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La fine di un’epoca. Tre libri e un solo problema

di Gianandrea Piccioli

Nel 1967 il grande scrittore di science fiction J.G. Ballard presentando un’antologia di suoi racconti scrisse: “Nella zona del disastro ciascuno di noi c’è già ed è troppo tardi per uscirne”. Mezzo secolo dopo il 43° vertice del G7 svoltosi a Taormina e il G20 di Amburgo sembrerebbero aver celebrato ufficialmente la distopia dello scrittore inglese. O almeno quanto già si percepiva ma in pochi ammettevano: la fine dell’egemonia americana e il declino irreversibile dell’Occidente. Ci saranno sussulti e ulteriori tragedie, forse ancor più drammatiche di quelle che quotidianamente ci allarmano e ci feriscono, perché non si sta solo concludendo un ciclo, bensì un’intera epoca: viviamo già in un mondo post-occidentale, e certamente non possiamo più impancarci a maestri della storia umana, come abbiamo fatto per secoli, e nemmeno, nonostante Cartesio e Kant, detentori di un’unica forma di razionalità: forse la ragione non è così universale come pensavamo. E nessuna ideologia o nessun potere – Stati, Chiese, Classi – può guidare ormai sensatamente il corso degli eventi. E Taormina, con le sue rovine di una civiltà che fu la nostra culla, sarà solo un segnacolo nei libri di storia, come Westfalia o Maratona o la data della scoperta dell’America.

Credo abbia ragione Ulrich Beck che ne La metamorfosi del mondo (Laterza), postumo e ricostruito in base agli appunti dalla moglie e dai suoi colleghi più stretti, fin dal titolo parla appunto di metamorfosi e non di trasformazione: “il mondo non sta cambiando: è nel mezzo di una metamorfosi” che coinvolge non solo la sicurezza confortante dello stato-nazione, ormai fallito in seguito alla imperante globalizzazione e conseguente condizionamento delle politiche dei singoli stati, ma anche, e soprattutto, la nostra antropologia, il nostro modo di essere nel mondo e di pensarlo. “Galileo – scrive Beck – scoprì che non è il Sole a girare attorno alla Terra, ma la Terra attorno al Sole. Oggi siamo in una situazione diversa, ma per certi versi simile. Il rischio climatico, ad esempio, c’insegna che la nazione non è il centro del mondo. Il mondo non gira attorno alla nazione; sono le nazioni a girare attorno a quelle nuove stelle fisse che sono il mondo e l’umanità“. E cita come esempio Internet che unifica il mondo interconnettendo chiunque dappertutto e superando così ogni confine. Altro esempio (ma tutto il saggio procede illustrando le metamorfosi sia del quadro generale sia della pratica e dell’agire) è quello della genitorialità. Per la prima volta nella storia dell’uomo la tecnologia medica può spezzare la naturale “unità di concepimento, gravidanza e nascita” separandoli “nello spazio e nel tempo e a livello sociale”. Ora “la genesi della vita umana è esposta all’intervento e alla volontà creativa dell’uomo, ma il risultato è che diventa un campo da gioco per una varietà di attori e di interessi disseminati per il mondo”. In vent’anni, ci piaccia o no, sono scomparsi punti di riferimento millenari. E Beck, sviluppando una serie di temi particolari e testandoli su alcuni “casi di studio”, introduce nuove definizioni e nuove categorie interpretative che dovrebbero consentire un approccio più duttile e non necessariamente catastrofico alla “cosmopolitizzazione del mondo” (concetto chiave della sua riflessione: il quadro di riferimento, ormai, non può essere che cosmopolita): “tutti sappiamo che il bruco avrà una metamorfosi e diventerà farfalla. Ma il bruco lo sa?”

Oltre a quello di Beck, originale ma frammentario quadro di riferimento, altri due libri da poco usciti in italiano, molto diversi da questo e tra loro, aiutano comunque a orientarsi in quanto sta succedendo. Uno è del sociologo Peter L. Berger, autore di vari saggi sulla secolarizzazione e, con Thomas Luckmann, del classico La realtà come costruzione sociale (Il Mulino). Si intitola I molti altari della modernità (EMI) e l’autore, luterano liberale, ritrattando in parte quanto scritto ai tempi della secolarizzazione trionfante, vi analizza il ritorno in campo delle religioni, viste anche come strumento di difesa davanti all’impatto con la modernità, anzi con le differenti modernità che a diversi livelli si sono irregolarmente affermate nel mondo, imposte dall’Occidente (solo un quarto della popolazione mondiale!) prima conquistatore e colonialista poi neocolonialista. O comunque assorbite dal contatto con la nostra cultura di popolazioni con tradizioni, mentalità, logiche diversissime. Berger individua lucidamente i pericoli del fondamentalismo che, religioso o economico che sia, mira all’abolizione totale del dubbio, mentre il pluralismo relativizza perché “la realtà può essere percepita e vissuta in modo diverso da quello che viene considerato l’unico modo”. Per questo auspica, un po’ ottimisticamente, un permanente pluralismo cognitivo (da noi verrebbe subito accusato di relativismo, di debolismo, di postmodernismo) e quindi libertà religiosa e uno stato religiosamente neutrale. Dimentica però, ed è il limite del suo saggio, che al pluralismo e alla comune esaltazione della libertà illimite nel privato corrisponde la rigidità del capitalismo feudale e che il pluralismo consumistico può sopravvivere solo a spese dei più poveri.

Realtà invece molto chiara ad Amitav Ghosh ne La grande cecità (Neri Pozza), che polemizza con l’ idea di libertà legata al consumo diffusa dai nostri media. Ma pure con la concezione antropocentrica e moderna secondo cui libertà è essere liberi dalla natura. Anche Ghosh, come Berger, pensa alle religioni: mettendo a confronto le genericità dell’Accordo di Parigi sul clima del 2015 e la ben più concreta enciclica Laudato si’ sostiene che le religioni in genere e le loro organizzazioni siano, più delle istituzioni politiche e dei periclitanti stati-nazione, attrezzate a mobilitare le persone: i fedeli, sostiene, hanno il senso del limite e dei vincoli, non pensano secondo criteri economicisti, non sono succubi dell’individualismo.

Ma La grande cecità, diviso in tre parti: Storie – Storia – Politica, sviluppandosi da una prospettiva asiatica e dall’esperienza di un ex colonizzato che si divide tra Calcutta e New York, si distingue dai due libri precedenti per ampiezza di visione e soprattutto per l’urgenza quasi disperata che lo anima: la catastrofe climatica non è imminente, è già in atto (basti citare l’Artico, il Corno d’Africa, l’Asia meridionale…), e i provvedimenti presi finora sono insufficienti e tardivi soprattutto a causa della diversa distribuzione planetaria dei rapporti di forza. E così l’emergenza climatica esce dal chiuso dibattito scientifico per essere ricondotta alle sue vere radici storiche. Dal saggio emerge poi molto bene la contraddizione di fondo di cui siamo prigionieri: la sopravvivenza economica dipende sempre più da fattori che portano alla catastrofe dell’ecosistema. E Ghosh, citando Il borghese di Franco Moretti, delinea il circolo vizioso per cui “ogni progresso si ottiene al prezzo di rendere il mondo più invivibile.” Va cambiato il modello di sviluppo e quindi occorrerebbe una politica diversa: ma la politica, o quel che ne resta, è a sua volta condizionata dalla volontà imperiale del capitalismo feudale. È questo il circolo vizioso da cui non riusciamo a liberarci.

Non solo. Ghosh allarga il suo discorso anche alla sfera culturale, sviluppando la tesi che globalizzazione, imperialismo e romanzo borghese sono intrecciati con la storia dei combustibili fossili, all’origine del grande sviluppo economico dell’Occidente.

E prosegue in una direzione urticante per alcuni valori considerati “democratici” e acquisiti come “progressisti”. Partendo da un’impostazione ecocentrica e dall’ipotesi che il pianeta pensi attraverso di noi, polemizza non solo con l’individualismo narcisistico dell’epoca, ma anche con molta letteratura contemporanea troppo spesso autocentrata sui problemi morali dell’individuo e dimentica sia della collettività sia del mondo non-umano, ben presente invece nei poemi antichi e nelle letterature asiatiche o, paradossalmente, nei generi considerati “minori” come la fantascienza e il fantasy. Come Ghosh ha detto in una recente intervista al “Manifesto”: ”La letteratura moderna si rivela incapace di afferrare e capire la portata dei mutamenti in atto.” Personalmente, non posso dargli torto.

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