- Details
- Hits: 2143
Rosa Luxemburg. Coscienza, passione, azione
di Sebastiano Isaia
Il marxismo non è una dozzina di persone che si
distribuiscono a vicenda il diritto alla “competenza”,
e di fronte alle quali la massa dei pii musulmani
debba inchinarsi in cieca fede. Il marxismo è una
dottrina rivoluzionaria, che nulla aborre di più che
le formule valide una volta per tutte, e che mantiene
viva la sua forza nel clangore delle armi incrociate
dell’autocritica e nei fulmini e tuoni della storia.
Rosa Luxemburg
Lo spirito di Rosa Luxemburg, l’ideale socialista,
era una passione travolgente che travolgeva tutto;
una passione, allo stesso tempo, del cervello e del
cuore, che la divorava e la sollecitava a creare.
L’unica ambizione grande e pura di questa donna
impareggiabile, l’opera di tutta la sua vita, non fu
altro che preparare la rivoluzione che doveva lasciare
il passaggio franco al socialismo. Poter vivere la
rivoluzione e partecipare alle sue battaglie, era per
lei la suprema felicità.
Clara Zetkin
1. La militanza come coscienza di classe e passione rivoluzionaria
L’articolo di Maria Turchetto (1) sul libro di Rosa Luxemburg L’accumulazione del capitale (1912) ai miei occhi ha soprattutto il merito di ricordarci la figura politica e umana della grande rivoluzionaria polacca (naturalizzata tedesca) brutalmente assassinata nel 1919 dalla canaglia al servizio della controrivoluzione. «Operai! Operaie! Cose mostruose stanno avvenendo a Berlino da qualche giorno. […] Un mostruoso assassinio è stato commesso contro Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg. Non è vero che Karl Liebknecht sia stato abbattuto durante un tentativo di fuga. Testimoni obiettivi hanno stabilito all’obitorio che Karl Liebknecht è stato colpito a distanza ravvicinata e di fronte. Rosa Luxemburg è stata gettata a terra in modo bestiale da una banda di borghesi e quindi smembrata e trascinata via. E le truppe governative, che avrebbero dovuto arrestare e proteggere l’inerme prigioniera, non hanno impedito quest’azione vile e cannibalesca».
- Details
- Hits: 3021
Giuseppe Rensi, Contro il lavoro
di Benoit Bohy-Bunel
In Francia, le edizioni Allia rieditano il libro di Giuseppe Rensi, "Contro il lavoro" [che può essere liberamente letto e/o scaricato, in italiano, da qui], tradotto in italiano da Marie-José Tramuta, e con prefazione di Gianfranco Sanguinetti. Pubblicato nel 1923, lo stesso anno di "Storia e coscienza di classe" (Lukács), questo saggio propone una critica radicale ed originale del lavoro, la cui dimensione "morale" viene affermata in ogni pagina. Rensi, pensatore sovversivo che si era opposto alla destra neo-hegeliana dei suoi tempi, propone una filosofia scettica e post-leopardiana. Venne condannato in contumacia a 11 anni di prigione, mentre dirigeva la rivista "Lotta di Classe", e più tardi, nel 1927, venne estromesso dalla sua cattedra di filosofia morale all'Università di Genova. Nel 1903, mentre era esiliato in Svizzera, era stato il primo deputato socialista eletto in Ticino. Con questo suo appello contro il lavoro, può essere considerato al vertice delle avanguardie artistiche della sua epoca, e rimane un precursore dei situazionisti.
L'Antilogia del Lavoro
In maniera coerente, Rensi per prima cosa fa riferimento alla dualità del termine "giustizia", che si rende necessario allorché parliamo della questione del lavoro. La cosiddetta "giustizia" borghese, che si impone genealogicamente con la forza (espropriazioni), rimanda all'ingiustizia dello spossessamento e dell'indigenza: l'individuo che lavora viene spossessato dei suoi strumenti di lavoro, e del prodotto del suo lavoro. L'estorsione di un plus-lavoro, condizione del profitto borghese, aggiunge un'ingiustizia ancora più esplicita, cinicamente istituzionalizzata. Il pseudo-contratto di lavoro che lega un datore di lavoro al suo dipendente ratifica "giuridicamente" una situazione che è di fatto ingiusta, che viene imposta con la forza. Il "libero lavoratore", che dispone solo della sua forza lavoro, non lavora affatto in modo "libero", né perciò in modo "giusto", ma è costretto a vendersi, se non altro per poter sopravvivere.
- Details
- Hits: 2837
Industria italiana: qual è la causa del declino?
di Domenico Moro
Negli ultimi anni si sono formate due opinioni contrapposte sulle cause della decadenza economica e industriale italiana. Schematizzando drasticamente, una riconduce tali cause all’integrazione economica e valutaria europea (Uem), l’altra assolve quest’ultima, escludendo di conseguenza l’utilità di una uscita del nostro Paese dall’euro e dalla Ue. Secondo quest’ultima visione il declino italiano sarebbe imputabile esclusivamente alla mancanza di una politica industriale, collegata alla fragilità della struttura industriale italiana, caratterizzata da imprese nane, poco orientate all’export, scarsamente innovative e concentrate in settori produttivi maturi (agroalimentare, turismo, beni di lusso).
Il declino italiano, tempi e cifre
Il primo aspetto da chiarire è se e in quale misura il declino italiano, nel Pil e nella manifattura, si sia manifestato nel periodo precedente all’introduzione dell’euro nel 2002. La dinamica del Pil non denota una marcata tendenza al declino, almeno in confronto alla Germania e alla Ue, prima dell’euro (Fig.1). La crescita media annua dell’Italia tra 1995 e 2007 è analoga a quella della Germania (1,5% contro 1,6%), mentre è inferiore, ma non di molto, rispetto a quella della Ue tra 1995 e 2001 (1,7% contro 2,4%). La divergenza tra l’Italia, da una parte, e la Ue e soprattutto la Germania, dall’altra, inizia dopo l’introduzione dell’euro, accelera con lo scoppio della crisi nel 2007-2008, ma si approfondisce solamente a partire dal 2011. Ad ogni modo, tra 2007 e 2017, l’Italia decresce mediamente per anno dello 0,6%, mentre la Ue cresce dello 0,8% e la Germania dell’1,2%.
- Details
- Hits: 2925
Essenza e forma nell'introduzione alla fenomenologia hegeliana
di Stefano Garroni
1 - Nella Vorrede (prefazione) di un’opera filosofica, si crede erroneamente –così nota Hegel[1] - di poterne indicare l’essenza (intesa come lo scopo, che l’A. si è prefissato; il rapporto, in cui si trova la sua trattazione rispetto ad altri lavori, che hanno affrontato lo stesso argomento ed, in fine, il risultato a cui l’opera è pervenuta), contrapponendola, tale essenza, allo sviluppo, che la ricerca ha seguito per giungere ai suoi risultati. Ma ciò, avverte Hegel, non è confacente rispetto alla natura della cosa (cioè, l’essenza della filosofia) ed è, perfino, contrario allo scopo (dunque, la messa in chiaro di codesta essenza).
Richiamandosi, di fatto, anche ad un orientamento, che fu dello scetticismo antico, e continuando a riflettere sulla Vorrede di un’ opera filosofica, Hegel chiarisce che offrire un’informazione storica a proposito della tendenza e della posizione (che caratterizzano la filosofia in questione), del (suo) contenuto generale e dei (suoi) risultati, oppure prender le mosse da un insieme ordinato di asserzioni ed assicurazioni, assunte e proposte senz’altro circa il vero[2], “non rappresentano il modo adatto di esporre la verità filosofica.”
Insomma, ciò su cui Hegel vuol richiamare l’attenzione è che, partendo dall’essenza stessa della filosofia –che consiste nell’includere entro di sé il particolare-, si inferisce erroneamente che sia proprio nello scopo e nei risultati finali[3], che quell’essenza si mostra più chiaramente, relegando, invece, ai margini, perché inessenziale, “lo sviluppo dell’indagine”, che ha condotto a quello scopo e a quegli esiti.
Un analogo errore vien commesso anche riguardo la scienza (Hegel fa l’esempio della biologia), quando si crede che conoscere scientificamente equivalga a conoscere “parti separate dei corpi” –le quali, però, proprio perché così indagate, “risultano prive di vita” ed è chiaro che, fissa questa angolatura, la ricerca continua di una conoscenza più dettagliata del particolare non può far uscire dal limite di impostazione iniziale.[4]
- Details
- Hits: 2879
L’Anschluss della Germania dell’Est
Recensione di Salvatore Bravo
Anschluss-L’Annessione è un libro di Vladimiro Giacchè. Ci sono libri che svelano la verità in cui siamo gettati. Vladimiro Giacchè documenta la fine ingloriosa della Germania dell’Est, fine programmata e voluta dal monopolio della finanza. Archetipo del capitalismo in azione, attraverso l’esperienza della RDT si rende palese la logica intestinale-divoratrice del capitalismo assoluto. La tecnocrazia finanziaria ha la sua verità logica ed ontologica nella regressione biologica ad attività di assorbimento e nullificazione di ogni realtà ad essa dialettica. Dietro il paravento dell’algoritmo, dei linguaggi astratti si cela un primitivismo intestinale: si divora per trasformare in energia per il proprio intestino insaziabile. L’energia è il denaro. La verità ciò malgrado non può essere divorata, marginalizzata, vituperata, diffamata, resiste ed è innegabile. L’azione del capitalismo assoluto è talmente iperbolica da rendere, in realtà, più semplice di quanto appaia scoprire la verità. La Merkel nel suo “Non c’è alternativa” denuncia un certo disagio dinanzi al vero. La forza del capitale assoluto è la debolezza dell’opposizione, di un’alternativa credibile e voluta. Cominciamo con la prima verità: la RDT ha subito un’annessione veloce e degna di un’invasione manu militari. Quando cadde il muro di Berlino nessun tedesco dell’est voleva la fusione con l’ovest. Nessuno striscione, il 4 Novembre 1989 a Berlino, proclamava il desiderio dell’unione delle due Germanie. Il giornale Der Spiegel con un sondaggio, in quei giorni, rese pubblico che il 71% dei Tedeschi dell’Est voleva che la Rdt sopravvivesse alla caduta del muro; esigevano riforme democratiche, ma non la cancellazione dell’esperienza socialista
«Il 17 dicembre sono pubblicati i risultati di un sondaggio sui cittadini tedeschi orientali commissionato dal settimanale tedesco "Der Spiegel": il 71 per cento si pronuncia per il mantenimento della sovranità della RDT, il 27 per cento per uno Stato unico RFT1.»
- Details
- Hits: 3746
Pap e Sinistra: la questione vera e' rappresentata dai contenuti e dalle proposte
di Domenico Moro e Fabio Nobile
La discussione nella sinistra radicale continua spesso a concentrarsi più sui contenitori politici piuttosto che sui contenuti e il posizionamento di classe. In realtà, siamo convinti che le forme debbano essere dialetticamente connesse alla sostanza e quindi ai contenuti , la cui chiara definizione è centrale in vista della importantissima scadenza delle prossime elezioni europee. Bisogna fare uno sforzo di innovazione nell’analisi e nella proposta politica, perché molte cose, intorno a noi, sono cambiate. L’Italia presenta una situazione politica inedita: è l’unico Paese in cui non è al governo alcun partito afferente a uno dei due storici raggruppamenti europei, il Ppe e il Pse. Certamente il bipartitismo tradizionale, basato sull’alternanza centro-sinistra/centro-destra è in crisi in tutta l’Europa eurista, dove partiti di lunga trazione, come il partito socialista francese, non esistono più. Ma solo in Italia il bipartitismo tradizionale è collassato e per la prima volta sono al governo due partiti, il M5S e la Lega, entrambi euroscettici e fautori di politiche anti-immigrazione.
La situazione dell’area politica di sinistra radicale, a sinistra del Pd, non è mai stata così confusa, le posizioni sono molte e variegate, comprese tra due estremi autolesionistici e politicamente suicidi. Uno secondo cui è giusto appoggiare o comunque aprire una linea di credito al governo Lega-M5S, in funzione anti-Europa a egemonia tedesca e/o anti-capitale transnazionale, e un altro secondo cui si sia ormai alle soglie del fascismo e che quindi bisogna allearsi con tutti quelli che ci stanno, magari anche con il Pd o quantomeno con personaggi che vi erano fino a ieri. La cosa bizzarra è che il modello del comitato di liberazione nazionale pare essere il modello politico di riferimento degli impropriamente detti sovranisti e degli europeisti “a ogni costo”.
Purtroppo, il dibattito non è sempre basato sull’analisi della situazione concreta, cui si spesso si sostituisce l’invettiva con accuse reciproche, che divaricano le posizioni, disgregando ancora di più l’area della sinistra.
- Details
- Hits: 2197
Lotta di liberazione nazionale e lotta antifascista
La linea Schlageter
di Redazione
Il terremoto elettorale del 4 marzo, la nascita il 1 giugno del governo "populista" M5s-Lega, i sondaggi che danno la Lega di Salvini in costante ascesa hanno spinto l'élite dominante a scatenare una aggressiva campagna di terrorizzazione dell'opinione pubblica. Il mantra è presto detto: il populisti, leghisti anzitutto, sarebbero il "nuovo fascismo avanzante", la "democrazia" e lo Stato di diritto sarebbero dunque a rischio. A sinistra si va dietro come beoti a questa narrazione.
La gran parte della sinistra rosè ha infatti già deciso di rispondere alla chiamata alle armi arruolandosi nella santa alleanza guidata dalla grande borghesia globalista. L'estrema sinistra non lo farà ma ha deciso che il "governo fascio-leghista" è il nemico principale e va rovesciato. Due linee diverse che producono il medesimo risultato: il suicidio. E chi non condivide questa pulsione di morte è condannato come "rossobruno".
Ammesso ma non concesso che sia vero che il fascismo stia avanzando in Italia sorge il problema di quale sia la politica giusta da seguire per fermarlo.
Per rispondere a questa domanda presentiamo questo breve saggio.
Esso parla della esplosiva situazione creatasi in Germania dopo la Grande Guerra, in particolare, siamo nel 1923, con l' occupazione militare franco-belga della Ruhr, la regione forse più ricca e industriosa della Germania. Il pretesto dell'invasione era che i tedeschi non pagavano come dovuto i loro enormi debiti di guerra. Contro questa invasione ci fu un moto di rivolta del popolo tedesco. L'estrema destra nazionalista si gettò nella mischia tentando di occupare la prima linea del movimento di indignazione nazionale e popolare. Nel movimento comunista si confrontarono due linee: la prima, quella estremistica, non voleva partecipare al movimento nazionale per liberare la Ruhr occupata, la seconda riteneva al contrario che i comunisti sarebbero dovuti diventare i campioni della battaglia, ciò anche per non lasciare quel movimento popolare in mano al nascente fascismo tedesco.
- Details
- Hits: 2211
Viaggio sentimentale intorno al nulla
di Damiano Palano
Rileggere "Il desiderio di essere come Tutti" di Francesco Piccolo quattro anni dopo il Premio Strega (e dopo la fine "renzismo")
Sono passati solo quattro anni da quando Francesco Piccolo, con il suo romanzo-saggio "Il desiderio di essere come tutti", vinceva il Premio Strega, eppure sembra passato un secolo. Quel libro venne infatti considerato - e fu effettivamente - una sorta di manifesto intellettuale del "renzismo". La sua violenta polemica contro la "purezza" rivendicata dalla "sinistra" era (o quantomeno fu letta) come la legittimazione di una leadership che, lasciandosi alle spalle tutte le memorie del passato, era disposta a sporcarsi le mani senza vincoli moralistici e ad abbandonare tutti gli orpelli di un immaginario obsoleto. Oggi che il "renzismo" è tramontato, è quasi commovente ascoltare l'appello ai "valori di sinistra" da parte di coloro che esaltarono la brutale satira della "purezza" proposta da Piccolo. Ma proprio perché ormai quella fase si è conclusa, si può rileggere "Il desiderio di essere come tutti" - che in modo piuttosto sconcertante si volle allora insignire del più prestigioso dei premi letterari italiani - come un documento storico.
In questa chiave, "Maelstrom" ripropone la riflessione dedicata al romanzo, pubblicata allora anche su Tysm Magazine, con il titolo "Viaggio sentimentale intorno al nulla: Francesco Piccolo".
* * * *
In un tempo ormai lontano, che nel ricordo si tinge talvolta dei colori della nostalgia, esisteva l’«intellettuale di sinistra». Non si trattava soltanto di un’etichetta volta a contrassegnare una componente del mondo culturale italiano, anche perché non esistevano gruppi speculari sul versante di destra oppure al centro dello schieramento politico (al massimo c’erano talvolta intellettuali «irregolari», che non avevano rapporti organici e stabili con formazioni partitiche). E non si trattava neppure di un’etichetta destinata a indicare studiosi votati a fornire al movimento operaio – mediante la ricerca teorica – gli strumenti dell’azione politica.
- Details
- Hits: 2102
Mini-Bot della Lega? Meglio i Titoli di Sconto Fiscale
di Enrico Grazzini
L’enorme debito dello stato italiano – pari a circa 2.300 miliardi, ovvero al 132% del Prodotto Interno Lordo – è un macigno sulla strada di qualsiasi governo. Il problema del debito pubblico è aggravato dal fatto che questo è contratto in una “moneta straniera” che lo stato non controlla: cioè l’euro. E che lo stato italiano è costretto a contrarre nuovi debiti solo per pagare gli interessi sul debito, senza riuscire a rientrare dal debito stesso. E’ un circolo vizioso che dura da qualche decennio e che è difficile rompere. Non a caso il debito pubblico continua costantemente a crescere. E Il peso del debito impedisce all’economia di svilupparsi per ripagare il debito stesso.
Come risolvere il problema? Le soluzioni non sono semplici ma probabilmente esistono. In primo luogo la proposta è di rivitalizzare l’economia emettendo dei titoli con valore fiscale che funzionino come moneta complementare all’euro, e che quindi ridiano ossigeno e liquidità all’economia reale rilanciando i redditi delle famiglie e delle imprese e gli investimenti pubblici e privati.
In questo articolo esamineremo in particolare due progetti di moneta fiscale: quello dei mini-bot lanciato dalla Lega di Matteo Salvini, e quello dei Titoli di Sconto Fiscale. E confrontando le due proposte, per alcuni aspetti simili, cercherò di dimostrare che il progetto di emissione di Titoli di Sconto Fiscale è più efficace di quello dei mini-bot perché fa crescere notevolmente il PIL senza produrre nuovo debito pubblico, anzi, generando surplus.
In via preliminare è necessario sottolineare che ci sono due maniere di ridurre il rapporto debito pubblico/PIL: la prima è di diminuire il debito; la seconda è di far crescere il PIL. La prima maniera è dolorosa e complessa perché comporta l’aumento delle tasse e/o la riduzione della spesa pubblica e/o la cessione del patrimonio pubblico. La seconda maniera – ovvero la crescita del PIL – è certamente molto più felice e positiva perché comporta lo sviluppo dell’economia e la fuoriuscita dall’austerità e dalla crisi.
- Details
- Hits: 2298
Scacco matto agli stregoni della notizia
La parola a Marcello Foa
di Andrea Muratore
Il mondo contemporaneo è caratterizzato da un dibattito acceso sul ruolo e il futuro dell’informazione: informazione vista sempre come una componente strumentale della modernità, dato che diatribe come quella accesasi sulle cosiddette fake news erano essenzialmente incentrate sulle loro conseguenze a fini elettorali. L’informazione è, in ogni caso, un campo di battaglia dove ogni contendente è interessato a mettere in gioco le sue strategie più raffinate; un ruolo molto spesso sottaciuto è quello giocato, in questo contesto, dagli spin doctor, gli esperti di comunicazione legati al potere politico che, muovendosi nella linea d’ombra tra la comunicazione istituzionale e quella personale dei leader, esercitano un peso determinante nell’orientamento dell’opinione pubblica.
E proprio dell’arma impropria dello spin, delle sue determinanti sociologiche e psicologiche e delle sue importanti conseguenze politiche tratta un testo fondamentale per comprendere l’attualità: si tratta del saggio magistrale di Marcello Foa, Gli stregoni della notizia – Atto secondo, edito da Guerini, versione aggiornata pubblicata nel 2018 di un precedente lavoro di Foa del 2006. Foa, direttore del gruppo editoriale del Corriere del Ticino e titolare del blog indipendente Il cuore del mondo sul sito de Il Giornale, ha alle spalle una lunga carriera giornalistica e nel suo lavoro mette tutte le sue competenze al servizio di un obiettivo fondamentale: svelare i doppi giochi della comunicazione internazionale e snocciolare lo spin in tutte le sue componenti, partendo da esempi storici ben definiti.
Foa ha il merito, infatti, di unire la concretezza della sua analisi a una rigorosa presentazione della storia del fenomeno della manipolazione mediatica al servizio del potere politico-economico. Dagli antesignani degli spin doctor, tra cui spicca il vero e proprio “padre” della propaganda, Edward Bernays, si giunge sino alla vittoria degli “stregoni della notizia” degli Anni Ottanta, ai tempi dell’ascesa di Ronald Reagan e Margaret Thatcher sulle due sponde dell’Atlantico.
- Details
- Hits: 3920
Panafricanismo e comunismo
Selim Nadi intervista Hakim Adi
Parallelamente alla storia dominante dei partiti comunisti europei, incentrata sulla classe operaia metropolitana, è possibile rintracciare la traiettoria sotterranea di quei militanti comunisti e panafricani, minoritari nei loro partiti, ma sostenuti da Mosca nel periodo tra le due guerre. Si tratta di un epoca nella quale i giovani partiti comunisti sono dominati, per quanto riguarda la metropoli, da Bianchi e, nelle colonie, da coloni. Al fine di combattere l’opportunismo e lo sciovinismo, più o meno espliciti, di questi militanti, l’Internazionale comunista procedette alla strutturazione di una serie di organizzazioni transnazionali, incaricate di coordinare l’attività rivoluzionaria circa la «questione nera»: Sudafrica, colonie dell’Africa nera, segregazione negli Stati Uniti, ecc. Hakim Adi racconta in questa intervista una storia inedita, ovvero quella di un originale incontro tra comunismo, nazionalismo nero e panafricanismo.
* * * *
Come definiresti il panafricanismo?
Il panafricanismo può essere considerato, al contempo, come un’ideologia e come un movimento sfociante dalle lotte comuni degli afro-discendenti, tanto in Africa quanto nella diaspora africana, contro lo schiavismo, il colonialismo così come contro il razzismo anti-africano e le diverse forme di eurocentrismo che lo accompagnano. I termini «panafricano» e «panafricanismo» non sono emersi fino alla fine del XIX e l’inizio del XX secolo, ma era già presente una forma embrionale di panafricanismo nel XVIII secolo, in organizzazioni abolizioniste come la British-based Sons of Africa, gestita da ex-schiavi africani quali Olaudah Equiano e Ottobah Cugoano, che riconoscevano la necessità per gli africani di unirsi al fine di difendere interessi comuni.
- Details
- Hits: 2918
Appunti per un rinnovato assalto al cielo. IV
Hong Kong, la porta della Cina… al mondo offshore
di Paolo Selmi
Quando oltre vent’anni fa Hong Kong tornò a esser parte della Repubblica Popolare Cinese, sia pur sotto gli slogan “Un Paese, due sistemi (yi guo liang zhi 一国两制 ) e “I cittadini di Hong Kong governeranno Hong Kong con un alto grado di autonomia” (gangren zhi gang, gaodu zizhi 港人治港,高度自治), ricevendo quindi ampie assicurazioni circa la propria autonomia amministrativa, la propria moneta, persino la propria squadra olimpionica, mi pare ancora di sentire qualche Cassandra che invitava a non fidarsi, che la pecorella cantonese sarebbe stata sbranata dalla tigre mandarina, che profetizzava cosacchi con gli occhi a mandorla, ma con sempre la stessa, maledetta, stella rossa in fronte, abbeverare i propri cavalli lungo i putridi acquitrini della costa cantonese mentre appiccavano fuochi con obbligazioni, divenute carta straccia, e pizze di film reazionari di Jackie Chan, Chow Yun-fat e Jet Li, insieme ovviamente a qualche bambino (sennò che comunisti erano?). D’altronde, cosa potevamo pretendere da chi chiamava D’Alema e soci “comunisti”?
Tuttavia, mentre noi ci dilettavamo rivangando vecchi ricordi di mondi scomparsi, da Hong Kong partivano le prime ambascie di mercanti nelle vicine province, in particolare nella ZES (jingji te qu 经济特区 , o Zona Economica Speciale) di Shenzhen, con portafogli ordini pieni di commesse da parte delle nostre ditte, che avevano appena scoperto la gallina dalle uova d’oro ma che, per problemi linguistici, burocratici, economici, non riuscivano a spennare da soli. Il millennio finiva e cominciava con questi trader, intermediari, faccendieri, che triangolavano fatture, emettevano polizze di carico, anticipavano soldi per i loro “cugini”, tanto acerbi e alle prime armi in questi discorsi di ordini, commesse, profitti, conti all’estero e penali, quanto senza peli sullo stomaco nella repressione schiavistica dei loro stessi connazionali su tagliacuci e stampi di plastica puzzolente.
- Details
- Hits: 2091
Il cigno nero
di Redazione
«Mi dicono tu vuoi uscire dall'euro? Badate che potremmo trovarci in situazioni in cui sono altri a decidere. La mia posizione è di essere pronti a ogni evenienza. (...) Una delle mie case, Banca d’Italia mi ha insegnato a essere pronti non ad affrontare la normalità ma il cigno nero, lo choc straordinario».
Queste parole di buon senso pronunciate ieri da Paolo Savona alle Commissioni riunite di Camera e Senato, hanno scatenato un putiferio. Un coro salmodiante di economisti e politici strillano e seminano il panico. Il colmo è stato raggiunto questa mattina dal deputato piddino Gianfraco Librandi, che sta «valutando l’ipotesi di depositare alla Procura della Repubblica un esposto per verificare se le allusive affermazioni del ministro Paolo Savona costituiscano procurato allarme ai sensi dell’art. 658 del codice penale». Il segno che l'élite eurista, previa campagna di allarmismo e satanizzazione del governo, è pronta a "scatenenare l'inferno".
Sorvoliamo (ci torneremo) sulle specifiche proposte di Savona per far fronte "ad ogni evenienza" — in particolare se la Bce possa davvero "svolgere le funzioni di lender of last resort" (come ogni vera Banca centrale fungere da prestatore di ultima istanza) nel caso di un shock finanziario che farebbe esplodere una crisi di debito.
Il putiferio contro Savona riconferma tre cose in un colpo solo. Primo: mentre all'estero, soprattutto i Germania, si discute senza tabù del "Piano B", in Italia non possiamo farlo, segno evidente che non siamo un Paese sovrano. Secondo: che l'élite nostrana si faccia garante di questo stato di sudditanza mostra fino a che punto è asservita a poteri oligarchici esterni e sia opposta all'interesse nazionale. Terzo: poteri eurocratici ed élite nostrana, saldi nella loro alleanza, si preparano a scatenare l'inferno contro il governo giallo-verde.
Qui sotto l'intervento di Savona, pubblicato in anteprima ieri da SCENARI ECONOMICI.
- Details
- Hits: 2218
I buoni e i cattivi (e i migranti nel mezzo)
di Norberto Fragiacomo
Riceviamo e volentieri pubblichiamo questa interessante riflessione di Norberto Fragiacomo, di Risorgimento Socialista, pur non condividendo alcuni passaggi
Il manicheismo dell’entertainment sistemico contemporaneo (informazione+politica irreggimentata) taglia con l’accetta, fra le altre, la delicata questione dei migranti: da una parte i «cattivi» che, animati da pessime intenzioni, vorrebbero chiudere ogni pertugio, dall’altra i «buoni» e accoglienti, che propugnano il c.d. diritto di migrare; sullo sfondo masse di diseredati africani ed asiatici che, oppressi da indigenza e privazioni (e sollecitati dalle paterne esortazioni di presunti filantropi, ma questo appartiene al non detto), si spostano verso il continente «bianco» a rischio della propria vita.
E’ una storia veridica quella che ci raccontano? Prima di stabilirlo tocca esaminare la situazione.
Ispezioniamo anzitutto il campo dei cattivi, ove han piantato le tende i caporioni della destra «razzista, sovranista, populista e xenofoba», che vanno da Orban a un ministro bavarese accostabile addirittura all’AfD, passando per l’eterna perdente Marine Le Pen. In Italia il loro campione è Matteo Salvini, un razzista impenitente che, essendo il vero dominus del Governo Conte – così ci ripetono quotidianamente – trascina con sé pure i 5Stelle (incasellati nell’estrema destra anche se le loro prime proposte di governo profumano di diritti sociali, dopo 30 anni di restaurazione liberista: vabbé, è un dettaglio, al pari delle accuse di «comunismo» seguite al varo del Decreto Dignità).
Cos’ha promesso lo stregone leghista al suo elettorato (in costante crescita, malgrado Repubblica)? Che gli immigrati irregolari verranno espulsi e che non ne verranno accolti di nuovi; che prima di pensare agli ultimi arrivati l’esecutivo si occuperà dei tanti italiani in difficoltà.
- Details
- Hits: 2764
A chi giova il populismo di sinistra?
di Renato Caputo
Le ragioni degli insuccessi delle principali forze populiste di sinistra e i limiti strutturali di una politica populista declinata a sinistra
Una volta stabilito il significato scientifico-concettuale del termine sinistra – come proprio di chi nella lotta di classe si schiera con le classi subalterne di contro alle classi dominanti – appare evidente che un populismo il quale, in nome del superamento di tale contraddizione fondamentale giudica inessenziale l’opposizione fra destra e sinistra, giova certamente ai ceti sociali privilegiati che fanno di tutto per non rendere evidente la necessità di tale conflitto, per continuare a portarlo avanti in modo unilaterale dall’alto. Discorso analogo vale per il populismo che intende rideclinare la contraddizione sociale fondamentale come contrapposizione fra ci sta in alto e chi in basso, intendendo con i primi i politici, la “casta” e con il secondo il popolo e i suoi rappresentanti, ovvero la società civile.
Così i rappresentanti dei populisti anti-casta non solo rilanciano il mito reazionario dell’uomo qualunque, ma presentano un ceto politico e amministrativo che non solo non rappresenta affatto gli interessi dei subalterni, ma che è costituito principalmente da esponenti della media borghesia delle professioni, in primo luogo da avvocati. Del resto l’opposizione fra un potere politico, in quanto tale oppressivo, e una società civile – ovvero la sfera economica in cui, nella società capitalista, predomina l’interesse particolare e la concorrenza – è forse la più classica delle rappresentazioni liberali, ovvero della tradizione politica propria della classe dominante nella società borghese. Ecco che la contrapposizione fra alto e basso diviene l’opposizione fra la produttiva e onesta società civile economica – che intende autorappresentarsi sul piano politico – e il parassitario ceto politico tradizionale, di cui per altro sono espressione parte significativa dei principali esponenti del populismo di destra. In tal modo si vorrebbe eliminare qualsiasi autonomia del politico rispetto agli interessi economici dominanti.
- Details
- Hits: 2401
La prova del budino
Il governo giallo-verde e la classe lavoratrice
di Claudio Bellotti
Un vecchio e noto proverbio inglese dice che la prova del budino è mangiarlo. Calza perfettamente anche per l’esperienza che milioni di persone si apprestano a fare del governo giallo-verde.
Per capirne le prospettive non possiamo accontentarci di giudicare gli avvenimenti a partire dalle parole che rivestono i fatti e le azioni dei diversi partiti. Chi, come gran parte dell’intellettualità progressista di area Pd, pensa di poter “smascherare” o addirittura mettere in crisi questo governo denunciando le incoerenze verbali di Salvini o Di Maio perde il suo tempo.
Il voto del 4 marzo
È necessario innanzitutto ribadire che il voto del 4 marzo è stato un voto segnato profondamente dalla condizione sociale. In un certo senso è stato un voto di classe, espresso però in modo passivo, ossia scegliendo (passivamente, appunto) tra gli “strumenti”, i partiti presenti sulla scheda, quelli che meglio si prestavano allo scopo.
Milioni di lavoratori, giovani, precari, poveri, disoccupati hanno detto in modo chiaro e inequivocabile che i partiti che avevano governato fino ad allora non hanno più il diritto di comandare e devono sparire. Pd, Forza Italia e rispettivi alleati sono stati frantumati dal voto quasi unanime di coloro che hanno pagato più pesantemente gli effetti della crisi economica.
È stata la condizione sociale a generare questo risultato: chi ha votato M5S e, in parte, persino la Lega, ha espresso un segnale chiaro: meno precarietà, salari e pensioni decenti, meno diseguaglianze sociali, sostegno a chi non ha lavoro. È stata una protesta rabbiosa e sacrosanta contro le politiche condotte per decenni. Tuttavia questo contenuto sociale del voto si è potuto esprimere solo in una forma politicamente e ideologicamente confusa, mescolando aspetti progressisti con altri pesantemente reazionari. E come poteva essere altrimenti?
- Details
- Hits: 3633
Ma è vero o è bello?
di Walter Siti
[Nasce L’età del ferro, una nuova rivista (cartacea) diretta da Alfonso Berardinelli, Giorgio Manacorda e Walter Siti, pubblicata da Castelvecchi e disponibile da luglio in libreria. La presentiamo pubblicando il saggio di Siti, Ma è vero o è bello?, sugli attuali rapporti tra giornalismo e letteratura]
L’afro-americana Janet Cooke era una giovane di belle speranze nel 1980, quando sentì parlare di un ragazzino, Jimmy, dipendente dall’eroina a otto anni; colpita, ne accennò alla redazione del «Washington Post» dove lavorava, e il capo entusiasta le ordinò di farci sopra un articolo. Un’occasione ottima per mettersi in luce e fare carriera, ma per quanto setacciasse i quartieri degradati della città non riuscì a trovare il ragazzino; quando il capo le confermò che poteva tenere segrete le sue fonti, decise di inventarsi il caso – scrisse un pezzo intitolato Jimmy’s World, così efficace che nel 1981 le fu assegnato il premio Pulitzer per il giornalismo. Senonché nacquero dubbi, ci furono una denuncia e un’inchiesta, si scoprì che la Cooke aveva anche mentito sul proprio curriculum al momento dell’assunzione, alla fine la poveretta ammise che il suo Jimmy era un bambino immaginario. Restituì il Pulitzer, perse il posto al giornale, l’episodio ebbe grande risonanza e fu definito “il Vietnam del giornalismo”; García Márquez, nel leggere la notizia, commentò scherzosamente che certo era ingiusto che Janet avesse vinto il Pultizer per il giornalismo, ma sarebbe stato giusto che le fosse attribuito il Nobel per la letteratura (letteratura non buonissima, a essere sinceri, l’articolo gronda di stereotipi dickensiani sull’infanzia offesa).
La letteratura è una fake news? Secolare problema, il rapporto della letteratura con la verità, fissato in Occidente dalla distinzione aristotelica tra storico e poeta: lo storico racconta ciò che è accaduto, il poeta racconta ciò che potrebbe accadere. Il nostro Manzoni, nel suo bel saggio sul romanzo storico, resta su questo binario parlando di “vero positivo” e “vero poetico”. Nel Settecento, il secolo del giornalismo, alla storia si sostituisce la cronaca; Charles Gildon accusa Robinson Crusoe di essere una fake news, elencando le incongruenze che lo rendono poco attendibile come vero diario di un naufrago; e Defoe, da parte sua, lamenta che l’eccesso di romanzi avventurosi, confondendo le acque, impedisca di leggere Moll Flanders come “una storia vera”.
- Details
- Hits: 2638
La logistica nel capitalismo globale
di Niccolò Cuppini e Mattia Frapporti
Un dialogo con Giorgio Grappi, Brett Neilson e Ned Rossiter
È ormai da diversi anni che Giorgio Grappi, Brett Neilson e Ned Rossiter si occupano di logistica. Tra i primi a considerarla come un elemento centrale per la comprensione del supply chain capitalism contemporaneo, e autori di diversi articoli e saggi sul tema, Grappi, Neilson e Rossiter hanno collaborato anche alla realizzazione di progetti di ricerca tricontinentali quali Transit Labour. Circuits, Regions, Borders e Logistical Worlds. Infrastructures, Software, Labour. Anche grazie ai loro contributi la logistica è fuoriuscita dall’ambito prettamente ingegneristico o manageriale entro cui era racchiusa fino a qualche anno fa, presentando una inedita e produttiva prospettiva utile alla comprensione del presente politico globale. Intesa come la «costituzione materiale della globalizzazione», la logistica oggi contribuisce a ridisegnare la mappa geo-politica globale, dando vita a numerose zone economiche speciali, corridoi di flussi, spazi infrastrutturali e molto altro ancora. Alla sua azione empirica e palese, tuttavia, fa da contraltare una opacità che soltanto un’analisi accurata attorno ad essa e alle sue origini può permettere di dipanare. Questo dialogo vuole essere un piccolo apporto al dibattito, ed è stato realizzato in forma di intervista da Niccolò Cuppini e Mattia Frapporti, tra i curatori del nuovo numero di Zapruder dedicato alla logistica. È stato realizzato a settembre 2016 all’interno della summer school Investigating Logistics, svoltasi a Berlino presso la Humbolt University. La versione originale dell’intervista, in lingua inglese, è in corso di pubblicazione su Zapruder World.
- Details
- Hits: 1931
La nuova edizione del “capitolo sesto inedito” del primo libro del “Capitale”
di Salvatore Tinè*
Pubblicato per la prima volta nel 1933 dall’Istituto Marx-Engels-Lenin di Mosca, il manoscritto del cosiddetto Capitolo VI inedito del primo libro de Il capitale costituisce senz’altro non solo uno dei testi più importanti e complessi dell’opera di Marx, ma anche un documento particolarmente significativo dell’immane lavoro di redazione de Il capitale che avrebbe occupato per più di vent’anni la vita del pensatore di Treviri. Il manoscritto, redatto nel 1864 e intitolato Risultati del processo di produzione immediato, è l’unica parte pervenutaci dell’ultima redazione del primo libro del Il capitale che precedette la sua edizione a stampa del 1867, originariamente contenuta nel Manoscritto 1863-1865.
L’edizione del Capitolo VI a cura di Giovanni Sgro’ appena uscita con La Città del Sole ci consente di rileggere queste pagine di Marx in una nuova traduzione condotta sul testo stabilito dai curatori del volume 4.1 della seconda edizione della MEGA2. Solo in alcuni punti tuttavia l’attale traduzione modifica quella già condotta dallo stesso curatore e pubblicata nel tomo II del volume XXXI della edizione italiana delle Opere Complete di Marx ed Engels. Molto più aderente alla “lettera” del testo delle tre precedenti traduzioni italiane di Bruno Maffi, di Liliana La Mattina e di Mauro di Lisa, ci pare che essa possa essere utile a cogliere meglio in alcuni suoi passaggi la densità e la complessità del testo di Marx. L’ottima introduzione di Sgro’ e un indice analitico molto ragionato individuano con molta precisione filologica e rigore la trama teorica che innerva, spesso solo sottesa, le pagine del pensatore di Treviri.
- Details
- Hits: 3276
Sulla Belt and Road Initiative
Nicola Tanno intervista Diego Angelo Bertozzi
La Nuova Via della Seta è il grande progetto della Cina del XXI secolo. Rifacendosi all’antica via commerciale del secondo secolo d.C. della dinastia Han, la Belt and Road Initiative (BRI) è un piano per la costruzione di infrastrutture di trasporto e logistiche che coinvolge decine di paesi di tutto il mondo per un valore di più di mille miliardi di dollari. Di questo ambizioso progetto ne ha parlato Diego Angelo Bertozzi in La Belt and Road Initiative. La Nuova Via della Seta e la Cina globale (Imprimatur). In questa intervista Bertozzi, già autore di altri volumi sul paese orientale, ha discusso sulle prospettive della BRI e sul futuro della Cina.
* * * *
1) La Nuova Via della Seta viene descritto come un progetto aperto e in costante evoluzione. Che definizione daresti della BRI e quali sono per te i suoi scopi principali?
Della nuova via della seta esistono diverse mappe –che di volta in volta segnalano l’aggiornamento delle rotte individuate o dei progetti in essere. La prima ufficiale è stata pubblicata nel 2013, mentre l’ultima versione è del dicembre del 2016 e porta alcune novità quali una descrizione più dettagliata dei corridoi terrestri, la copertura dell’intero bacino mediterraneo lungo una linea che prosegue, senza una meta precisa, verso l’Atlantico, così come a est si aprono rotte marittime verso l’Artico e oltre l’Australia. Queste aperture indefinite, così come la maggiore specificazione dei percorsi terrestri e marittimi, vanno a confermare la natura aperta dell’intero progetto, che non segue disegni e confini prestabiliti, che si adatta di volta in volta agli accordi conclusi e che non preclude possibili nuove collaborazioni. Tentativi, verifiche sul campo, cautela e metodi d'azione non rigidi permettono di saggiare tanto le potenzialità di possibili quanto di valutare le possibili contromosse di competitori strategici.
- Details
- Hits: 3631
Appunti per un rinnovato assalto al cielo. III
Turbocapitalismo e ciclo produttivo … di rifiuti
di Paolo Selmi
Lasciamo, per un attimo, da parte il passato e guardiamo al presente. L’attuale produzione di beni di consumo avviene, di fatto, come se l’ambiente fosse una risorsa inesauribile, pur sapendo benissimo che non lo è. Tuttavia, ciò che, strutturalmente, accade da quando esiste l’uomo, oggi riceve un’accelerazione sempre maggiore a causa di un ciclo di vita della merce sempre più breve, sempre più globalizzato e sempre più accelerato nelle sue fasi di produzione e riproduzione.
1. L’inquinamento in fase di produzione è forse uno degli argomenti più noti: non esiste soltanto il dumping sociale ed economico come presupposto alla delocalizzazione, ma anche quello ambientale. Il problema, quindi, si “sposta” laddove il problema non si pone, o si pone in maniera più blanda. Pensiamo al tessile. Chi scrive, si ricorda ancora di quando andava a scuola a piedi e scommetteva, con gli amici, di che colore fosse quel giorno il torrente su cui sversava la locale tintoria. Oggi la tintoria ha chiuso, il torrente è pulito (quando ha abbastanza acqua), e il problema si è spostato altrove. Le emissioni di CO2 nel magico mondo dell’abbigliamento corrispondono, infatti al 5% del totale di emissioni del pianeta, e sono in aumento, dal momento che anche i consumi dal 2000 sono aumentati, in meno di vent’anni quindi, del 60%1 . La qualità del prodotto finito è degradata, da cui un ciclo di vita sempre più breve, da cui l’aumento di risorse destinate alla produzione (destinate a triplicare dal 2000 al 2050), fra cui un impiego sempre più massiccio di fibre sintetiche, leggasi, guarda caso, plastica, più economiche e più inquinanti. “Fast fashion”, lo chiamano gli anglofoni: talmente “fast” da muoversi da Cina e India (dove si concentra il 60% della produzione mondiale) senza che il visitatore abituale di centro commerciale se ne accorga neppure. Sembra prodotto nel capannone lì dietro, che invece ospita una filiale di una qualche altra multinazionale, di elettrodomestici o di articoli “sportivi”.
- Details
- Hits: 4030
Breve storia del neoliberismo (con alcuni antidoti)
di Jason Hickel
Una acuta analisi storica del neoliberismo traccia le tappe dell’affermazione di questa teoria economica elitistica, che contro ogni logica sostiene politiche rivelatesi disastrose. Godendo, nonostante questo, di uno status privilegiato nel dibattito scientifico, al punto che i suoi esponenti ormai lo considerano l’unico approccio legittimo. Il neoliberismo non è sempre stato l’unico modo di concepire la realtà: la sua prepotente affermazione è in realtà il frutto di deliberate scelte politiche da parte di specifiche classi sociali. Oggi è sempre più evidente che le ripetute, insensate politiche di austerità, il sottosviluppo perenne dei paesi periferici del mondo, e le crisi che investono l’umanità come disoccupazione, emergenze sanitarie e crisi migratorie, sono direttamente o indirettamente correlate alle politiche neoliberiste. E allora, come si spiega questa prevalenza, e in che modo è possibile cambiare prospettiva?
* * * *
Come docente universitario trovo spesso che i miei studenti danno per scontata l’ideologia economica dominante odierna – il neoliberismo – come naturale e inevitabile. Ciò non sorprende, dato che molti di loro sono nati nei primi anni ’90, quindi il neiliberismo è l’unica cosa che hanno conosciuto. Negli anni ’80, Margaret Thatcher dovette darsi da fare per convincere la gente che “non c’era alcuna alternativa” al neoliberalismo. Ma oggi questa convinzione è già radicata; è nell’aria, parte del corredo pratico della vita quotidiana, e generalmente accettata come dato di fatto sia a destra che a sinistra. Ma non è sempre stato così. Il neoliberismo ha una storia specifica, e conoscerla è un importante antidoto alla sua egemonia, poiché dimostra che l’ordine presente non è naturale né inevitabile, ma che è invece recente, che ha un’origine precisa e che è stato progettato da persone particolari con interessi particolari.
Per la maggior parte del XX secolo, le politiche di base che costituiscono l’ideologia economica oggi ritenuta standard sarebbero state respinte come assurde. Politiche simili erano state sperimentate in passato con effetti disastrosi, e la maggior parte degli economisti era passata ad abbracciare il pensiero keynesiano o qualche forma di socialdemocrazia.
- Details
- Hits: 1684
Lenin e la situazione rivoluzionaria
di Renato Caputo
È il fine stesso della lotta rivoluzionaria a imporre gli strumenti necessari per la sua realizzazione
Sebbene nessuno possa, necessariamente, sapere a priori se le condizioni rivoluzionarie oggettive si tradurranno in atto, il compito fondamentale dell’avanguardia – abdicando al quale perderebbe la propria ragione d’essere – è secondo Lenin: “svelare alle masse l’esistenza della situazione rivoluzionaria, mostrarne l’ampiezza e la profondità, svegliare la coscienza rivoluzionaria del proletariato, aiutarlo a passare alle azioni rivoluzionarie e creare organizzazioni corrispondenti alla situazione rivoluzionaria” [1], dal momento che in tali momenti risulta decisiva, in primo luogo, “l’esperienza dello sviluppo dello stato d’animo rivoluzionario e del passaggio alle azioni rivoluzionarie della classe avanzata, del proletariato” [2]. In ogni caso l’avanguardia potrà adempiere al proprio compito solo tenendosi pronta all’evenienza che si produca una situazione rivoluzionaria, anche perché, spesso, come insegna la storia, essa si viene a creare per “un motivo ‘imprevisto’ e ‘modesto’, come una delle mille e mille azioni disoneste della casta militare reazionaria (l’affere Dreyfus), per condurre il popolo a un passo dalla guerra civile!”[3].
Il partito rivoluzionario, per poter affrontare dei mutamenti repentini del corso storico indipendenti dalla propria volontà e che possono sfuggire alla propria capacità di previsione, deve essere addestrato ad utilizzare ogni forma di lotta, sapendo di volta in volta selezionare la più adeguata alla fase. Così, ad esempio, la Rivoluzione di Febbraio si è imposta, in una situazione di partenza molto arretrata, ovvero il dominio dell’autocrazia zarista, proprio grazie al suo aver coinvolto, in modo interclassista, ceti sociali anche molto differenti fra loro come la media e alta borghesia liberal-democratica e il proletariato urbano egemonizzato dai socialisti.
- Details
- Hits: 2043
Le paure della buona coscienza
di Rolando Vitali
«ll modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza.» K. Marx. Per la critica dell’economia politica
Sta accadendo, ancora una volta: stiamo attivamente costruendo la base di consenso della reazione e nemmeno ce ne accorgiamo. Stiamo già scivolando nella contrapposizione tra civiltà e barbarie, tra diritti umani e nazismo ecc. che vede la repubblica dei buoni e dei giusti da una parte, e l’abiezione dei disumani dall’altra. Ma come facciamo a non renderci conto che facendo nostra questa divisione non solo contribuiamo al consolidamento dell’egemonia salviniana, ma soprattutto contribuiamo anche ad impedire che una reale alternativa politica progressista possa costruirsi?
Ormai è sempre più chiaro come, ancora una volta, la maggior parte delle forze progressiste italiane si trovi del tutto disarmata nell’interpretare la fase attuale senza cadere in forme di subalternità esiziali per ogni capacità di costruire un’alternativa autonoma. Ancora una volta assistiamo alla totale incapacità di esprimere una posizione politica non subalterna. Ancora una volta siamo schiacciati tra due forme di reazione diverse: liberismo liberale da una parte e liberismo autoritario dall’altra. E stiamo più o meno tutti contribuendo gioiosamente a consolidare questa contrapposizione, ancora una volta…
Da una parte, coloro che scivolano progressivamente nella galassia reazionaria, attratti dalla forza gravitazionale della sua indubitabile effettualità: questi ultimi guardano tutto sommato con soddisfazione al cosiddetto “cambio di rotta” impresso da Salvini e dall’attuale governo, identificandosi supinamente non solo alla narrazione dell’avversario che vuole i migranti prima causa della contrazione dei salari, ma soprattutto alla dicotomia tra universalismo astratto e particolarismo reazionario.
- Details
- Hits: 2866
Mutamenti dello scenario geopolitico e geoeconomico
Giuseppe Molinari intervista Andrea Fumagalli
Con l’intervista a Raffaele Sciortino abbiamo avviato una riflessione sui mutamenti degli scenari geopolitici e geoeconomici mondiali che si stanno determinando. L’interesse è quello di ricomprendere le mosse di breve periodo in un piano di lungo corso e inscrivere le tattiche adoperate dagli attori globali in una strategia complessiva. La partita che si sta giocando è molto più profonda di quello che può sembrare ad un occhio non attento: ad essere in palio, infatti, sono le stesse gerarchie capitalistiche. Questa volta ne parliamo con Andrea Fumagalli, a partire dai passaggi che si sono definiti negli ultimi tempi.
* * * *
Che scenario si sta dando sul piano mondiale dal punto di vista geopolitico e geoeconomico? Pensi che il dominio economico e finanziario statunitense stia giungendo al termine? E’ possibile immaginare un processo di “de-dollarizzazione” considerato anche il sempre maggior peso che sta assumendo il renmimbi cinese?
Io credo che siamo di fronte ad una fase di passaggio nella definizione degli equilibri geoeconomici e geopolitici. Ma, oggi più che mai, a mutare sono i secondi, visto che la messa in discussione delle gerarchie geoeconomiche è già avvenuta nel corso degli ultimi 15 anni, con il cambiamento dei rapporti economici tra Occidente (impersonato soprattutto dagli U.S.A. dopo il grande sviluppo tecnologico della Net Economy e della Silicon Valley) ed Oriente (essenzialmente Cina ed India). Da questo punto di vista, oggi possiamo dire che l’economia cinese ha una dinamica sicuramente più efficiente rispetto a quella statunitense, anche per via delle caratteristiche del sistema cinese, che utilizza un misto di elementi di modernità e di antichità. La modernità sta nella capacità di assumere la leadership nella dinamica tecnologica: le statistiche dell’Ocse ci rivelano come, sin dal 2007/2008, la Cina sia il paese che investe di più nel mondo in R&S e come, dal 2010/2011, l’economia cinese sia trainata dai settori a più alto impiego di tecnologia.
Page 252 of 552