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Perché Toni Negri sbaglia a proposito dello Stato

di Luigi Pandolfi

A leggere la lunga intervista concessa recentemente da Toni Negri al manifesto, in cui si anticipano alcuni temi contenuti nel suo ultimo libro scritto a quattro mani con Michael Hardt, si rimane colpiti, in primo luogo, dalla stentoreità e dall’assertività con cui il filosofo padovano declina argomenti del tutto opinabili. Poi, dalla riproposizione di una visione deterministica dello sviluppo storico, che finisce, inevitabilmente, per tradursi in “incitamento” alla rinuncia politica.

La rivoluzione è un’ontologia, non un evento. (…) è lo sviluppo delle forze produttive, dei modi di vita del comune, lo sviluppo dell’intelligenza collettiva,

è l’inizio del suo ragionamento. Come non leggere, in questa formulazione, l’eco di quel determinismo marxiano, che, il marxismo stesso e gli eventi del Novecento, a cominciare dalla Rivoluzione d’Ottobre, si incaricheranno di correggere, rivedere, bocciare? D’altro canto, tutte le rivoluzioni, storicamente, sono state eventi, momenti di rottura, conquista del potere, con o senza l’uso della violenza.

A dirla tutta, le esperienze rivoluzionarie marxisticamente orientate del secolo scorso, hanno avuto come teatro soltanto contesti socioeconomici sottosviluppati, dall’Asia all’Africa, passando per i Caraibi, e non quelli dei principali paesi a capitalismo maturo che, proprio Marx, aveva indicato come possibili apripista nel processo rivoluzionario europeo.

Per una evidente eterogenesi dei fini, il successo di Marx non fu dato dalla prova della scientificità delle leggi che egli aveva posto alla base dello sviluppo storico, ma dalla forza che il suo pensiero diede all’azione trasformatrice della politica. Anche di quella politica che, nel dopoguerra, fu promotrice del welfare state e del cosiddetto modello sociale europeo. Un dato dal quale Negri sembra voler sfuggire, preferendo ragionare in astratto sull’intrinseca natura reazionaria e “nazional-popolare” di una visione politica che volesse coniugare, ancora, sovranità popolare, riforme economiche e dimensione nazionale.

È l’idea stessa di “confine” che viene messa sotto accusa, insieme a quella di proprietà, sia privata che pubblica:

Rousseau diceva che il più grande delinquente che sia nato è quello che ha detto “questa cosa è mia”. Ma esiste un delinquente ancora più grande, Romolo, che disse “questo confine è mio”.

Anche qui, il “confine” è inteso, declinato, in un’accezione negativa, come limes, insieme di fortificazioni pensate in chiave difensiva ed offensiva, tralasciando il fatto che non può esserci democrazia senza confine. Che si tratti dell’antica democrazia ateniese o della futuribile democrazia europea, il confine delimita sempre lo spazio entro cui si esercitano determinati diritti, quelli che stanno alla base del “contratto sociale”, per rimanere a Rousseau, ovvero del patto costituzionale, per usare un’espressione più moderna. Confine non come recinto etnico, linguistico, religioso, ma come perimetro entro il quale il popolo esercita la sua sovranità. Sul piano economico, lo spazio entro cui lo Stato è in grado di esercitare la sua funzione redistributiva, perequativa.

Cose ormai superate, secondo Negri, “ipotesi che restano confinate nell’agonia del secolo breve“. Ma: pur ammettendo che tali, semplici, considerazioni sarebbero da ostacolo alla comprensione di cosa è successo “tra il Novecento ed oggi”, rendendoci ostaggi di una antistorica distinzione tra “socialismo statale e nazionale e liberismo proprietario e privato”, quale sarebbe l’alternativa? “La riappropriazione del comune”, suggerisce Negri.

Niente di nuovo, se pensiamo alla società di “liberi produttori associati” di cui Marx iniziò a parlare già nei “Manoscritti economico-filosofici”. Si tratta di una visione della democrazia, se così si può definire, che fa a meno della mediazione statale e dei suoi istituti di rappresentanza, ponendo al centro i produttori, finalmente liberati dallo “sfruttamento proprietario ed estrattivo di valore”.

Il “comune”, dunque. Un concetto, tuttavia, che perde ogni valore nell’ambito dell’organizzazione capitalistica della produzione e degli scambi. Anche la semplice difesa dei “beni comuni” (acqua, natura, ecc.) è difficile in tale quadro. E cambiare tale “stato di cose” richiede potere, forza politica, Stato.

L’intervista si chiude con un monito, condivisibile: “Il problema è il comando della finanza. Il palazzo d’inverno oggi sono le banche centrali”. Certamente, perché le banche centrali sono oggi, più o meno, indipendenti dal potere politico, dai governi, dagli Stati, e sono funzionali all’ordine neo-liberista. In Europa, addirittura, si è realizzato il capolavoro della totale, assoluta, indipendenza della Bce e della sua transnazionalizzazione. Un caso unico al mondo, che ha fatto del Vecchio continente un laboratorio delle teorie monetariste più radicali.

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