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Di Maio & M5S: Parigi val bene una messa?

di Mario Monforte

La frase è rimasta famosa, e viene usata per indicare giravolte politiche, anche di 180 gradi, a fini (ritenuti) piú importanti delle posizioni sostenute in precedenza. Non è inutile ricordare che è attribuita a colui che, il 25 luglio 1593, divenne re di Francia come Enrico IV (detto poi «il Grande»), che, da protestante («ugonotto»), per ascendere al trono “si fece” cattolico. La posta in gioco (Parigi, capitale del regno di Francia) valeva il rinnegamento del protestantesimo per il cattolicesimo.

Non è questo anche il caso di Di Maio & M5S? Di Maio è andato negli Usa a rassicurare il “grosso” alleato (per modo di dire) del nostro paese sugli intenti “tranquilli” di un futuro (eventuale) governo M5S (ma già con l’ambasciata Usa in Italia c’erano stati rapporti, con lo stesso Grillo), riconoscendo il “valore” della Nato; si è incontrato con esponenti della Chiesa, chiaramente dando “garanzie” su nessun “torbido” con la Chiesa stessa, in caso di futuro governo M5S; da tempo ha affermato che non c’era nessun contrasto con l’Ue in quanto tale, semmai con “alcune” sue politiche, e ora un esponente M5S ha conseguito un posto nella Commissione difesa dell’Ue. Inoltre Di Maio prende tutte le distanze dai partiti (detti) «euroscettici», mentre nel movimento ogni polemica con l’euro, nei fatti, è stata messa da parte, e nemmeno si criticano piú le sanzioni alla Russia, ma si dubita della loro «efficacia». E Di Maio afferma che adotterà la “politica di Trump” di forti tagli di tasse alle imprese.

Realpolitik, si dirà: nella prospettiva di giungere a un successo elettorale prossimo venturo che consenta a Di Maio & M5S l’incarico di governo, si mira a spazzare via ogni accusa di cosiddetto «populismo» e ogni contrasto con i “potenti” (Usa, Ue, Chiesa, padronato interno ed esterno) rispetto tale possibile “ascesa” non a Parigi, ma a Roma. C’è da chiedersi: tale realismo è sostanzialmente una tattica per sgombrare il campo alla meta agognata dai 5S di conseguire il governo dello Stato italico, per poi fare “altro”? Di sicuro, è questa l’idea che se ne fa almeno parte di “adepti” del M5S, mentre è altrettanto sicuro che molti altri se ne fregano e acconsentono, convinti: «è cosí che si deve fare». Ed è questo il dubbio che coltiveranno (usandolo nella propaganda elettorale) gli avversari, di sinistra e di destra. Al che Di Maio & M5S dovranno, per forza di cose, ribadire tali posizioni, sempre nella linea di spuntare ogni arma all’opposizione e raccogliere il massimo di consensi: poi … “si opererà”.

Ma resta anche da chiedersi: è, questo, solo “realismo” strumentale o è “realismo” tout court? Infatti, guardando alle posizioni prima espresse dallo stesso Grillo e dal M5S (sull’Ue, sull’euro, su Russia e sanzioni, sul ruolo della Chiesa, sull’esigenza di dare una vera prospettiva “altra” al contesto socio-economico del paese, e cosí via), quelle presenti sono una svolta-giravolta. E se si tratta di “realismo” e basta, quindi proprio di “svolta” o giravolta  il che potrebbe essere attestato anche dal fatto che il M5S insiste, da sempre, su trasparenza, chiarezza, no a menzogne, niente “trucchetti”, ecc. , si prospetta un duplice esito. Da un lato, si concorre a lasciare la testa della “gente”, già tanto confusa quanto bloccata dalla scatenata mistificazione mediatica, incrementata nel presente e nei suoi “parametri” come «unico mondo possibile»; dall’altro, si prospetta un (eventuale) governo M5S situato nella presente e generale politica del mezzo-e-mezzo: Ue-euro sí, ma con proposte di “correzioni”; Nato sí, ma vediamo come opera; sanzioni alla Russia sí, ma queste sono controproducenti; Chiesa sí, ma vanno stabiliti rapporti corretti; questa economia sí, ma con “correzioni” innovative (dal meno tasse al «reddito di cittadinanza»), e piú spesa statale, pur in deficit. E, una volta imboccato il “realismo”, si andrà di “realismo” in “realismo”, cioè: dal possibile al probabile e dal probabile all’esistente. E alla sua gestione. Come nelle gestioni comunali in atto, in cui non c’è alcun “salto” avanti (al di là dei “problemi” a Roma, che non è comunque gestibile come fosse “un” semplice Comune, dato che, con la città e i dintorni supera le dimensioni di uno Stato quale la Danimarca), bensí, al piú, una conduzione, che si pone come “piú corretta”, dell’esistente.

Poco incoraggiante, ancor meno esaltante, per niente sufficiente a riscattare il paese e la sua popolazione dal disastro in cui continua ad affondare, e su tutti i piani (nonostante gli ottimismi di governo, politici e media: solo «narrazioni», stonate). E dunque, «Parigi val bene una messa»: ma lo vale davvero?

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