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alfabeta

Decolonizzare l’altro

Massimo Filippi

Un tratto importante del discorso coloniale è la sua dipendenza dal concetto di “fissità” nella costruzione ideologica dell’alterità.

Homi Bhabha

Un tratto importante del discorso coloniale è la sua dipendenza dal concetto di “fissità” nella costruzione ideologica dell’alterità.

Homi Bhabha

L’intruso non è nessun altro se non me stesso e l’uomo stesso.

Jean-Luc Nancy

1. «Il tempo in cui c’era l’Altro è passato». Comincia così, con il solito tono ieratico, L’espulsione dell’Altro di Byung-Chul Han. Questa ulteriore dichiarazione di morte – dopo quella di Dio e quella dell’Uomo – non è semplicemente un incipit a effetto quanto piuttosto la chiave di lettura del pensiero dell’autore tedesco di origini coreane rintracciabile anche (se possibile in maniera ancora più enfatica) nel Profumo del tempo e, più in generale, lungo l’intero corso della sua riflessione – non a caso, in quarta di copertina dell’Espulsione dell’Altro si afferma, correttamente, che «questo nuovo saggio [...] è una sorta di summa delle sue opere precedenti». Per Han, quindi, c’è un tempo prima e un tempo dopo (la morte/espulsione de) l’Altro, due tempi che si contrappongono frontalmente. Prima, con l’Altro, vigeva il tempo della relazione, dell’amore, del gioco, dell’esperienza e delle cose; ora, senza l’Altro, quello della prestazione, del sesso, dell’utile, della superficialità e delle merci. All’esitazione e all’indugio si è sostituita la frenesia disforica dell’agire disorientato: il tempo non profuma più ed è diventato «un adiposo vuoto di pienezza», in cui l’Uguale predomina incontrastato. Seguendo Heidegger, a cui Han fa ampio ricorso, l’uomo da «formatore di mondi» si è fatto «povero di mondo», come l’animale. L’uomo è degenerato – come le ideologie di destra non si sono mai stancate di denunciare e come Han non smette di ripetere.

2. Le contrapposizioni frontali elencate da Han sono molte ed è poco utile riportarle tutte. Più interessante è invece sottolineare come ognuna di loro riproduca un’identica struttura binaria e gerarchica: da un lato (sopra) il mondo poetico ed edenico delle vocali, ormai defunto, e dall’altro (sotto) quello prosaico e calcolante delle consonanti. Non v’è dubbio che l’Altro sia disfunzionale alle operazioni dell’impresa del capitalismo informatico, impresa che necessita tra le altre cose – ma questa diagnosi è nota – di un tempo sincrono, di uno spazio liscio, di individui bipolari e perfettamente intercambiabili e di algoritmi impersonali e automatici. Tuttavia, ci si dovrebbe interrogare se sia possibile immaginare mondi altri assumendo la “logica binaria 0/1”, ovvero la stessa logica che sta al cuore del sistema che si intende superare. Pur criticando aspramente l’informatizzazione dell’Altro come 0, Han non resta forse preda della stessa operazione calcolante ponendo l’Altro come 1? Se la risposta è sì, allora non dovrebbe sorprendere che l’analisi di Han eviti ogni scavo genealogico (l’Altro o c’è o non c’è, è privo di geografia e di storia, è fisso) e non offra una proposta politica degna di questo nome per uscire dall’inferno del capitale. Di più: è quantomeno insoddisfacente, se non addirittura pericoloso, riproporre il primato della vita contemplativa sulla vita activa, il primato di quella che a ben guardare altro non è se non un’ascesi individualista, elitaria e dai toni neppure tanto vagamente religiosi, con il suo nostalgico elogio dei bei tempi andati e il suo corredo delle buone cose di pessimo gusto – dai sentieri di campagna ai campanili, dalle porte massicce alle brocche, dalle radici... alla patria!

3. È noto che Judith Butler ha criticato il concetto agambeniano di nuda vita (al singolare) che ha sostituito con quello di vite precarie (al plurale). Ciò non corrisponde al misconoscimento dell’esistenza di vite denudate, ma prende le mosse dal riconoscimento della potenza performativa del linguaggio che, senza dirlo, occultandosi dietro la pretesa di una mera descrizione di fatti, contribuisce, nel momento stesso in cui la definisce “nuda”, a spogliare la vita del potere e della resistenza che comunque mantiene nei confronti dei dispositivi che vorrebbero renderla tale. L’eccesso di singolarizzazione della vittima, seppur inconsapevolmente, nega l’eccedenza di potere che pervade i corpi offesi e, con lo stesso gesto, è parte dei meccanismi di produzione dei corpi a perdere. L’Altro di Han, così trascendente da essere già morto senza sapere di esserlo, non risponde – forse al di là delle intenzioni dell’autore – a un costrutto paralizzante e depressivo, a un falso movimento che ci riporta dentro l’edificio dicotomico e dicotomizzante che non abbiamo mai abbandonato per poter continuare a provare, come Odisseo, l’avventuroso brivido del ritorno a casa? Per parafrasare Lacan, se l’Altro è morto non vale la nozione ingenua secondo cui tutto è permesso, ma quella opposta per cui più niente è permesso. In tal modo, ogni prassi politica trasformativa diventa semplicemente impensabile.

4. È lecito perciò chiedersi chi sia l’Altro di cui Han parla. Scorrendo le pagine dei due ultimi libri, l’Altro, quando non è addirittura Dio stesso (che, appunto, è morto!), è al di là di ogni ragionevole dubbio umano e occidentale. L’Altro (in maiuscolo e al maschile) non è mai gli/le altr*. Rimanendo ben dentro i confini della “nostra” metafisica, le alterità animali sono ridotte a cose buone da sfruttare e le alterità degli altri umani sono semplicemente buone per non essere pensate. L’uomo (sempre al singolare maschile), che dovrebbe essere «l’animale che esita» (ricordate la favola? L’uomo è l’animale razionale, politico, simbolico...), è «degenerato ad animal laborans». E questo pare che sia accaduto perché viviamo nel tempo della psicopolitica: la psiche dell’uomo neoliberale è cablata per rispondere efficacemente ai dettami della produttività illimitata; l’efficienza massima ed economicamente vantaggiosa – senza neppure i costi della disciplina e della repressione – è ottenuta tramite la trasformazione di ognuno in imprenditore di se stesso. L’uomo neoliberale funziona, finché funziona, in quanto catturato da dispositivi di endocontrollo e da processi di autoaddomesticamento. Ora, non si sta negando che una parte degli umani, soprattutto occidentali, quelli che stanno dalla parte “giusta” della barricata neoliberista, lavorino mettendo al lavoro la loro presunta libertà; ciò che si sta cercando di sottolineare è invece l’“invisibile” violenza epistemica che fa perdere di vista, dietro la roboante retorica dell’assolutamente altro, il banalmente altro – talmente banale da poter essere messo a morte impunemente: la psicopolitica governa in un ambito geograficamente ristretto e su un’esigua minoranza dei membri della cosiddetta “umanità”. Detto chiaramente e senza indulgere in equiparazioni spoliticizzanti, chi lavora nelle fabbriche del Sud del mondo, chi muore sotto le bombe intelligenti o soffre la fame e la sete al di là delle muraglie occidentali, chi sale disperato su un barcone o viene rinchiuso in un CIE, chi viene discriminato, se non ucciso, perché non-bianco, non-etero o non-proprietario, perché – direbbe Foucault – «anormale», al pari di chi è condannato a vita dietro le sbarre di un allevamento, di un laboratorio o di uno zoo e di chi viene sospinto a botte verso il mattatoio, è assoggettato ad un potere che è tutto tranne che lo psicopotere descritto da Han. Han che si “dimentica” di dirci che è l’ininterrotta produzione di corpi che non contano a permettere la materializzazione della psiche docile dei corpi che contano (ad esempio, attraverso il terrore di venire relegati ai margini qualora si diventasse meno produttivi). Detto altrimenti, l’Altro è sì passato – ma non da ieri –, e gli/le altr* non hanno mai formato moltitudini tanto sterminate.

5. Poiché le metafore mediche abbondano negli scritti di Han, potremmo proseguire lungo questa direzione affermando che, per mettere in atto una terapia politica all’altezza dei tempi, è necessario formulare una diagnosi precisa dello stato di cose esistente. Ormai dovrebbe essere chiaro che le forme di potere non si succedono l’una all’altra, ma si stratificano e si intersecano, assumendo aspetti differenti in contesti diversi. Un primo passo verso una diagnosi più affidabile potrebbe essere quello di prendere sul serio quanto Achille Mbembe analizza in Necropolitica. Per il filosofo camerunense, il termine “necropolitica” descrive «il sistematico uso strumentale dell’esistenza umana e la distruzione materiale delle popolazioni e dei corpi»; la necropolitica è una sorta di filiazione del potere sovrano che, grazie agli sviluppi tecnici, ha raggiunto il suo massimo livello di incandescenza nel corso della modernità fino a mettersi nella condizione di potere esercitare la sua forza-di-legge su interi continenti. La visione biopolitica di Foucault è quindi diventata «insufficiente» non tanto per la comparsa dello psicopotere (che, in qualche modo, prevede) quanto piuttosto per lo sviluppo esorbitante, in quantità e qualità, di prassi necropolitiche che non esprimono «una scheggia di inusuale follia» ma «il nomos dello spazio politico nel quale ancora viviamo». La biopolitica ha trascurato fenomeni come «la piantagione e la colonia» e non i processi soggettivanti/assoggettanti di autoproduzione del sé. La lettura di Mbembe è un utile antidoto a far sì che il rimosso ritorni: il sistema psicopolitico neoliberale ha molto più a che vedere con la materialità dei «mondi di morte» – che coprono l’intero globo e che ci piacerebbe poter dimenticare per poter continuare a trarre piacere dal “nostro” osceno godimento – che con il vacuum della proliferazione virtuale dei like, come sembra credere Han.

6. Mbembe, però, non basta ancora perché i mondi di morte eccedono di gran lunga l’umano. La necropolitica non è prerogativa dell’altrove, ma è qui tra “noi”, nel modo in cui viene trattata, su scala industriale, la carne degli/delle altr*. I viventi desideranti che i bio/necro/psico-poteri sono chiamati a governare/uccidere/normalizzare non sono esclusivamente umani. E questo perché infinite schiere di appartenenti alla specie Homo sapiens sono incessantemente animalizzate, perché sterminate moltitudini di animali sono messe a morte ogni giorno e perché è la vita animale (umana e non umana) a costituire la presa di questi poteri, in quanto è il corpoin movimento e in transizione – anche quando assume la forma di neuroni e sinapsi – ciò che maggiormente disturba i meccanismi della megamacchina capitalista. Interessante è allora guardare a come gli/le altr* si vedono e a come pensano altri/e altr*, come ha fatto Eduardo Viveiros de Castro in Metafisiche cannibali. In questo volume, tradotto da poco, è immediatamente evidente che la «Grande Divisione» non è un universale antropologico e che il suo gesto dissettorio ed escludente ha fatto della «specie umana l’analogo biologico dell’Occidente» per il resto dell’umanità. Se vogliamo davvero superare la metafisica occidentale, «fons et origo di tutti i colonialismi», dobbiamo «assumere integralmente» il compito di una «decolonizzazione permanente del pensiero» a partire dalla decostruzione della nozione anfibia di “Altro”. Altro che, nella nostra tradizione, sorge come contraccolpo retroattivo all’imposizione del Medesimo. E decolonizzazione che dovrebbe prendere le mosse dalla semplice constatazione che «l’Altro degli Altri è sempre altro». Gli/le altr* non stanno in un altrove trascendente, ma vivono negli incontri che stiamo esperendo anche qui e anche ora. Incontri che, volenti o nolenti, modificano i “nostri” corpi e i “nostri “immaginari”, trasferendo «la differenza umano/non-umano all’interno di ogni esistente». In altre parole, il processo di decolonizzazione del pensiero passa dalla presa di congedo della ricerca della differenza che starebbe là fuori e nell’accettazione che le differenze non cessano mai di differire dentro il piano di immanenza del “divenire comune”. All’«essenza» dell’Altro come «dolore» – così si esprime Han, ancora debitore delle metafisiche delle passioni tristi – dovremmo rispondere con la gioia eccedente dei punti di vista dei corpi coinvolti in una perenne creolizzazione resistente alle logiche dell’uniforme e dell’uniformità. L’Altro chiama; gli/le altr* passano.


Byung-Chul Han, L’espulsione dell’Altro, traduzione di Vittorio Tamaro, nottetempo, 2017, 108 pp., € 13
Il profumo del tempo. L’arte di indugiare sulle cose, traduzione di Claudio Aleandro Bonaldi, Vita e Pensiero, 2017, 132 pp., € 15
Achille Mbembe, Necropolitica, con un saggio di Roberto Beneduce, ombre corte, 2016, 107 pp., € 10
Eduardo Viveiros de Castro, Metafisiche cannibali. Elementi di antropologia post-strutturale, traduzione di Mario Galzigna e Laura Liberale, postfazione di Roberto Beneduce, ombre corte, 2017, 237 pp., € 20

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