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linterferenza

Gli equilibri di potere tedeschi si spezzano definitivamente

Riccardo Achilli

E’ oramai ufficiale ciò che sottotraccia si intuiva oramai da qualche settimana: il tentativo della Merkel di formare un (peraltro fragilissimo) Governo “Giamaica” fallisce ufficialmente. A farlo fallire sono quei liberali che hanno prodotto l’ex Ministro delle Finanze Schaeuble, che con il suo “non-paper” di fine mandato ha lanciato proposte (come la creazione di un rischio-Paese per i portafogli di titoli pubblici detenuti dalle banche) che, ove attuate, comporterebbero il default di interi Stati membri, come l’Italia, ed il tracollo del loro sistema bancario, controbilanciandolo con una presa in carico integrale delle loro politiche economiche da parte di una sorta di “FMI europeo”, l’ESM riformato. In sostanza, in cambio dei necessari prestiti per sostenere economie fallite e sistemi bancari e dei pagamenti in corto circuito, l’ESM prenderebbe in carico tutte le politiche economiche (fiscali, di bilancio, del lavoro) dello stato membro, imponendo una dose massiccia e senza paracadute di riforme strutturali di tipo neoliberista. Poiché l’ESM sarebbe controllato in misura maggiore dalla Germania, che ne sarebbe il principale contribuente, tramite tale veicolo Schaeuble otterrebbe il risultato di far fallire economie manifatturiere tradizionalmente concorrenti della Germania e di metterle sotto tutela finanziaria e di politica economica principalmente della Germania, tramite un organismo tecnico non legato ad alcuna legittimazione politica o elettorale.

In questo modo realizzerebbe quel Lebensraum economico, fatto di mercati interni completamente liberalizzati e di domande interne totalmente depresse, che consentirebbe di esercitare ulteriori pressioni concorrenziali al ribasso sui costi di produzione interni alla Germania, perpetuandone così il modello ordoliberista.

Si tratta, in sostanza, della versione aggiornata dello strisciante anti-europeismo erhardiano. Già negli anni Cinquanta, il Ministro delle Finanze (e poi Cancelliere) Ludwig Erhard aveva formulato una visione dell’integrazione europea meramente economicistica, opponendosi ad ogni avanzamento di tipo politico ed istituzionale. In questo modo, la Germania avrebbe potuto preservare il suo modello ordoliberista, esportandolo agli altri Stati membri tramite il vincolo esterno che la più competitiva economia industriale tedesca era in grado di esercitare. Il tutto senza nessuna legittimazione democratica e senza opinioni pubbliche a disturbare.

Evidentemente, tale disegno rende del tutto impossibile un accordo politico sia con i Verdi, sia con l’ala europeista della Cdu incarnata dalla Merkel. Non è nemmeno una questione legata alle quote di migranti, che di fatto era stata risolta, da parte dei Verdi, accettando i tetti massimi voluti dai Liberali. E nemmeno una serie di vedute opposte su temi quali la previdenza o i vincoli ambientali alle produzioni industriali. Si tratta di qualcosa di più profondo: con la crisi dei debiti sovrani del 2010-2011, con la crescita, reale e percepita, dei rischi di dissesto finanziario e di possibile caos di bilancio legati all’esplosione dei rendimenti dei debiti pubblici dei PIIGS rispetto all’area “core” dell’euro, incrementati da politiche monetarie necessariamente lassiste, che nell’immaginario tedesco ricordavano Weimar, la Germania è tornata verso forme di nazionalismo etnocentrico. La paura è stata alimentata da molti canali: il timore di doversi “fare carico” di quote non pagabili di debito pubblico di altri Stati membri, pregiudicando un (più presunto che reale, stante l’andamento del debito implicito, legato soprattutto al dissesto dei conti previdenziali) equilibrio dei conti pubblici tedeschi, il timore di un contagio sul proprio mercato bancario interno, e persino l’esplosione di un gigantesco surplus di Target 2 è stato usato dagli economisti liberisti come Sinn, come spauracchio di possibile dissesto del modello tedesco di benessere ed ordine interno.

La verità è che la Germania, semplicemente, non vuole assumersi il ruolo di Paese leader dell’Europa, perché ciò comporterebbe la necessità di assumersi i rischi finanziari e creditizi degli altri Stati membri. Significherebbe accettare forme di mutualizzazione dei debiti pubblici nazionali, strumenti di condivisione del rischio di default dei sistemi bancari nazionali, realizzare importanti programmi di spesa per aiutare i Paesi periferici. E tutto ciò non è soltanto un pericolo per il suo peculiare modello economico interno, basato sul contenimento della spesa e dei costi interni, per evitare derive inflazionistiche incompatibili con la sua egemonia sui mercati esteri, mediata da ragioni di scambio favorevoli (a loro volta legate ad una politica economica anti inflazionistica ed a un elevato livello di produttività dei fattori). E’ anche una minaccia culturale, psicologica, semi-conscia, che alberga da sempre nell’animo germanico, legata ad un patologico senso della responsabilità di tipo protestante.

Quando percepisce il suo modello in pericolo, la Germania si chiude. Dentro un nazionalismo che, nella parte più moderata della sua destra (ed in ampi settori della sua sinistra socialdemocratica) assume la veste del nazionalismo economico, della difesa ortodossa del suo modello ordoliberista, che implica la distruzione di chi le sta attorno, più che l’esercizio del comando (che implica la protezione di chi vi è sottomesso). Nella parte meno moderata della sua destra, che sta crescendo rapidamente, come mostrano le performance di Afd, tale nazionalismo assume echi etnocentrici, sia nel rifiuto dell’immigrazione (nonostante il fatto che l’enorme immigrazione turca abbia, nei decenni, indebolito le fisiologiche resistenze interne, che però riaffiorano) sia in una retorica (piuttosto usata dai leader di Afd) secondo la quale il popolo tedesco deve liberarsi dal senso di colpa del suo passato nazista, anche tornando ad usare con più frequenza ed orgoglio parole come Volk o Vaterland, parole che nell’immaginario tedesco sono state a lungo imbarazzanti.

In questo precipitare a destra della Germania, alimentato dalle sue oscure paure e dall’incapacità di fare i conti con la parte inconfessabile della sua storia, ma anche con vere e proprie tare culturali ed esistenziali, i baluardi europeistici, ovvero l’asse Merkel-socialdemocratici, che avevano avuto consenso negli ultimi vent’anni, da un lato promettendo con Schroeder alle élite operaie, tradizionali alleate della borghesia industriale nel garantire la continuità del modello tedesco, un ammodernamento ed indurimento dello stesso mediante Agenda 2010, di fronte al rallentamento della crescita economia del 2001-2002 ed all’aumento del rapporto fra debito pubblico e PIL, e dall’altro, con la Merkel, promettendo una “difesa” dei fondamentali economici e finanziari tedeschi dal contagio della crisi dei PIIGS, mediante un europeismo di tipo “predatorio”, volto cioè non ad incoraggiare una nuova fase di crescita congiunta, ma la mera estensione del “german way of business” a tutti gli altri membri, mediante le politiche di austerità combinate con le riforme strutturali neoliberiste. In sintesi, l’asse fra l’area maggioritaria, di orientamento blairiano, della Spd, e la Cdu di Angela era garantita da una linea di continuità programmatica: indurire ed approfondire l’ordoliberismo all’interno del Paese, per poi estenderlo al resto d’Europa, sfruttando la crisi, e difendendo gli assetti economici e sociali tradizionali degli ultimi sessant’anni di vita della Germania.

Questo asse è servito per tranquillizzare, per un certo numero di anni, i tedeschi, evitando le derive nazionalistiche più radicali. Ma la crisi sociale interna che ha prodotto, l’aumento della povertà e della precarietà, il mancato “catching up” socio-lavorativo della ex DDR, l’inevitabile crescente compromissione nei programmi di aiuto finanziario alla Grecia, con l’altrettanto inevitabile, per quanto distruttivamente prorogata nel tempo, ristrutturazione del suo debito (che vede proprio la Germania fra i principali creditori) hanno fatto cedere questo argine. La Spd ha rimediato il risultato elettorale peggiore della sua storia, la Merkel si è ritrovata senza maggioranza di Governo e con i suoi alleati della Csu bavarese pericolosamente occhieggianti alle posizioni anti-immigrazione ed euroscettiche di Afd.

Allora è inutile nascondersi la verità profonda di quello che sta succedendo in Germania: il problema, qui, non è il fallimento di un accordo di Governo, ma, molto più strutturalmente, il cedimento di un argine a destra che, sinora, aveva consentito al modello tedesco di riprodursi ed essere governato stabilmente. Ora, con ogni probabilità, si tornerà ad elezioni anticipate, che però non faranno altro che ribadire l’ingovernabilità del Paese, magari spostando altre quote di elettorato della Cdu verso Afd, o consentendo ad una Spd più collocata a sinistra di recuperare qualche decimale di elettorato deluso, cannibalizzando la Linke oppure riportando piccoli numeri di astensionismo verso il voto. Ma anche le nuove elezioni non ricostituiranno, se non artificiosamente, l’asse spezzato, che si rabbercerà per dare un governo al Paese, ma in condizioni di grande difficoltà. La Germania sarà comunque meno governabile con gli assetti di potere degli ultimi anni, anche il ruolo personale di garanzia della Merkel ne uscirà indebolito. E la politica non ammette spazi vuoti. La deriva verso destra ricostruirà un nuovo equilibrio, che probabilmente all’europeismo predatorio mirato all’espansione dell’ordoliberismo sostituirà una chiusura nazionalistica e con forme pseudo-protezionistiche, oltre che la richiesta di politiche monetarie immediatamente più severe. Si realizzerà, forse, una delle profezie che molti di noi, me compreso, facevano in questi anni: l’euro è una creatura della Germania. E solo la Germania potrà ammazzare la sua creatura. Si astengano dall’entusiasmo i sovranisti vari: il nuovo equilibrio di potere che prenderà vita in Germania potrà fare solo due cose: o estinguere l’euro facendone pagare il prezzo agli altri (sotto varie forme, dalle più banali – il rimborso del debito estero denominato in euro, alle meno banali, l’estinzione di politiche monetarie di bassi interessi, con relativo strangolamento delle economie reali) o creare nuovi vincoli di governance di moneta e mercato unico ancor più gravosi per i partner (cfr. le proposte di Scaheuble, oppure all’idea di un euro a due velocità, in cui la deflazione dei costi via tasso di cambio sarebbe rigidamente controllata entro fasce ristrette ed in cambio di ulteriori riforme strutturali interne).

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