetti di difesa Ue tolgano commesse alle imprese Usa e che anzi il Vecchio Continente dovrebbe comprare il gas americano anziché quello russo. Poi passa alle spese militari e arriva al punto: chiede a tutti di spendere il 2% del Pil per la difesa entro il primo gennaio 2019, ben prima del 2024 concordato da anni: “Altrimenti faremo per conto nostro”. In sala cala il gelo, mentre una vocina misteriosa recapita alle agenzie di stampa tedesca e belga la notizia shock che in pochi secondo fa il giro del mondo: Trump ha minacciato di abbandonare la Nato se gli alleati non aumenteranno subito i contributi». Gli alleati subito se la fanno sotto e corrono ai ripari: che l’aumento delle spese militari al 2% resti fissato al 2024, però intanto noi ci mettiamo qualche soldino in più. Allora il Trump in conferenza stampa può fare anche il magnanimo: «si presenta sul podio affiancato da Mike Pompeo e John Bolton e annuncia: “Potrei lasciare la Nato, ma ora non ce n’è bisogno visto che ho ottenuto 33 miliardi in più dagli alleati [in realtà, come comunicato dal capo dell’Alleanza Stoltenberg, i miliardi saranno 41, ma erano – guarda un po’ – già preventivati] e la promessa che tutti accelereranno verso il 2%. Prima ero molto triste, ora sono molto felice”… E dall’aereo cinguetta: “Grazie Nato”» (così Alberto D’Argenio su “La Repubblica” del 13 luglio 2018).
Ma sarebbe mai possibile che gli Stati Uniti possano avere convenienza ad uscire dalla Nato, quell’alleanza nord-atlantica che avevano imposto all’Europa occidentale nel 1949 in funzione anti-sovietica? A monte c’è una revisione dell’orizzonte geopolitico di cui Trump si sta facendo paladino.
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Rosa Luxemburg. Coscienza, passione, azione
di Sebastiano Isaia
Il marxismo non è una dozzina di persone che si
distribuiscono a vicenda il diritto alla “competenza”,
e di fronte alle quali la massa dei pii musulmani
debba inchinarsi in cieca fede. Il marxismo è una
dottrina rivoluzionaria, che nulla aborre di più che
le formule valide una volta per tutte, e che mantiene
viva la sua forza nel clangore delle armi incrociate
dell’autocritica e nei fulmini e tuoni della storia.
Rosa Luxemburg
Lo spirito di Rosa Luxemburg, l’ideale socialista,
era una passione travolgente che travolgeva tutto;
una passione, allo stesso tempo, del cervello e del
cuore, che la divorava e la sollecitava a creare.
L’unica ambizione grande e pura di questa donna
impareggiabile, l’opera di tutta la sua vita, non fu
altro che preparare la rivoluzione che doveva lasciare
il passaggio franco al socialismo. Poter vivere la
rivoluzione e partecipare alle sue battaglie, era per
lei la suprema felicità.
Clara Zetkin
1. La militanza come coscienza di classe e passione rivoluzionaria
L’articolo di Maria Turchetto (1) sul libro di Rosa Luxemburg L’accumulazione del capitale (1912) ai miei occhi ha soprattutto il merito di ricordarci la figura politica e umana della grande rivoluzionaria polacca (naturalizzata tedesca) brutalmente assassinata nel 1919 dalla canaglia al servizio della controrivoluzione. «Operai! Operaie! Cose mostruose stanno avvenendo a Berlino da qualche giorno. […] Un mostruoso assassinio è stato commesso contro Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg. Non è vero che Karl Liebknecht sia stato abbattuto durante un tentativo di fuga. Testimoni obiettivi hanno stabilito all’obitorio che Karl Liebknecht è stato colpito a distanza ravvicinata e di fronte. Rosa Luxemburg è stata gettata a terra in modo bestiale da una banda di borghesi e quindi smembrata e trascinata via. E le truppe governative, che avrebbero dovuto arrestare e proteggere l’inerme prigioniera, non hanno impedito quest’azione vile e cannibalesca».
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