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linterferenza

Lo Zimbabwe di Robert Mugabe

Riccardo Achilli

Si chiude la lunghissima parentesi di potere, iniziata nel 1980, di Robert Mugabe. Nelle migliori tradizioni africane, si sta verificando un pochino quello che è successo con il “golpe geriatrico” con cui, in Tunisia, Ben Alì sostituì in modo incruento un Bourguiba oramai troppo anziano per comandare, preservando i gruppi di potere legati al regime.

Mugabe, oramai a 93 anni, stava evidentemente preparando la successione a favore della moglie Grace, di 41 anni più giovane, con il cervello di una “sguattera”, che lo ha spinto a destituire il delfino naturale, il “coccodrillo” Emerson Mnangagwa. Solo che il coccodrillo, compagno di armi di Mugabe sin dai tempi della Bush War con la quale il regime bianco di apartheid della ex Rhodesia venne abbattuto, è l’uomo di riferimento degli apparati di intelligence e dell’Esercito: ex Ministro della Sicurezza dello Stato, della Giustizia e della Difesa, ha solide relazioni con i militari che hanno deposto Mugabe.

Finisce malinconicamente una dittatura feroce e cleptocrate, ma attenzione: dittatura, ferocia e cleptocrazia sono termini occidentali. Non appartengono a categorie africane della politica, dove la democrazia liberale non fa parte del retaggio collettivo, perché non c’è mai stata una borghesia nazionale vera e propria, se non la piccola consorteria di affaristi cresciuti all’ombra dei padroni coloniali, di cui parlava Fanon.

Che poi, spesso dietro le bandiere delle milizie di liberazione nazionale, ha preso il potere, in Zimbabwe come pressoché ovunque nell’Africa nera, su popoli che spesso ignoravano i concetti di istituzioni politiche ed amministrative unitarie o di unità nazionale, dove il conflitto inter-etnico sostituiva e sostituisce integralmente quello di classe, ed in cui gli imperi precoloniali erano basati perlopiù sulla dominazione di una etnia, che non di rado assumeva forme di razzia rispetto alle etnie soggiogate.

Quindi stiamo parlando dell’Africa, rispetto alla quale un dittatore nazionalista (nel senso che predilige la sua etnia sulle altre che vivono dentro Stati costruiti artificialmente dai colonizzatori) che assume la veste di capo-tribù e costruisce una corona di servitori tenuti insieme dalla corruzione è un fatto considerato molto meno scandaloso che da noi.

La verità è che Mugabe, nonostante quello che dicono i media occidentali, era ed è amato da molta parte del suo popolo. Perché ha abbattuto il regime di apartheid bianco, perché ha posto fine ai latifondi dei bianchi, redistribuendo la terra in una riforma agraria tanto radicale quanto ingenua (i nuovi agricoltori neri, titolari di piccoli appezzamenti derivanti dalla divisione dei latifondi, sui quali non potevano più fare agricoltura estensiva, non avevano il know how ed i capitali per farla in forma intensiva, e la produzione agricola nazionale è tracollata), perché ha promosso, con la sua politica di “indigenizzazione” dell’economia, un tentativo, fallito anche qui per mancanza di know how e capitali, di take over delle imprese straniere da parte dei locali. Perché ha osato ripudiare il debito estero che strangolava il Paese e lo teneva legato unilateralmente da vincoli neocoloniali alla ex potenza britannica. Perché ha indigenizzato l’Esercito, cacciando via gli “istruttori” britannici, che lo comandavano in luogo dei suoi generali. Perché ha spesso minacciato di nazionalizzare le imprese straniere che, in condizioni di schiavismo, sfruttano le risorse minerarie enormi del Paese. Ed ha tentato di creare compagnie nazionali pubbliche che facessero loro concorrenza. Perché ha cercato l’aiuto economico cinese, girando le spalle agli Occidentali. Proclamandosi sempre, a torto o a ragione, un socialista, autodefinizione che gli attuali politici occidentali aborriscono.

Certamente ci sono stati orrori sanguinari, certamente una politica monetaria folle, che ha monetizzato la avventuriera partecipazione al conflitto congolese, ha prodotto la più classica delle iperinflazioni monetarie, con un svalutazione massiccia della valuta nazionale (tanto da costringere il Governo ad adottare valute estere, come il dollaro ed il Rand sudafricano, come valute ufficiali) ed il parallelo fiorire di un mercato nero in cui circolavano valute pregiate e beni di importazione.

Ma il fallimento economico dello Zimbabwe è stato pilotato da fuori, dalla ex metropoli britannica (era noto l’astio fra Mugabe e Blair) e dagli USA. Perché quest’uomo aveva cercato di conquistare la sovranità nazionale e di liberarsi dall’imperialismo. Una economia miserrima, senza industria di sostituzione delle importazioni, è precipitata nella miseria più nera a causa delle pesanti sanzioni commerciali imposte da USA e UK, e della scelta poco saggia di imporre forme di protezionismo senza una industria interna da proteggere.

Si chiude un tentativo di emancipazione nazionale, in modo fallimentare e malinconico, nella più classica farsa africana. Nessuno si aspetti che il coccodrillo, rimesso al potere a fil di baionetta, prometta, con la sua acquiescenza alle potenze neocoloniali, un futuro migliore per lo Zimbabwe.

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