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Il momento è adesso

di Sergio Cararo

Se anche il direttore de La Repubblica comincia a parlare di “falò delle verità”, vuol dire che la consapevolezza del pericolo rappresentato dalla frottole di sistema, diffuse fino ad oggi, comincia a essere rilevante.

Non che sia il solo ad aver scoperto che tra “narrazione” e realtà si sia aperta una voragine impossibile da nascondere.

Ben prima di lui, su impulso della Piattaforma Eurostop, un coordinamento unitario di forze politiche, sindacali, sociali – il Comitato 11/11 – ha convocato una manifestazione nazionale a Roma – per sabato prossimo – per cominciare ad imporre una “Operazione Verità”.

Uno slogan anomalo per una mobilitazione politica e sociale, eppure coglie una contraddizione diventata davvero insopportabile.

Dovremmo riavvolgere il nastro della storia di questi ultimi anni e riguardarla con l’attenzione dovuta. La velocizzazione degli eventi, cui la realtà ci sta abituando, troppo spesso ci fa perdere memoria di fatti che hanno determinato la situazione attuale e altrettanto spesso ci mette di fronte a fatti compiuti dai quali sembra impossibile recedere, in pratica un orizzonte inamovibile come un destino manifesto.

Ne consegue che le persone, ad esempio, rinuncino ad andare a votare, non scioperino o non manifestino nelle strade perché non ne vedono più l’utilità per un cambiamento.

Non solo. Anche e proprio quando la realtà scarica loro addosso un carico intollerabile di pene (dalla disoccupazione allo sfratto, dall’impoverimento ad un futuro pieno di incognite), ci si ritira in una condizione di “rabbia depressa”, che ottunde ogni capacità di intravedere una soluzione “progressiva” rispetto all’esistente.

Nei settori sociali più deboli si producono così le condizioni in cui la guerra tra poveri diventa spesso l’unico sbocco “politico” capace di produrre un risultato visibile, una soddisfazione solo neuronica, appagante perché magari “il nemico” diventa quello che puoi vedere, che hai a portata di mano o di insulto. Un immigrato o un autista dell’autobus, un infermiere o un’impiegata pubblica.

Il nemico vero, quello che concretamente adotta le decisioni che rendono insopportabile la nostra vita, è invece sempre più irraggiungibile, invisibile, quasi metafisico.

Questo “nemico” – perchè di questo si tratta – ha ormai messo a punto un “pilota automatico”, le cui decisioni sono inappellabili, soprattutto perché agisce in nome delle esigenze di bilancio contro cui ogni rimostranza appare illogica, irrazionale, impossibile. Anche le migliori intenzioni (di sindaci o di parlamentari, di sindacati o di partiti) si trovano davanti una sorta di totem sacro che smonta ogni ambizione.

Questo totem lo hanno chiamato in molti modi (“ce lo chiede l’Europa”, “gli impegni con la Nato”, “competitività”, “obblighi dei Trattati Europei”, obbligo di “pareggio di bilancio” inserito con l’art.81 in Costituzione, esigenze di sicurezza, legalità ecc.). Ne viene fuori una ineluttabilità sulle scelte adottate o da adottare, anche quelle più fetide in ogni senso, che induce a lasciar perdere, a ritenere che non si possa cambiare nulla e che occorra, nel migliore dei casi, attestarsi sulla riduzione del danno. Individualmente.

E proprio su quest’ultimo dato – la riduzione del danno, il meno peggio, l’”io speriamo che me la cavo” – che fa conto la narrazione dominante, incaricata di delimitare il perimetro degli obiettivi possibili.

Dentro questo perimetro si è rinchiusa da sola, negli ultimi venti anni, la sinistra, anche quella “radicale”. E non è più riuscita a venirne fuori, a immaginare e a ri/diffondere nella società il virus (positivo) della possibile rottura di questo scenario.

Alla fine si è fatta avviluppare dalla narrativa felpata ma feroce dei conigli mannari alla Gentiloni e company, sostituto perfetto delle rodomontate di caudillos de noantri come Renzi, alimentando l’idea che negli interstizi si potesse ricavare qualcosina da spendere “per il popolo” (vedi la ditta Bersani-D’Alema, ecc).

E’ così ricominciato il carosello delle assemblee nei teatri, dei “nuovi inizi”, dei “contenitori” con un programma da adattare poi ai contenitori.

Si capisce allora che c’è bisogno, anzi urgenza, di cominciare a spazzolare via la narrativa dominante sulla ripresa economica alle porte, la legalità, i diritti civili a scapito dei diritti sociali (faccio lo ius soli, ma ti rendo precario tutta la vita e senza più welfare).

Ma se è urgente cominciare a raccontare la verità, a dire le cose come stanno per la “nostra gente”, è decisivo anche indicare il nemico, le soluzioni da adottare per complicargli l’esistenza e le alternative di società che si intendono perseguire.

Soprattutto, occorre ricominciare a far circolare nella società e nelle teste l’idea che il cambiamento è possibile e necessario, e che il cambiamento passa attraverso rotture dell’esistente.

In tal senso, rimettere apertamente in discussione i vincoli dei trattati europei e della Nato, e indicare che fuori da essi “c’è vita” e possibilità di alternative, significa liberarsi dell’impotenza e liberare il dibattito pubblico dalla ragnatela di fattori che rendono l’orizzonte immutabile.

L’idea della rottura è già di per sé un passo significativo verso il suo perseguimento, senza di essa ogni ipotesi di cambiamento diventa aria fritta. In qualche modo è questo il segnale che in occasione del Centenario della Rivoluzione d’Ottobre è venuto da quelle realtà che nel mondo stanno lavorando alla rottura del quadro esistente, in Europa come nel Maghreb, in America Latina come in Africa.

L’operazione verità risultante dallo sciopero generale del 10 e dalla manifestazione dell’11 novembre, indica oggi l’unico vero percorso possibile: un fronte politico e sociale di forze ben coordinate tra loro che perseguono la rottura del quadro esistente, si organizzano per farla crescere nel blocco sociale che condivide interessi materiali ed etici, si misurano con le soluzioni a breve, medio e lungo periodo per concretizzarla.

Il momento è adesso.

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