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sinistra

Quel che resta di Auschwitz

di Salvatore Bravo

Agamben, in Quel che resta di Auschwitz, mette in pratica la virtù filosofica dell’eterotopia. Il termine, coniato da M. Foucault per indicare un processo di destrutturazione dei linguaggi consolidati, consente di analizzare secondo una nuova prospettiva il significato dei campi di sterminio. Pone al centro, un problema che si tende ad eludere, a non osservare, perché parla di noi, dell’occidente e della sua storia. La Gorgone è ciò che non si può guardare, è il fondo a cui ci trascina la visione dell’impossibile che diventa possibile, dopo Auschwitz l’impossibile diverrà possibilità realizzata. L’impossibile può ancora accadere. La filosofia è nella domanda di chi ha deciso di guardare il dolore del mondo1

Che nel "fondo" dell’umano non vi sia altro che una impossibilità di vedere - questa è la Gorgona, la cui visione ha trasformato l’uomo in non-uomo. Ma che proprio questa non umana impossibilità di vedere sia ciò che chiama e interpella l’umano, l’apostrofe da cui l’uomo non può distrarsi - questo, e non altro è la testimonianza. La Gorgona e colui che l’ha vista, il musulmano e colui che testimonia per lui, sono un unico sguardo, una sola impossibilità di vedere”

La Gorgone da guardare senza fuggire, senza celarsi in inutili giustificazioni è ancora tra di noi. Il musulmano è l’uomo ridotto a pura vita, a solo bios. E’ il trionfo del tempo cronologico, lineare, omogeneo ed omologante.

Il musulmano non è solo il deportato la cui vita ridotta ad ente, a cosa, è mezzo per la produzione, il musulmano è in ogni vita reificata al punto da trasformarsi in corpo che respira perché disabitato dall’io. Oggi assistiamo al ritorno della figura del musulmano. La colonizzazione della mente e del corpo stanno trasformando generazioni e popoli in soggetti abitati dal capitale. Le violenze improvvise, la crudeltà e l’efferatezza di certi casi di cronica, il disagio mentale diffuso ci parla di una condizione vitale minacciata dalla competizione, dalla violenza del linguaggio della quantificazione. La lettura di tali fenomeni resta astratta, per cui si respinge e condanna il musulmano ad una vita in cui il tempo è solo cronologico, pura successione di un eterno ripetersi del ciclo consumo- produzione – distruzione. Intere generazioni sono condannate alla negazione di sé, a misurare le loro esistenze all’ombra del mercato globale. La solitudine del musulmano è nell’assenza di un tessuto sociale ed emancipativo capace di trasformare il dolore in consapevolezza politica, in progetto di liberazione collettivo mediante la concettualizzazione del dolore. Il grande tradimento della pseudosinistra post ’89 è nell’aver accettato con la globalizzazione la naturalizzazione della condizione reificata.

Il movimento della domanda, l’eterotopia, inquieta ed invita a nuove domande, a nuovi livelli di coscienza a cui non ci si può sottrarre. La domanda che pone Agamben è nell’orizzonte del “nerbo” di Auschwitz, lo sguardo posato sull’impossibile vorremmo respingerlo, ma come l’angelo novus di Benjamin solo se lo sguardo regge la prospettiva della Gorgone la speranza potrà dimorare tra noi. Il nerbo di Auschwitz non ha testimoni, non ci sono le parole di coloro che furono oggetto di un esperimento antropologico. Agamben analizza il campo di sterminio dalla prospettiva dei musulmani, ovvero di coloro che erano rifiutati dagli altri prigionieri poiché si lasciavano morire senza lottare, si consumavano nella carne, in loro si coglieva l’ibrido, una nuova presenza: un essere al limite tra la persona e la cosa. Erano la testimonianza che non vi è natura umana. Che dell’essere umano si può fare tutto, anche l’inaudito. In assenza di una natura umana razionalmente condivisa, il nulla, il nichilismo realizza la sua opera. Uomini senza storia, senza nomi, ridotti a pura vita biologica, sono la testimonianza priva di parole del campo di sterminio. Tra l’umano e l’inumano, vi sono uomini che non appartengono all’umanità, ma non sono cose, sono enti indefiniti ed indefinibili. Sono in una linea nella quale si dipana e compare la violenza del nichilismo. Il musulmano descritto da Levi nei suoi testi, è un uomo ripiegato su se stesso, non ha relazione con se stesso e con gli altri, è solo carne esposta alla violenza della storia. Il campo di sterminio è la realizzazione assoluta della razionalità senza logos. Per cui sottratto il logos non resta che un uomo minimo, un sottouomo, riconoscibile nella sua umanità dalla solo forma biologica: il musulmano. Il motivo per cui si decise di chiamarli in tal modo non è chiaro, probabilmente per la posizione che assumevano, somigliante ad un musulmano in preghiera.

Il campo di concentramento svela un’altra verità: l’abitudine allo stato di eccezione. L’intera realtà del campo era stata capace di trasformare l’eccezione in quotidiano. Il potere svela se stesso nei campi, nella sua verità incontravertibile.La linea di confine tra diritto e stato di eccezione si era estinta nella quotidiana tragedia del nichilismo, nella irrisione ad ogni limite2.

Auschwitz è precisamente il luogo in cui lo stato di eccezione coincide perfettamente con la regola e la situazione estrema diventa il paradigma stesso del quotidiano. Ma è proprio questa paradossale tendenza a ribaltarsi nel suo opposto che rende interessante la situazione-limite. Finché lo stato di eccezione e la situazione normale vengono, come avviene di solito, mantenuti separati nello spazio e nel tempo, allora essi, pur fondandosi segretamente a vicenda, restano opachi. Ma non appena mostrano apertamente la loro connivenza, come oggi avviene sempre più spesso, essi si illuminano l’un l’altro per così dire dall’interno. Ciò implica, tuttavia, che la situazione estrema non può più fungere, come in Bettelheim, da discrimine, ma che la sua lezione è piuttosto quella dell’immanenza assoluta, dell’essere "tutto in tutto". In questo senso, la filosofia può essere definita come il mondo visto in una situazione estrema che è diventata la regola (il nome di questa situazione estrema è, secondo alcuni filosofi, Dio).”

Lo stato di eccezione a cui tanto pericolosamente oggi ci stiamo abituando, assottiglia la differenza tra normale stato di diritto e sospensione degli stessi da parte di un non identificabile potere sovrano. L’economia con i suoi provvedimenti eccezionali continui, metafisica presenza, sottrae con i diritti sociali, il logos per restituirci un’umanità da “io minimo” sempre più china sul biologico. Il testo di Agamben si presta ad un’ulteriore eterotopia, ad una domanda che rifiutiamo di porre, i musulmani sono finiti con i campi, o nuove forme si stanno materializzando nell’omologazione delle voglie che sostituiscono i desideri. Generazioni schiacciate sull’utile da sistema rischiano di perdere il loro sentire consapevole che consente la relazione tra il dentro ed il fuori. L’autismo emotivo caratterizza i nuovi musulmani. La nuova caverna del capitalismo assoluto ha i suoi musulmani che non vogliamo vedere per non scoprirci uomini della zona grigia. Responsabilità della filosofia e il riposizionarsi epistemico per mostrare la realtà della caverna e rimettere in azione la storia. La sinistra deve riportare il Kairòs, ovvero il tempo qualitativo, il tempo che dà significato, il tempo della domanda e rompe con l’urlo della domanda che si trasforma in movimento, un nuovo tempo contro ogni forma di reificazione e colonizzazione delle menti. La sinistra deve dunque accogliere smascherare dietro la presenza scenica della società dell’abbondanza le sue contraddizioni. Ricostruire in modo genetico – genealogico i processi di sfruttamento, significa ridare voce a chi ritiene la condizione reificata un destino, e pertanto in una condizione di assenza di strumenti per decodificare le condizioni materiali del proprio dolore, diventa complice del proprio destino.


Note
1 Agamben,Quel che resta di Auschwitz, Bollati Boringhier,i Torino, 1998 pag. 30
2 ibidem 28

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