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Trasformazioni industriali, punto di partenza per una politica di classe 4.0

di Giacomo Marchetti

L’Italia è, dopo la Germania e prima della Francia, la seconda potenza industriale dell’Unione Europea.

Il quadro di questo comparto è in rapida trasformazione.

All’interno di questo settore avviene una vera e propria “frattura”, da un lato le aziende in “crisi” in via di dismissione, dall’altro imprese che stanno divenendo il cuore della nuova configurazione produttiva italiana dentro le linee di sviluppo della politica industriale europea.

I recenti dati sulla produzione industriale illustrano questa tendenza, facendo sfiorare ad alcune porzioni del settore – per fatturato ed investimenti – i valori pre-crisi.

Queste cifre denotano più che altro la capacità di sfruttamento del “rimbalzo positivo” dell’economia della UE, che non vuol dire assolutamente ripresa a livello macro-economico, ma la combinazione e la messa a profitto di due dei fattori centrali della ripresa produttiva: l’abbassamento del costo della forza-lavoro, l’azione governativa di trasferimento delle risorse economiche dal welfare alle imprese.

Questa tendenza porta in alcuni territori che sono i terminali del sistema produttivo europeo – in sostanza una parte del centro-nord con la Lombardia al centro – anche al timido ampiamento della base produttiva, attraverso l’investimento di aziende già esistenti con una posizione consolidata nel settore nello sviluppo di nuovi insediamenti produttivi.

Il mantenimento della base produttiva di alcune aziende grazie all’acquisto da parte cinese, con il relativo miglioramento della situazione patrimoniale e d’indebitamento grazie alla nuova iniezione di capitale, è un fenomeno coevo interessante – l’Italia è il terzo Paese per investimenti diretti di Pechino – ma di natura diversa da quello qui descritto, ma che in sostanza ci parla dell’“accaparramento” di parti importanti del nostro tessuto industriale.

In questo contesto lo stato italiano non è un semplice spettatore di questo processo, ma un attore che svolge un ruolo subordinato alle oligarchie europee nella governance delle dinamiche economiche elaborate “nelle stanza dei bottoni” dell’Unione, e se all’interno del suo sistema produttivo annovera anche aziende dalla forte vocazione “estera” in grado di assicurarsi commesse e fette di mercato internazionali queste si stanno riconfigurando in funzione non della competitività del Sistema-Paese in sé, ma di quella della UE nel suo complesso.

In questo senso, queste aziende o emergono come pivot dello sviluppo continentale o soccombono sotto le proprie omologhe tedesche o francesi.

Stiamo assistendo ad un’accelerata integrazione verticale – dall’alto verso il basso – del sistema industriale europeo, al fine di incrementarne la competitività nei confronti degli altri attori globali.

In sintesi un processo di concentrazione industriale sul piano continentale per una UE che mira ad essere un competitor su scala internazionale per le merci ad alto valore aggiunto, sul proprio mercato interno come su quello estero.

Un processo che parte solitamente dal vertice della piramide: la Germania, per riconfigurare l’intero sistema.

Questa dinamica interessa i settori strategici della fascia alta della catena del valore con concentrazioni industriali sul modello Airbus, come sta avvenendo con la cantieristica navale civile e militare dopo l’accordo Fincantieri-STX, o nell’industria ferroviaria con la fusione Alstom-Siemens.

In questa dinamica di creazione di “poli industriali” unici, il complesso militar-industriale ha un aspetto del tutto centrale anche per le caratteristiche intrinseche del settore, strategico per la nuova politica di potenza europea e in grado di fungere da vettore per le trasformazioni negli altri comparti industriali, trasferendo sul civile ciò che si è sperimentato per il militare.

Lo sviluppo tecnologico legato alla digitalizzazione e all’automazione dell’intero comparto industriale (ma non solo) è uno degli aspetti principali di questa trasformazione in chiave di una maggiore produttività in grado di potere garantire una migliore competitività al made in Europe.

Questo è il fattore determinante “a monte” che ha una serie di ricadute “a valle” che vanno dalla ristrutturazione del sistema creditizio, per ciò che concerne il finanziamento alle imprese, alla ridefinizione del settore della ricerca avanzata (Dalla creazione dei Digital Innovation Hub regionali alla imminente nascita dei Competence Center) e della formazione (dall’università agli ITS), dalle trasformazioni nel settore della logistica (con una precisa ridefinizione del sistema portuale e ferroviario italiano) alle politiche legate al mercato della forza lavoro, alla contrattazione nazionale di categoria e alle relazioni industriali in genere.

Scendiamo più nel dettaglio della frattura che si sta consumando su questa linea di faglia tra il sistema industriale come l’abbiamo conosciuto e ciò in cui si sta trasformando, con la relativa dismissione di ciò che non risponde ai criteri fissati dalla nuova divisione del lavoro a livello continentale, mostrando i due “poli” di questo processo e la loro relazione.

Al MISE sono aperti poco meno di 170 tavoli di crisi, per un totale di circa 180.000 coinvolti, la stragrande maggioranza dei quali occupati in imprese con più di 500 dipendenti.

Nella stragrande maggioranza dei casi l’azione della politica si sta configurando come mera gestione delle dismissioni industriali, con l’incentivazione all’esodo della forza-lavoro, affidandone la ricollocazione ad attori privati che si occuperanno anche della riqualificazione della manodopera realizzando quella “formazione permanente” secondo la formula del longlife learning che connota la rivoluzione digitale, o semplicemente speculeranno sulle vite di questo esercito di “eccedenti”.

Questo è uno degli aspetti rilevanti della manovra economico-finanziaria attuale tesa a legittimare il processo di dismissione industriale con il relativo licenziamento (parziale o totale a seconda dei singoli casi di acquisito o meno da parte di una altra azienda dell’impresa in questione) dei lavoratori, portando a compimento il progetto di valorizzazione di quelle multinazionali dell’intermediazione della manodopera (Manpower, Adecco, ecc.) ed attori privati in genere, cominciato con il cosiddetto “Pacchetto Treu” a fine anni ’90.

Chiaramente sarà solo una piccola frazione di lavoratori a venire ricollocata e coloro che lo saranno di fatto vedranno azzerate le garanzie complessive acquisite precedentemente, rientrando di fatto nel quadro delle trasformazioni delle diritto del lavoro di cui il Job Act è solo l’ultima tappa.

In questi casi solo una strenua resistenza operaia ed un progetto di ri-nazionalizzazione, cominciando dai settori strategici, può portare ad uno sbocco che non sia solo una sempre più risicata “riduzione” del danno: i casi dell’Ilva e di Alitalia, tra gli altri, sono paradigmatici.

Dall’altro lato abbiamo piccole e medie industrie, PMI, per di più “terziste” con il loro indotto di relativa sub-fornitura, dei comparti legati alla robotica, alla meccatronica e alla farmaceutica che sembrano essere le destinatarie principali (dirette ed indirette) dell’azione governativa rispetto al settore industriale.

Sgravi per ciò che riguarda l’acquisto di macchinari, in special modo, quelli collegati allo sviluppo dell’Industria 4.0 ma non solo, alla formazione professionale degli addetti, decontribuzione per i neo-assunti fino ai 30 anni per i primi tre anni che arriva al 100% nel caso di ex-studenti impiegati in stage durante l’alternanza scuola lavoro, finanziamento di quegli istituti che svolgono corsi post-diploma in grado di offrire programmi di formazione adeguati per le professionalità richieste da queste aziende e non ultimo la creazione di 5-6 competence center, pubblicamente finanziati – che uniranno aziende, università ed istituti di ricerca – preposti alla creazione di innovazioni tecnologiche da trasferire poi direttamente nel settore produttivo sull’esempio di ciò che avviene in Germania.

In questo senso, l’azione governativa, sta co-determinando lo sviluppo della disoccupazione tecnologica tra la popolazione, senza predisporre alcuna misura che ne mitighi gli effetti sul corpo della classe, ma promuovendo – anche a livello ideologico – una concorrenza ancora più spietata tra gli individui che compongono l’esercito di riserva, e l’immigrazione come exit strategy per una fetta ancora più ampia di subordinati.

Dentro questo orizzonte di trasformazioni bisogna collocare la creazione di Zone Economiche Speciali, che anche se riguarderanno per ora il Sud e il Porto Franco di Trieste, sono al centro del dibattito per un loro possibile sviluppo anche in altri contesti: si pensi che una soluzione di questo tipo era stata paventata per l’area della ex Expo a Milano o che il sindaco di Genova Bucci dopo averne fatto un cavallo di battaglia elettorale, l’ha inserita nelle linee guida del programma della giunta per la città.

Di fronte a questo lo sciopero generale del 10 novembre e la manifestazione indetta dalla piattaforma politico-sociale Eurostop il giorno successivo a Roma, iniziano a porre delle questioni dirimenti che una buona parte del sindacalismo, anche conflittuale, e della residuale “sinistra di classe” (come di “movimento”) non sembrano volere nemmeno porre.

Naturalmente bisogna essere in grado di traguardare questo delicato ed importante passaggio per le sorti del conflitto di classe nel nostro Paese, avendo ben presente che sulla politica industriale si sta già giocando una partita importante.

Una questione centrale che pone sfide precise che devono essere colte in termini di inchiesta da articolare sui territori, capacità di organizzazione di pezzi importanti della classe, parole d’ordine e rivendicazioni di un sindacalismo metropolitano composito, prefigurazione di una cornice continentale differente per il rilancio dello sviluppo industriale.

Non cogliere queste necessità vuol dire condannarsi all’autismo più completo nei confronti di una parte importante del blocco sociale di riferimento.

Lo sciopero di venerdì e la manifestazione di sabato sono dentro questa scommessa politica in cui la rapidità dei processi di trasformazioni impone una rinnovata capacità di comprensione ed una altrettanto celere iniziativa politica degna di questo nome, soprattutto quando l’unico orizzonte politico la stanca coazione a ripetersi di ciò che non funziona più.

Comments

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clau
Sunday, 12 November 2017 16:14
L’analisi che ci offre Giacomo Marchetti è vasta, profonda e condivisibile, ma a mio modesto parere viene posta in un’ottica non strategica, ma di medio periodo, ossia da un punto di vista puramente difensivo, quindi interno all’attuale sistema. La definisco ottica di medio periodo, in quanto, con lo sviluppo dell’industria 4.0 in un sistema produttivo che già ora ha molti settori in sovrapproduzione a livello globale e ci sono i grandi e medi paesi emergenti che continuano a produrre a livelli per noi impressionanti. Tenuto conto di ciò, mi pongo il problema del dove tale sistema può andare a parare e di quanto tempo può ancora durare prima di collassare? Se le domande che mi pongo hanno qualche fondamento, occorrerebbe modellare la lotta di classe in un’ottica politica più che sindacale, occorrerebbe cioè porsi il problema di sviluppare organizzazione politica e lotta a scala internazionale per il superamento dell’attuale vetusto sistema, che fa diventare i ricchi sempre più esageratamente ricchi e i poveri sempre più miserevolmente poveri. Infatti, se anche la lotta sindacale fosse la migliore e la più estesa possibile, il dato di fondo summenzionato, che ci condanna ad essere sempre più profondamente e numericamente subordinati, non cambierebbe.
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Eros Barone
Saturday, 11 November 2017 23:14
Mai come ora si è resa così evidente, da un lato, l’identità di un capitalismo, come quello italiano, polarizzato tra un numero ridottissimo di imprese di dimensione
multinazionale e una miriade di aziende nane prive di qualsiasi respiro progettuale; dall’altro, l’identità di una borghesia, forse meglio definibile come sottoborghesia se paragonata a quella presente nel resto dell’Europa, che è priva della preparazione e della statura di una classe dirigente. Che altro si può dire, infatti, di ceti
imprenditoriali che realizzano i loro profitti sfruttando posizioni di monopolio o di oligopolio acquisite grazie ai processi di privatizzazione, al parassitismo rispetto allo Stato e allo stretto contatto, negli appalti e nei subappalti, con le grandi organizzazioni criminali? Ceti che, fra l’altro, contribuiscono, sia oggettivamente che soggettivamente, attraverso l’intreccio perverso fra la rendita e il profitto, a mantenere bassissimo il costo del lavoro. Ma i profitti e le rendite sono stati salvaguardati anche eliminando gli in-vestimenti in ricerca e sviluppo, rinunciando a delineare una politica industriale incisiva, come è stato fatto in Germania e in Francia. Del resto, anche questa è una
conseguenza diretta della pervicace volontà, che ha animato e anima i ceti imprenditoriali, di limitare “l’intervento dello Stato nell’economia”, contraddicendo in tal modo perfino ad un criterio storicamente acquisito di razionalità capitalistica.
Così, questa sottoborghesia, incapace di sostenere la normale competizione capitalistica (esaltata a parole benché costantemente smentita nei fatti), ha finito col
rifugiarsi in una condizione protetta ma debole ed è oggi chiamata a pagare, con gli interessi maturati nel frattempo, il conto di una storica debolezza strutturale. D’altronde, la crisi permanente del ceto politico da Tangentopoli in poi che altro è stata se non lo specchio fedele di questa classe avida e gretta che preclude al nostro paese qualsiasi unificazione strategica intorno a un progetto di respiro nazionale e internazionale? Una sottoborghesia del genere, classe dominante ma non dirigente, non può che essere forte con i deboli e debole con i forti. È dunque inevitabile che essa nel contesto europeo, così stando le cose, scivoli verso una posizione subalterna e marginale, non molto dissimile da quella che aveva la borghesia meridionale durante il processo di unificazione nazionale dell’Italia.
La classe operaia italiana, che in questi due decenni ha svolto, anch’essa, una funzione più spesso complementare che antagonista a questa sottoborghesia, ha visto modificarsi profondamente la propria situazione economica e, nel dissolversi di una soggettività comunista, anche la coscienza di sé. La propensione razzista verso gli immigrati, percepiti come un pericolo per il mantenimento del proprio ‘status’ sociale, trae origine e in parte la sua ragion d’essere dalla confusa intuizione che il vecchio sistema economico e politico si sta sbriciolando. La Lega Nord e il berlusconismo hanno quotato alla borsa politico-elettorale queste paure di massa, alimentandole e cavalcandole senza riserve. Ma anche per questi imprenditori della disuguaglianza e del risentimento i margini di azione si riducono. La classe operaia si sta risvegliando dal lungo sonno, inframmezzato dai sogni di un benessere duraturo e crescente (senza lotte e con il mutuo per la casa da pagare…), che quegli imprenditori erano riusciti a venderle. Una grande rottura sociale si profila all’orizzonte.
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