Print
Hits: 972
Print Friendly, PDF & Email

tysm

Bambini pericolosi

di Francesco Paolella

Alberto Gaino, Il manicomio dei bambini. Storie di istituzionalizzazione, Edizioni Gruppo Abele, Torino 2017, 222 pagine, 15 euro

Partiamo dalla realtà di oggi: che aiuto si garantisce ai bambini “disadattati”, a quelli con difficoltà di apprendimento o di comportamento, e a quelli con problemi neuropsichiatrici gravi? Cosa si fa per evitare di tornare a “doverli” semplicemente custodire in strutture chiuse, così simili ai vecchi manicomi? Il rischio, di sicuro a causa in primo luogo della nostra eterna crisi economica, è davvero quello di tornare indietro di quaranta o cinquantanni:

Il personale dei servizi pubblici è stato tagliato pesantemente, le liste d’attesa si sono allungate in modo impressionante, non si conosce neppure il fabbisogno delle richieste per affrontare il disagio mentale della nostra gioventù. Per cui, come si possono programmare gli stanziamenti di risorse e interventi? Si tampona: è la sola politica che si conosce in Italia (p. 155).

La diffusione e, in molti casi, la qualità dell’assistenza sanitaria e del sostegno scolastico non fanno che mostrare sempre più chiaramente l’ipocrisia democratica oggi dominante: enunciazione di principi egualitari, ma tagli delle risorse: tutti hanno diritto a tutto, ma solo chi ha qualcosa (o ha molto) può difendersi e salvare i propri figli.

Il rischio è quello di ritrovarsi, oggi e ancora di più domani, a poter solo contenere ragazzi “ingestibili”, condannandoli a non essere educati e ai quali non si sa più proporre nulla.

Oggi nessun bambino può essere dichiarato “ineducabile”, come invece avveniva un tempo; le classi differenziali appartengono a un passato neanche più molto prossimo: ma che cosa accade nella pratica? I “bisogni educativi speciali” come vengono soddisfatti? Con insegnanti di sostegno tante volte impreparati e demotivati, insufficienti di numero e condannati loro stessi a fare solo i guardiani degli “studenti” più fastidiosi, riuniti semmai tutti insieme. E con che altro?

Alberto Gaino rappresenta questa emergenza (ormai strutturale) elencando tutti i problemi ai quali non si riesce più a far fronte: l’uso dei farmaci, la contenzione, la gestione di comunità “terapeutiche” private che a volte non si rivelano altro che imprese che dai ragazzi loro affidati devono ricavare (magari sfruttandoli) un profitto. E, forse, la desolazione attuale è ancora nulla rispetto a quanto ci attende: la nostra epoca, segnata da migrazioni sempre più numerose, non potrà che vedere un aumento esponenziale dei casi di minori traumatizzati e abbandonati di cui farsi carico. E con che mezzi farlo? E con quale preparazione, se la mediazione culturale (per non dire di una prospettiva etnopsichiatrica) non è prevista né prevedibile?

Di nuovo, come nell’epoca dei manicomi, è la povertà (materiale, culturale, relazionale) a compromettere la vita di decine di migliaia di bambini, a condannarli a una esistenza vuota e senza un orizzonte. E dire che oggi, a differenza del tempo in cui i “minorati psichici” erano affidati alle cure di suore e psichiatri a volte senza scrupoli, abbiamo a disposizione diagnosi precise e cure davvero efficaci: solo sulla carta però…

E’ avendo presente questo disastro, presente e futuro, che dobbiamo voltarci indietro e tornare, come fa questo libro, al tempo dei “manicomi per bambini”. L’autore ci porta dentro Villa Azzurra, struttura del torinese, un istituto come tanti altri in Italia, e non il peggiore, attivo fra il 1937 e il 1979, fino a quando lo scandalo della sua esistenza (scandalo a lungo reso invisibile da un consenso sociale ampio) costrinse le autorità a decidersi per il suo superamento. Non senza difficoltà ed opposizioni, chiaramente. Ogni “istituzione totale” era (ed è oggi) un luogo di potere, potere al quale non si rinuncia facilmente. La “burocrazia manicomiale” non accettò facilmente di perdere le (molte) risorse disponibili né di veder ridotto il proprio controllo assoluto sui piccoli pazienti internati.

Gli ospedali psichiatrici erano centri di potere. Solo apparentemente erano strutture geograficamente periferiche: nessuno le voleva vicino alla propria casa. Ma vi si gestivano ingenti finanziamenti pubblici: negli anni Sessanta a Torino la Provincia pagava rette salite progressivamente sino a 99.000 lire al mese per ogni ricoverato adulto e sino a 240.000 per ogni bambino internato (la famiglia di un operaio FIAT disponeva, allora, di un salario mensile attorno alle 100.000 lire). E con le raccomandazioni di chiesa e politica – i potenti – vi si accoglieva chiunque (p. 34).

Quell’“Istituto medico-psico-pedagogico” (quanta falsità in questa definizione!) era una discarica dove finivano i bambini che le famiglie non potevano o non volevano tenere, i bambini che a scuola davano problemi o che mostravano ritardi nell’apprendimento e nel linguaggio, o che erano epilettici: insomma, tutti i bambini da scartare, per i quali non valeva la pena di avere molti riguardi.

Nei reparti di Villa Azzurra finivano i figli dei poveri, e vi venivano “curati” tenendoli legati ai letti e praticando loro, senza anestesia e senza controllo medico, le “terapie elettriche” come pura risposta punitiva al loro essere “oppositivi”.

Bambini difficili, predestinati al manicomio, e perduti a causa dell’istituzionalizzazione: solo farmaci, elettroshock, cinghie. Gaino ha potuto aver accesso a diverse cartelle cliniche di quei bambini nati negli anni Cinquanta e Sessanta. In molti casi ha scelto (e giustamente) di non ricostruire le loro esistenze una volta usciti da Villa Azzurra, in primo luogo crediamo per rispettare la loro privacy. Ma anche laddove quelle storie sono state ricostruite, possiamo dire che ciò non sarebbe stato comunque necessario: già quanto emerge, semmai in controluce, dalle relazioni dei medici ci dice molto su come quei pazienti venissero considerati: cose, arnesi, ingombri da sedare, neutralizzare e dimenticare in un angolo. Ed è facile immagine quali fallimenti e smarrimenti poté comportare il trauma dell’internamento.

Era molto semplice, fin troppo semplice, finire a Villa Azzurra: bastava provenire da una famiglia scoppiata o piena di pregiudizi, bastava capitare sotto lo sguardo clinico (e cinico) di un medico che sancisse una “subnormalità” e, di conseguenza, la necessità del ricovero in un “istituto ortofrenico”. L’unica maniera per non essere puniti laggiù era cadere nella passività: per questo chi entrò in luoghi come quello (fotografi, giornalisti ecc.), spinto dal bisogno di documentare e denunciare quegli orrori, si trovò di fronte quasi a sempre a dei “relitti umani”, seppur ancora così giovani.

Giustamente Gaino mostra tutta la sua indignazione per la condotta di tanti infermieri e psichiatri (come il famigerato professor Giorgio Coda, medico senza compassione) e lascia intravedere anche casi di abusi sessuali su cui non è mai stata fatta giustizia; ma forse ancora di più per quanto veniva scritto nei documenti ufficiali:

“Le parole sono pietre”. Questo libro deve servire a ricordare quanto e come sono state usate e manipolate le parole per condannare all’espulsione dalla vita bambini come Libero, nato a dicembre 1959 e bollato come un pericolo pubblico a maggio 1963 da uno specialista dell’apparato digerente. […] L’orrore del manicomio sta anche in quelle parole (p. 107).

Così appunto un bambino di tre anni poteva essere definito, secondo la legge, “pericoloso a sé e agli altri”.

Con le storie di questi ragazzi appare ancora più evidente la contraddizione in sé dell’istituzione manicomiale, e il suo inevitabile fallimento: cosa si poteva offrire a un bambino “difficile”, quale prospettiva, quale educazione, se non l’adattamento alla vita in manicomio?

Il rischio di concentrare un potere assoluto, di per sé violento, sui malati e, in particolare, su minori malati, non può essere debellato da alcuna legge: è anche nella condotta degli operatori, nella loro coscienza che si trova una fonte indispensabile di umanità. La “carità crudele” di suore e medici può sempre ripresentarsi, e in mille forme nuove.

Web Analytics