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sinistra

Per tutti i gusti

di Salvatore Bravo

Per tutti i gusti. La Cultura all’epoca dell’età dei consumi è il testo di Bauman il quale è una summa delle tendenze distruttive del turbocapitalismo come direbbe Alain De Benoist. Il turbocapitalismo si caratterizza per il movimento senza mediazione, la fatica del concetto è stata sostituita con la celerità dell’accumulo fine a se stesso. Il movimento del capitalismo avanzato assomiglia ai paradossi di Zenone, si avanza per restare sempre in un punto, per cui il futuro è già reificato, cancellato dalla prospettiva temporale. Il futuro è come il presente, una ossessiva ripetizione in nome del plusvalore, ci si muove secondo l’imperativo della ragione strumentale per orientarsi verso il nichilismo realizzato. Le merci, mentre invadono ogni spazio, banale dirlo, anche quello mentale, rendono l’umanità astratta ed alienata, il connubio è inquietante, poiché minaccia la sopravvivenza della specie. Bauman parla del cacciatore come destino, la cultura asservita al dominio economico produce cacciatori, non più persone, la cui finalità utopica è la caccia perenne:

In una società di cacciatori, la prospettiva della fine della caccia non è allettante, ma orripilante: sarebbe, in fondo, un momento di fallimento personale. I corni da caccia chiamerebbero a nuove avventure, i segugi latrerebbero, risvegliando i deliziosi sogni di cacce del passato; tutt’intorno, gli altri sarebbero all’inseguimento serrato della loro preda, non ci sarebbe fine all’eccitazione e al gioioso clamore...

Solo io me ne starei in disparte, escluso e spinto fuori dalla compagnia, indesiderato, privato del divertimento: una persona a cui viene consentito di assistere agli svaghi degli altri da dietro a una recinzione, senza però la possibilità di prendervi parte. Se la vita della caccia è l’utopia dei nostri giorni, è, contrariamente a quelle che l’hanno preceduta, un’utopia di avventura senza fine. È, in realtà, una strana utopia. Quelle precedenti erano attratte dalla prospettiva che la strada e le fatiche finissero, mentre l’utopia dei cacciatori è un sogno in cui la strada e le fatiche non finiscono mai. Non è la fin del viaggio a sostenere lo sforzo, ma la sua infinitezza”. (Bauman Per tutti i gusti La Cultura all’epoca della società dei consumi, Laterza, Bari, 2011, pag. 17)

La società della fatica, della reificazione organizzata, ha costruito la gabbia d’acciaio che non ha visibilità. Il movimento è infinito, lo spazio per esseri liberi si riduce, il buio della caverna diventa sempre più opprimente eppure il movimento perenne, dal turismo di massa alla palestra ad ogni costo, impediscono di pensare il vero dei rapporti di produzione. Il movimento è il velo di Maya che cela alla vista la reificazione di massa. La disperazione trova nella caccia all’ultimo desiderio, alla hobbesiana lotta di tutti contro tutti, il compensativo per la sopportazione dell’insopportabile, per cui la vita è solo sopravvivenza. La caccia è una giustificazione per non guardare al di là dei propri interessi, credendoli separati dagli altri. Il compito della sinistra è di ricucire il vulnus della separazione, rendendo l’astratto concreto. Riportando il movimento olistico della dialettica nell’astratto del capitale. Bauman analizza l’industria culturale stigmatizzandola nella sua essenza: l’industria della separazione e dell’illusione. La cultura da evento emancipativo e collettivo si è ribaltata in esperienza dell’astratto, in luogo dell’ideologia in senso marxiano. Il cacciatore è onnivoro, vive l’esperienza culturale nell’ottica dell’irrilevanza, ovvero la cultura è intrattenimento per il consumatore culturale, pertanto non è esperienza di formazione, di elaborazione di una coscienza di sé e di classe, ma svago elitario da consumare in funzione dell’esserci narcisistico: 

La nostra è una società di consumatori in cui la cultura, al pari del resto del mondo sperimentato dai consumatori, si presenta come un magazzino di beni concepiti per il consumo, tutti in competizione per accaparrarsi l’attenzione insopportabilmente fugace e distratta dei potenziali clienti, e tutti in cerca di mantenere quell’attenzione per più di un battito di ciglia. Come abbiamo osservato in principio, la cancellazione dei rigidi standard e di ogni criterio imposto, l’accettazione imparziale e senza precedenze assegnate di tutti i gusti, una ‘flessibilità’ delle preferenze (che è oggi il nome politicamente corretto della mancanza di spina dorsale) e la temporaneità e incoerenza delle scelte sono il marchio della strategia ora raccomandata come la più saggia e giusta. Il segno distintivo che connota l’appartenenza a una élite culturale sono oggi un massimo di tolleranza e un minimo di schizzinosità. Lo snobismo culturale consiste nella negazione ostentata dello snobismo. Il principio dell’elitismo culturale sta nella sua capacità di essere onnivoro, cioè di sentirsi di casa in qualunque ambiente culturale senza considerarne nessuno come casa propria, e ancor meno l’unica casa propria. Un recensore e critico televisivo della stampa culturale britannica lodò nel 2007-08 un programma di Capodanno perché prometteva di «offrire un intrattenimento musicale abbastanza vario da soddisfare i desideri di tutti». «Il bello di questa offerta universale», spiegava, «sta nel fatto che puoi entrare e uscire dal programma a seconda di quello che preferisci». È, questa, una lodevole e di per sé ammirevole qualità dell’offerta culturale, in una società in cui le reti sostituiscono le strutture, e il gioco ininterrotto di collegarsi e scollegarsi da quelle reti e la sequenza interminabile di connessioni e disconnessioni prendono il posto della determinazione, della lealtà dell’appartenenza”. (ibidem pag.11)

Il perpetuum mobile del cacciatore nell’epoca del capitalismo assoluto, come lo definirebbe Costanzo Preve, si caratterizza per sottrarre dalla sfera del quotidiano parole quali giustizia, equità, diritti sociali, il loro posto è stato preso dalla chiacchiera oscena, dal selfie verbale che non cerca altro che sfuggire dal significato del proprio tempo, dal senso collettivo dell’esistenza. Il capitale necrotizza l’esistenza razionale, capace di discernimento critico per sostituirla con la competizione – caccia, la quale deve segnare e marcare le nuove generazioni:

Diversamente dalle utopie del passato, l’utopia della modernità liquida – l’utopia, o ‘u-via’, dei cacciatori, l’utopia di una vita ruotante intorno alla ricerca di una moda costantemente sfuggente – non dà senso alla vita, autentico o fasullo che sia. Essa semplicemente contribuisce a scacciare dalla nostra mente la questione del significato della vita. Avendo trasformato il viaggio della vita in una serie infinita di misure egoistiche, facendo di ciascun episodio vissuto un’introduzione al successivo della serie, essa non fornisce alcuna opportunità di considerarne la direzione, o il significato della vita in quanto tale. Quando una simile opportunità infine si presenta, cioè nei momenti in cui si rinuncia o si viene esclusi dal modo di vita del cacciatore, è di regola troppo tardi perché la riflessione possa influenzare il corso della propria vita e della vita di chi ci sta intorno. È troppo tardi per muovere obiezioni alla forma di vita ‘effettivamente esistente’, e di sicuro perché la messa in discussione del suo senso porti risultati concreti”. (ibidem pag.18)

La trasformazione della cultura a funzione di PIL ed a oppiaceo di massa, vi è da avere nostalgia della “religione oppio dei popoli”, non deve scoraggiare, dinanzi all’irrilevantocrazia culturale, all’omologazione di tutte le prospettive, tutti i gusti sono legittimi, purchè producano denaro, bisogna ritrovare le ragioni per una nuova responsabilità sociale: 

Opporsi allo status quo richiede coraggio, data la forza terrificante dei poteri che lo sostengono. Ma il coraggio è una qualità che gli intellettuali – un tempo noti per il loro ardimento, o la loro davvero eroica audacia – hanno perso, nella loro corsa verso nuovi ruoli e ‘nicchie’ in qualità di esperti, guru accademici e celebrità mediatiche. Si sarebbe tentati di vedere in questa moderna versione della trahison des clercs una spiegazione sufficiente per il rompicapo dell’improvvisa rinuncia, da parte delle classi colte, ad assumersi responsabilità e a impegnarsi attivamente nelle faccende umane. Ma a questa tentazione dobbiamo resistere. Nascoste dietro l’indifferenza nei confronti di ogni questione a parte quelle di affari o di interessi di casta, ci sono ragioni più importanti della vera o presunta vigliaccheria delle classi colte, o della loro crescente preferenza per la convenienza personale. Le classi colte non sono mai state sole, e non lo sono tuttora, in simile misfatto. Hanno viaggiato verso la loro posizione attuale in affollata compagnia: accanto ai crescenti poteri economici extraterritoriali, nel bel mezzo di società che, con sempre maggiore forza e in modo sempre più unilaterale, impegnano i loro membri nel ruolo di consumatori di beni (consumatori che si preoccupano delle dimensioni della loro fetta di pane più che di quelle dell’intera pagnotta) piuttosto che in quello di produttori responsabili della quantità e qualità di quei beni; e in un mondo sempre più concentrato sull’individuo e che lascia all’individuo il compito di trovare la propria strada per far fronte a disagi creati nella società. È stato nel corso di questo cammino che i discendenti degli intellettuali di età moderna hanno subìto una trasformazione non dissimile da quella che è toccata al resto dei loro compagni di viaggio”. (ibidem pag.18)

L’analisi di Bauman coglie la responsabilità degli intellettuali nell’attuale condizione di decadimento, irretiti dai media, servi dei servi, non hanno la cognizione della loro condizione di sfruttati e nel contempo di puntellatori del sistema. L’analisi storica svolta da Bauman ci aiuta a capire il presente per un futuro che sia un’alterità prospettica. Bisogna passare per la strada angusta del presente, facendo della proprio quotidiano il catalizzatore di un’altra vita possibile, ricucendo parole ed atti, teoria e prassi, per rendere credibile e dunque discutibile, in modo dialettico, un’alternativa politica al cui interno si muovano piani etici che consentano di rimappare l’eterno presente del capitale. La distanza critica rispetto alla cultura dell’immediato è già concettualizzazione, la quale potrebbe donarci un nuovo senso d’esistere, perché non c’è salvezza nell’individualismo acefalo dei nostri giorni. Non secondaria è la discrepanza tra l’individuo de jure ed individuo de facto, poiché la nostra società ha fatto dell’individualizzazione il suo paradigma, il cavallo di Troia con cui smantellare ogni comunità e con essa i diritti individuali, ma la discrepanza svela che tra l’astratto ed il concreto corre a separarli la condizione materiale dei rapporti di produzione. Dunque mentre si osannano i processi che favoriscono l’individualizzazione della società dell’abbondanza, si occulta che non per tutti è il regno dei desideri, i più rimarranno dietro le vetrine dell’abbondanza ad inseguire i sogni degli altri. L’assenza della sinistra si trasforma nell’annichilimento della prassi e con essa della speranza storica di un nuovo inizio, di un agere che riporti la storia tra di noi. Gli intellettuali dunque sono ad un bivio, dietro il quale, vi è la minaccia della loro scomparsa se non si assumono responsabilità dinanzi alla storia.

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