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Contro le elezioni

di Roberto Salerno

Da quando il PCI non esiste più, ormai poco meno di trentanni, i richiami al senso di responsabilità verso quelle che sono considerate le frange estreme della sinistra si sono susseguiti senza soluzione di continuità. Complici a volte i vari sistemi elettorali, più spesso la costruzione di un nemico fosco e definitivo, in un tempo relativamente breve si è passati dal condannare le chiusure identitarie a lanciare veri e propri anatemi verso chi semplicemente manifestava qualche perplessità sull’opportunità di creare alleanze con soggetti che si allontanavano a passi sempre più ampi dalla tradizione del movimento operaio.

Questo avveniva mentre il campo tradizionalmente occupato dal PCI diventava via via preda dei più sfrenati liberisti, passando dal PDS ai DS, dall’Ulivo al PD. Prima timidamente poi – via via che gli eredi del PCI diventavano sempre più impresentabili, fino a far apparire la corrente sinistra della DC come fulgido esempio di progressismo – sempre più celermente, tra gli estremisti di un tempo sono cresciuti due atteggiamenti, si sono formate due posizioni, che soprattutto in occasione delle scadenze elettorali hanno finito con il fronteggiarsi molto aspramente. Da una parte chi cerca la costruzione di “uno spazio a sinistra del PD” e dall’altra chi ritiene che partecipare alla competizione elettorale sia vano, se non addirittura dannoso. Le argomentazioni a sostegno delle due tesi sono abbastanza note ma non certo banali e implicano una lettura, verrebbe da dire antropologica, del corpo elettorale.

Semplificando al massimo, chi cerca una forma di alleanza tra le varie anime della sinistra si può dividere tra chi ritiene che considerato i rapporti di forza sociali l’unica strada è salvare il salvabile in attesa di tempi migliori e quindi cercare con una manciata di deputati/senatori/consiglieri di influenzare le policy governative; e chi pensa che la costruzione di un gruppo parlamentare (quale che sia il parlamento) possa funzionare come punto di partenza per un percorso di riunificazione più ampio.

​Diversa la lettura degli “astensionisti”, anche loro grossolanamente suddivisibili in due grandi gruppi. Quelli che ritengono che la democrazia parlamentare non meriti nulla e che sempre e comunque si finisce con l’accettare riti e tempi imposti dalle classi dominanti; e quelli, diciamo così, “temporanei”, che considerato il momento storico – segnato dall’eccessiva vacuità delle proposte in campo, dalla sfiducia generalizzata nei confronti di dirigenti da decenni impegnati nell’agone politico, dalla lettura dei rapporti di forza – ritengono sia più produttivo svolgere la propria attività politica fuori dalle istituzioni.

Le elezioni per il rinnovo del parlamento regionale di domenica 5 novembre 2017 non sono sfuggite a dinamiche viste sin troppe volte:

- tentativo di costituzione di uno schieramento in grado di far confluire i vari groppuscoli della sinistra;

- discussione che si preannuncia lunga e partecipata;

- improvvisa chiusura della discussione con l’identificazione di candidati-simbolo attraverso pratiche nebulose, se non proprio clandestine;

- appello dei candidati simbolo ad una generica unità;

- costituzione delle liste inevitabilmente deludente;

- separazione, aspra, tra chi va a votare e chi no.

E in ultimo, purtroppo, la solita sconfitta e il ritorno alle frammentate pratiche politiche dei periodi non elettorali. Fino alla prossima volta, cioè tra un paio di mesi, quando ci saranno le elezioni politiche.

Ora, che questo percorso possa essere stato provato una volta, due, è perfettamente comprensibile anche dagli scettici. Quello che è molto difficile da capire – ma il sospetto è che sia difficile spiegarlo – è quale sarebbe il progetto politico, lo sbocco finale, di questo percorso. La sensazione è sempre quella di “dover fare qualcosa” e c’è la spiacevole impressione che i soggetti coinvolti nel percorso sommariamente descritto ritengono che in ogni caso queste sono attività a costo zero. Il punto è che forse non è così. Ogni singolo passaggio crea tensione, allontana soggetti che durante i periodi “non elettorali” sono meno diffidenti tra loro e finisce spesso con il rafforzare il giudizio negativo di chi fa politica ogni giorno nei quartieri, nelle strade, per la salvaguardia dell’ambiente, nelle fabbriche (pare ci sono ancora), nella lotta per la casa e molto altro. È questo il costo nascosto che si paga partecipando alla contesa elettorale. In cambio sostanzialmente di niente, perché anche nella migliore delle ipotesi cosa mai dovrebbe succedere? Che ci siano cinque (un sogno) consiglieri regionali in qualche modo riconducibili ad una generica sinistra radicale? Che poi, considerata la parte della formazione delle liste, in genere sono personaggi che godono di un prestigio personale o di un pacchetto di voti del tutto slegato da una pratica di sinistra? In che modo questi eletti dovrebbero condurre un processo di aggregazione in grado di far crescere non tanto, figurarsi, un diffuso sostegno alla sinistra, ma almeno un sostegno alle molteplici lotte presenti anche nel territorio siciliano?

Ma quello che forse è più grave è che le scelte anche di personaggi dalla storia personale cristallina e che giorno dopo giorno, lontane appunto dai riflettori elettorali, hanno svolto e continuano a svolgere la loro straordinaria attività politica, le scelte di questi sono del tutto isolate o, se va benissimo, prese dopo un confronto con un proprio gruppo ristretto. Del motivo, della discussione pubblica che conduce questi personaggi a fare la scelta di candidarsi, non sappiamo nulla se non quello che possiamo intuire: da una parte l’idea che qualcosa bisogna fare e dall’altra quella che le terribili questioni del nostro tempo possano trovare una qualche forma di soluzione grazie alla buona biografia di chi finisce in Parlamento (siciliano, nel nostro caso). Il tutto, umanamente comprensibile ma politicamente devastante, accompagnato da una sorta di fiducia nelle scelte di chi è impegnato quotidianamente nelle lotte sociali senza che la decisione venga accompagnata da una qualche forma di discorso politico. Il che, en passant, significa sostanzialmente aderire al discorso del grillismo che identifica nel problema del personale politico la questione sostanziale del nostro tempo. Cosa che i comunisti, ma anche una generica sinistra, dovrebbe aborrire se non vuol perdere quel che resta della sua anima.

Insomma, quello che rimane è che ogni appuntamento elettorale sembra fatto apposta per intervenire come una clava sui processi di ricostruzione di una qualche sinistra che faticosamente, tra appuntamento e appuntamento, si svolgono giorno dopo giorno in spazi che saranno stretti e angusti ma che pure esistono e hanno una loro vitalità. Ha davvero poco senso “premiare” col voto questo o quel candidato. Se discussione a sinistra deve esserci dovrebbe cominciare il giorno dopo le elezioni. Prima, si litiga e basta.

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