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fattoquotidiano

Elogio gramsciano del padre e della patria

Risposta a Michela Murgia

di Diego Fusaro

Ho avuto la ventura di leggere uno scritto di Michela Murgia ove si parlava di “matria” (sic!), deridendo la vecchia patria e proclamando quest’ultima non solo moneta fuori corso, ma addirittura questione pericolosissima. Il testo mi pare interessante e non privo di spunti critici, perché nella sua pur sintetica struttura si cristallizzanno alcuni dei tratti salienti dell’odierno spirito del tempo, contraddistinto dall’ubiquitaria demonizzazione della nazione e della patria come concetti perigliosi e foriere di sciagure (dall’imperialismo al nazionalismo, ecc.).

Sarò dunque felice di replicare a Michela Murgia, preferendo la via socratica del dialogo a quella della stroncatura che invece, salvo errore, è via che Ella non disdegna nelle sue recensioni librarie televisive. Sarò altresì lieto di confrontarmi con Lei, nella speranza che Ella si converta dalla via del processo in assenza del processato, alla più nobilitante via del dialogo socratico secondo l’aureo principio del “logon didonai”.

Sono pienamente d’accordo con Murgia, allorché sostiene che la patria può essere foriera (e storicamente è stata anche tale) di sciagure. Non condivido, tuttavia, la conclusione che Ella ne inferisce: occorre buttare a mare l’idea di patria, ciò che equivale, come si dice, a buttare via il bambino con l’acqua sporca.

Al contrario, v’è bisogno di educazione e di filosofia, affinché la patria – ossia lo spazio reale e simbolico della via dei popoli – non precipiti nel nazionalismo belligerante e irrispettoso.

Occorre intanto sottolineare che la rimozione delle patrie e delle nazioni in tempo di nazionalismi e patriottismi imperialistici era senz’altro emancipativa. Non v’è dubbio. Ma diventa oggi il contrario, essendo di fatto il primo dei desiderata degli agenti apolidi e postnazionali della classe dominante postborghese: i quali vedono nelle patrie e nelle nazioni altrettanti ostacoli per lo sconfinamento del mercato deregolamentato e per la spoliticizzazione integrale dell’economico. Non ci ha forse insegnato Carlo Marx a pensare storicamente e a collocare le costellazioni del pensiero e della produzione simbolica nel cangiante quadro dei rapporti di forza storicamente determinati?Il concetto di patria, che certo ai tempi di Hitler era regressivo, non era forse nell’Ottocento un concetto progressista ed emancipativo? Nella Cuba di Che Guevara (“patria o muerte”) non era forse la patria la via privilegiata dell’anti-imperialismo made in Usa e, dunque, di un comunismo a base apertamente patriottica? È del tutto evidente che il senso di tale concetto e la sua direzione politica non sono immutabili, ma variano nel concreto contesto dei diagrammi di forza. Il concetto hitleriano di patria va respinto, proprio come va respinto il concetto liberista di “superamento delle patrie” a favore del one world “in-globalizzato”.

Senza avvedersene, Michela Murgia, inneggiando all’annichilimento di patrie e nazioni, si trova oggi (sottolineo: OGGI) dalla stessa parte della barricata di Draghi e Monti (sì, proprio lui, “l’uomo dei mercati”) e non certo dei lavoratori della Fiat Mirafiori, che evidentemente chiedono più Stato, più protezionismo, più diritti garantiti per mezzo della politica di uno Stato sovrano in grado di governare l’economico in fase di denazionalizzazione. Se fossimo nei tempi di Hitler, Murgia avrebbe ragione: contro il patriottismo! Ma poiché siamo nel tempo degli apolidi signori della finanza post-nazionale, ha torto: viva il patriottismo dei popoli che resistono al mondialismo dei mercati! In secondo luogo, Michela Murgia pare non avere contezza della distinzione – centrale nell’opera carceraria del suo conterraneo Gramsci – tra nazione e nazionalismo, patria e patriottismo. Gramsci, ad esempio, valorizza la nazione senza essere nazionalista. Non cede, in altri termini, al presupposto mendace e oggi dilagante secondo cui per evitare il nazionalismo bisogna distruggere le nazioni (il sogno mondialista dei mercati!), per evitare il maschilismo e il paternalismo bisogna sbarazzarsi della figura del maschio, del padre e, più in generale, della famiglia, e così via.

In terzo luogo, Michela Murgia, in buona compagnia peraltro, sembra contrapporre in modo rigido patriottismo e cosmopolitismo. Eppure Fichte, nel suo testo “Il patriottismo e il suo contrario”, aveva chiaramente mostrato come il vero cosmopolita è colui che ha una patria e che non può esservi cosmopolitismo se non come rapporto solidale tra patrie plurali. Del resto, oggi si confonde troppo spesso tra mondialismo e internazionalismo: il mondialismo è l’annichilimento delle patrie a beneficio dell’open space del mercato planetario deregolamentato; l’internazionalismo è il rapporto tra nazioni (inter nationes) e tra patrie che si rapportano secondo relazioni di libertà, uguaglianza e solidarietà. Paradossalmente, senza nazioni e patrie non può esservi l’internazionalismo: e infatti prevale solo il mondialismo del mercato.

L’epoca dell’“evaporazione del padre” (Lacan) come simbolo della Legge e della misura coincide, lo sappiamo, anche con il tempo dell’eclisse della patria gramscianamente intesa come luogo del radicamento nazionale-popolare, storico e culturale di un popolo, ossia come provenienza originaria della sua vicenda e come nesso vivente con la terra e con l’ethos. In antitesi con la narrazione egemonica, il patriottismo non coincide, se non in forma patologica, con il nazionalismo belligerante, ma con l’attitudine – con le parole dell’Hegel dei Lineamenti di filosofia del diritto (§ 261) – a “considerare la comunità (Gemeinwesen) come la base sostanziale e il fine”.

Il capitalismo “edipico” e mondialista uccide oggi il padre e, insieme, la patria, che ne è l’equivalente simbolico sul piano della vita dei popoli, secondo il nesso etimologico tra la nascita e la nazione, tra il padre e la patria.

La casa come fissa dimora della famiglia (oikos) e la patria come fissa dimora dei popoli sono destrutturate dalla furia del dileguare del capitalismo flessibile, perennemente in lotta contro tutti gli spazi solidi e regolamentati, stabilmente abitabili in forme comunitarie solidali e non provvisoriamente attraversabili individualmente in nome della “libera circolazione delle merci e delle persone”.

Nel quadro del nuovo assetto della società globale della “costellazione postnazionale” (Habermas), si assiste al tramonto di tutti i tradizionali riferimenti paterni, dal pater familias alla patria: come suggerito da Luigi Zoja, “l’essenza del padre si fa inafferrabile perché egli viene maternizzato” (Il gesto di Ettore, p. 274), privato dei suoi tratti specifici e, dunque, destituito della sua funzione.

Comments

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Francesco Zucconi
Saturday, 18 November 2017 09:18
Bellissima la risposta di Fusaro e centratissimo
l'intervento di Barone.
Ricostruire una visione progressista
che abbia la Patria come uno dei suoi valori
fondanti è l'unico, ma quasi insormontabile
problema per ricostituire un pensiero
a sinistra capace di incidere nella realtà.
È intensificando la generativita' spirituale e materiale
della e nella propria fissa dimora spirituale,
costruita dentro una lingua, legata a un suolo e verticalmente orientata alla autocospapevolezza
che si può
cominciare a sciogliere la tela infernale
che il sof power anglosassone
ha steso sopra, sterilizzandola,
la sinistra del mondo latino...
Perché sia stato così facile è un discorso che,
credo, dovrebbe passare dal rifare i conti
con filosofi quali Giovanni Gentile
o giganti come un Rene' Gu (e)non.
Autori non integrati nel mondo spirituale
della sinistra odierna.
Possiamo veramente esser stupiti
della sudditanza dell'attuale sinistra,
in economia,
ai teorici dell'economia sociale di mercato
e, in generale,
al pensiero unico del politically correct?
Ma dove vogliono arrivare coloro che hanno
tali riferimenti culturali se non che ad entrare,
senza neppure la certezza di esser ricevuti,
nelle anticamere dei segretari dei veri padroni?
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Eros Barone
Friday, 17 November 2017 22:42
Il termine 'matria' non lo ha coniato Michela Murgia, ma Mario Luzi, uno dei più grandi poeti italiani della seconda metà del Novecento. Sennonché il punto che non deve essere ignorato, poiché si trova, ad un tempo, a monte e a valle del problema della paternità, è quello costituito dall’abnorme e crescente femminilizzazione del corpo docente nelle istituzioni scolastiche. Si tratta, per i suoi riflessi antropologici, educativi, civili e sociali, di un discorso sgradevole ma importante, così come sono sgradevoli ma importanti tutte le verità che si conoscono ma che, per una serie di motivi, o non vengono formulate o vengono sottaciute. Il corpo docente è ormai un corpo femminile. Alle elementari solo maestre, alle medie pochi professori, alle superiori una maggioranza di professoresse. La femminilizzazione della scuola è una valanga inarrestabile in tutti i paesi avanzati, in Italia più che altrove, quantunque, a causa dell’insipienza dei ceti di governo, ciò sia ben lungi dal costituire un problema. In effetti, l’‘arrière-pensée’ di tali ceti è che una massa di donne sia meno sindacalizzata e meno forte di una massa di maschi. Il fenomeno è ovviamente determinato, in una società dove contano solo il denaro e l’immagine, dallo scarso ‘appeal’ della posizione e del ruolo sociale del docente, strettamente connessi al livello della retribuzione economica. Questo fattore determina, fra l’altro, l’organica debolezza degli insegnanti come ceto sociale e i drastici limiti entro cui essi sono in grado di far sentire il proprio peso dal punto di vista contrattuale. Basta rivolgere uno sguardo ai pochi insegnanti maschi, categoria in via di estinzione alla quale io stesso appartenevo: età oltre i cinquant’anni, vestiti dimessamente, un tempo barbuti di lontana estrazione sessantottesca, visione del mondo vaga e oscillante, ‘pensiero debolissimo’, senso di sconfitta e di marginalità. Le poche eccezioni non fanno testo. A questo proposito, ricordo bene come un congresso sindacale di qualche tempo fa, cui ebbi occasione di partecipare, avesse offerto una plastica rappresentazione, con la sua necessaria prevalenza maschile, del grado di proletarizzazione che ha raggiunto la categoria dei lavoratori della scuola. Una proletarizzazione di questa categoria che è inscindibilmente intrecciata alla femminilizzazione, la quale ne è, ad un tempo, causa ed effetto. In un periodo storico dominato da quella che i sociologi definiscono ‘aura nera’ (ossia dalla prevalenza del ‘principio femminile’), la crisi della scuola è perciò anche il riflesso della crisi storica del ‘principio maschile’ e della ‘società senza padri’ (e senza educatori) che tale crisi ha partorito.
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