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alfabeta

L’invito al viaggio di Peter Sloterdijk

di Federico Francucci

Che cosa è successo nel XX secolo?, uscito in Germania nel 2016, raccoglie e risistema dodici scritti redatti nel decennio 2005-2015, originati in gran parte da occasioni pubbliche (lectures, inaugurazioni, celebrazioni) e orbitanti come satelliti attorno ai pianeti delle opere più voluminose: l’ultimo quadro della trilogia Sfere (Schiume, del 2004; Cortina 2015) e Il mondo dentro il capitale (2005; Meltemi 2006); Devi cambiare la tua vita (2009; Cortina 2010); infine Die Schrecklichen Kinder der Neuzeit (2014, più o meno Gli “enfants terribles” dell’età moderna), libro tanto stimolante quanto irritante che ha suscitato, e a ragione, le reazioni furibonde della critica di ispirazione marxista e/o illuminista, e che andrebbe tradotto in italiano, perché illustra come meglio non si potrebbe, oltre alla consueta vertiginosa intelligenza di Sloterdijk, che la voragine reazionaria sulla quale vorrebbe volare alto è sempre pronta ad abbracciarlo (mortalmente) non appena la sua virtuosa, ammirevole e geniale acrobatica dia segno di perdere d’intensità.

I due saggi che dovrebbero segnare la rotta principale di percorrenza di questa raccolta, dato che uno le presta il titolo e l’altro, in posizione incipitaria, allarga al secolo appena iniziato la riflessione condotta sul precedente, il ventesimo appunto, sono quelli se non sbaglio più imparentati al “libro dello scandalo”.

E da questi sarà bene cominciare, se è vero, come mi sembra, che qui il pensiero di Sloterdijk, oltre a confrontarsi in maniera diretta con “oggetti” estremamente ingenti, complessi e dibattuti in molti ambiti della cultura (la ricerca di un nome o di una formula, dispositivi simbolici potentissimi, per definire il Novecento in un caso, e nell’altro quella controversa “nuova” era geologica e geopolitico-culturale che, a partire dal 2000, si suole etichettare con il “virus semantico” Antropocene) fa i conti con una sua zona di ambiguità, uno spazio problematico non deciso che può orientarlo in direzioni assai diverse: l’acquiescenza sostanziale alle logiche del capitalismo immateriale e intensivamente predatore da una parte oppure, dall’altra, un’accesa attitudine polemica, sia pure postideologica e disincantata e astutamente odissiaca e ironico-strategica quanto si vuole, che quelle logiche dissesti dall’interno.

Sloterdijk comincia con l’adottare la proposta che Alain Badiou, definito “uno degli ultimi custodi del radicalismo perduto”, ha avanzato nel suo Le siècle (2005; Il secolo, Feltrinelli 2005), secondo la quale il Novecento non è il secolo delle ideologie, degli estremi o della tecnica, ma quello di una sfrenata “passione del reale” che mira ad attivare qui e ora (il filosofo tedesco conia l’etichetta di “Principio Subito”) una versione più autentica della realtà, nei confronti della quale ciò che in precedenza popolava la scena sbiadisce per, diciamo così, un intrinseco deficit ontologico. Ma il richiamo a Badiou serve a portare un attacco contro di lui e contro tutta la filiera di pensiero “rivoluzionario” moderno, a partire ovviamente dalla Rivoluzione Francese, che secondo Sloterdijk avrebbe commesso il grave errore teoretico di considerare la figura dell’avversario come qualcosa da soppiantare, da eliminare, e non qualcosa con cui entrare in una relazione di interdipendenza complessa e protratta nel tempo basata sull’inimicizia (parafrasando molto pro domo sua, e al limite della mistificazione, una nota pagina del giovane Marx, Sloterdijk parla di “principio sterministico”). Errore legato dunque alla più generale tendenza a ridurre drasticamente la complessità delle situazioni in nome di un’unica base, o radice, che dovrebbe rappresentarne la chiave di lettura dirimente, l’industria pesante dell’essere. Una lettura evidentemente malevola e semplicistica, questa, che non tiene in alcun conto né i tentativi diffusi compiuti, almeno a partire dagli anni Sessanta, di pensare con Marx oltre Marx (se ne può leggere un’interessante piccola summa nella discussione tra Toni Negri e Roberto Esposito che apre il volume a molte voci Effetto “Italian Thought”, Quodlibet 2017), né, per insistere su Badiou, del suo sforzo (che ha portato al monumentale Logiques des mondes, 2006) di combinare un’idea forte di verità e di evento rivoluzionario con una teoria del mondo complesso.

A quelle che qui chiama “galere ontologiche della modernità” Sloterdijk contrappone da molto tempo una filosofia della ricchezza costitutiva dell’essere e della molteplicità delle iniziative individuali, basata sul principio dello sgravio o esonero, secondo il quale il percorso della modernità sarebbe coinciso con un gigantesco aumento dei livelli di comfort e di lusso (o “vizio”) prodotto da una profonda reinterpretazione attiva (o ristrutturazione) della realtà in termini di artificio. Fatti indubitabili, questi. E tuttavia qui si arriva al primo vero punto critico interno di questo pensiero, alla cui analisi in fondo lavorano tutti gli altri saggi del volume. Lo sgravio dipende infatti in larghissima parte dalla diffusione delle innovazioni tecniche, le quali però a loro volta gravano, e pesantemente, fondate come sono sullo sfruttamento delle risorse di combustibili, sul pianeta Terra (e, sarebbe doveroso aggiungere, su un gran numero di suoi disgraziati abitanti). Quando l’“espressionismo cinetico” dell’Occidente arriva al limite della sua sostenibilità materiale (Sloterdijk sceglie come campione emblematico di questo evento Phileas Fogg, il protagonista del Giro del mondo in ottanta giorni, che, finito il carbone, fa bruciare il legno del battello su cui naviga per arrivare a Londra in tempo e vincere la sua scommessa: esempio perfetto di un lusso che si paga con l’autocombustione, con l’ovvio corollario che non sempre la realtà si adegua al lieto fine di Verne), e quando nel frattempo il ruolo dell’iniziativa individuale si riduce enormemente nei reticolati ipercomplessi degli scambi mondiali, producendo, nei singoli, quozienti sempre maggiori di rabbia e frustrazione, illusoriamente leniti con fitness, design e rifiuto del diverso (palestra, iPhone e fascismo per tutti!), tendenze queste di cui Sloterdijk ha dato una fenomenologia di insuperabile sottigliezza, verso dove mette la barra il timoniere?

Il filosofo rifiuta ogni ipotesi di decrescita, inoperosità, o destituzione dell’attivismo occidentale, convinto com’è che per gli umani la “ricerca del tesoro” e l’essere nel mondo coincidano. L’unica soluzione che gli rimane, a questo punto, è rinnovare l’apertura di credito concettuale alla tecnologia e azzardare una nuova “età del Sole” (dopo quella del carbone e del petrolio) come fonte rinnovabile, a cui però si potrà arrivare soltanto con un’imponente “limitazione delle emissioni di ignoranza”, vale a dire con una presa di consapevolezza su scala planetaria della necessità di pensare diversamente il nostro pianeta e il nostro soggiorno su di esso (a tale proposito, però, l’ottimismo paradossale e forse salutare con cui si chiudeva Sfere viene non revocato, ma rinviato al XXII secolo; per il XXI le previsioni sono quanto mai fosche). Se la Terra diventa la nostra astronave, come dice Sloterdijk riprendendo la proposta dell’architetto Buckminster Fuller, occorre evitare che le liti tra i membri dell’equipaggio compromettano l’unità di supporto vitale. E allora il discorso lungamente sviluppato negli anni da Sloterdijk sulle culture come bolle psichiche (o “psicodinamiche”) di conservazione delle civiltà arriva a una nuova fase. Se ogni cultura è un sistema di domesticazione di chi la abita, che garantisce al suo interno una convivenza tendenzialmente stabile, nei confronti del suo esterno, ossia delle altre culture, ogni cultura si comporta come un animale selvaggio (è un sistema “domesticante non domesticato”). Bisogna dunque intraprendere una “domesticazione di secondo grado”, e ciò è possibile solo sgonfiando le pretese o piuttosto i sogni di centralità e di identità forte coi quali ciascuna cultura, in modo sempre più fantasmatico e forse perciò più violento, si intrattiene.

Forse il ruolo di intellettuale pubblico che Sloterdijk ha fortemente cercato in questi anni, e prima ancora la costante riscrittura e deflazione in senso antropologico della tradizione filosofica occidentale da lui praticata, dovrebbero servire proprio a compiere questa evangelizzazione (concetto carissimo all’autore), a portare la novella che, per esempio, la raggiunta “condizione astronautica”, il poter cioè mantenere in orbita stazioni spaziali con equipaggio umano a bordo, interessa in realtà tutti gli uomini perché dice loro che ormai che concetti preastronautici e potenzialmente polemogenici come “casa”, “patria”, “nazione” e simili non possono più avere corso senza una radicale ridefinizione in senso ironico-relativistico. E credo vada letto in questo senso anche il saggio su Derrida (Il filosofo nel castello degli spettri), presentato come nuovo interprete dei sogni del “centro”, ossia del pensiero e delle élites europei, che li rivela come definitivamente de-centrati e privi di un fondamento pesante.

Ma, nelle élites finanziarie e politiche con cui Sloterdijk ha qualche volta flirtato, c’è davvero qualcuno disposto ad ascoltare seriamente questa buona novella? Guardandosi in giro, è lecito dubitarne.


Peter Sloterdijk: Che cosa è successo nel XX secolo?, traduzione di Maria Anna Massimello, Bollati Boringhieri, 2017, 281 pp., € 26

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