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Schizofrenie borghesi tra Roberto Spada e Jenny Savastano

di Militant

La vicenda di Ostia si iscrive in un quadro di relazioni sociali deteriorate, in cui il rapporto tra criminalità e fascismo si rafforza col procedere della crisi. Allargando la visuale, riusciremmo però a individuare la cornice culturale entro cui si manifesta la schizofrenia borghese che manipola le mitologie della periferia. Ci viene in soccorso un’intervista a Roberto Saviano, ingegnere delle nuove mitopoiesi ribelli. Immediatamente dopo l’aggressione di Roberto Spada al giornalista Daniele Piervincenzi, Saviano si contraddistinse per la posizione più dura: «Ostia capitale di Mafia. […] Per quanto mi riguarda, alla luce di tutto questo, combattere CasaPound significa fare antimafia». Nel congeniale ruolo di sostituto procuratore nazional-popolare, il Nostro invocava la repressione più severa: nessuna pietà per Spada e soci, anzi: indagare anche gli eventuali referenti politici. Molto bene, finalmente qualcuno che dice le cose come stanno, abbiamo pensato anche noi. Questo il Saviano di lotta, il Pm mediatico che a ideologie unificate proclama il suo j’accuse legalista. C’è però anche il Saviano di governo, artefice di una nuova e perversa educazione criminale. A Repubblica spiega il suo détournament espressivo: «Nel libro Gomorra parlo delle vittime, negli articoli racconto la resistenza dei magistrati. Nelle serie volevo che il punto di vista fosse quello dei boss». Dietro questo pensiero, persino eccessivamente sincero, c’è una visione del mondo che produce mostri sociali.

Saviano ci dice che nella cultura “alta” – quella dei libri e dei giornali – i protagonisti – va da sé, positivi – sono le vittime. Nella cultura “bassa”, mercificata, dove girano soldi e ascolti, i protagonisti divengono i carnefici, “i boss”. Nonostante le accortezze di superficie, quegli stessi boss si trasformano, nella sottocultura che invade televisioni, social e intrattenimento di massa, in esempi positivi, nuovi riferimenti ribellistici per una periferia ammalata di malavita. Il criminale – i suoi linguaggi, i suoi vestiti, le sue debolezze, la sua cattiveria, l’apparato mafioso entro cui gravita – diviene codice di comportamento. Le vittime reali mutano di senso, insulso sfondo scenografico della più entusiasmante guerra tra clan, nel far west dove a vincere è il più forte, il più bello, il più furbo. L’operazione culturale trasforma il paesaggio sociale della periferia: il ribelle non è più – etimologicamente – chi insorge contro l’autorità costituita (quindi il militante politico, l’agitatore, il rivoluzionario, chi cioè mette in gioco la propria vita), ma il criminale, il malavitoso, il mafioso (chi cioè gioca sulla vita degli altri). Si tratta di uno stravolgimento recente, costruito ideologicamente: da una parte, la demonizzazione del militante politico (presentato non come “pericoloso”, ma come “sfigato”), dall’altra l’estetizzazione del delinquente comune, meglio se parte di un ingranaggio organizzato sulla sopraffazione. Questo processo va puntualmente in cortocircuito quando virtuale e reale si confondono, come nel caso di Roberto Spada. Roberto Spada si è comportato esattamente come un Jenny Savastano qualunque. Eppure il suo creatore ne prende le distanze, perché sa, lui, che è tutto un gioco, è tutta finzione, anzi: fiction. Non lo sanno quei milioni di giovani proletari che aspirano a una malavita idealizzata perché così imposta come canone alternativo. Il risultato è una periferia dove false mitopoiesi sfornano batterie di libanesi e savastani, mandando in cortocircuito quella borghesia che si eccita alla vista del sangue e del crimine purché rimanga sullo schermo. Quando questa perversione diventa realtà, l’unica risposta è il carcere, possibilmente senza fine pena. Una delinquenza che attira il safari del centro, munito di telecamere a documentare lo schifo di sub-umani da recintare e sanificare. Ma questa borghesia che gioca col culo degli altri non fa altro che alimentare un fascino criminale sulla pelle di giovani che rovinano le proprie vite in processi emulativi senza senso. Questo il dispositivo culturale alla base del degrado umano della periferia.

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